Applicazioni (e aberrazioni) giurisprudenziali 
del multiculturalismo

di Adele Orioli

Senza volere entrare qui nel merito della storia del concetto tanto di multiculturalismo quanto ancor prima di cultura in sé [1], interessa piuttosto offrire un veloce sguardo sugli effetti sostanziali che il multiculturalismo, quale criterio interpretativo metagiuridico, è passibile di produrre nelle sue concrete applicazioni. Sulla base di questo principio si assiste, infatti, ad una progressiva e tendenziale diversificazione dello status e delle regole normalmente valide per tutti i cittadini di un paese, onde rispettare le differenti identità culturali.  
Diversificazione che si può atteggiare e modulare sotto svariati profili e in differenti misure e intensità. Può consistere in vantaggi particolari: la scelta del giorno di riposo lavorativo e/o scolastico, ad esempio, com’è previsto anche in Italia a seguito di Intesa per gli appartenenti alla confessione ebraica [2] (e informalmente previsto dalla nostra classe politica nel fissare le date elettorali …). Giuridicamente può inoltre consistere in esenzioni da divieti e obblighi viceversa generali; si pensi ad esempio alla possibilità per popolazioni indios, aborigene e native americane di cacciare specie faunistiche protette in via di estinzione, ma anche alla garanzia data in Italia ai Cristiani Avventisti, prima dell’abolizione della coscrizione obbligatoria, di accedere esclusivamente al servizio civile.
Ancora, il tipico caso di scuola che vede nel Regno Unito gli appartenenti alla religione sikh senza obbligo di casco in caso di guida di motoveicoli. Peraltro sempre sikh sono i poliziotti albionici che hanno recentemente chiesto elmetti antisommossa indossabili sopra ai turbanti, decisamente più preoccupati – ma non certo suffragati dalle leggi statistiche – da una rivolta dei portuali dei dock che da un incidente stradale. E su questo punto è possibile notare come in Gran Bretagna, grazie al multiculturalismo, si è approdati ad una peculiare modulazione del “bene-salute”, massimamente disponibile da parte del singolo. Singolo che può altresì venir meno al dovere di solidarietà sociale, poiché le eventuali lesioni causate dal mancato utilizzo del casco restano a carico della collettività.
Per tornare alla terza possibile forma dell’atteggiarsi giuridico del multiculturalismo, essa può consistere in esimenti e attenuanti di diversa intensità, destinate per ovvia natura ad avere una specifica rilevanza nel diritto penalistico-sanzionatorio. Nel gettare uno sguardo dentro e fuori dall’Italia è possibile identificare con buona  approssimazione tre grossi gruppi di  “approcci normativi“ alla questione.
Con il  primo (presente in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti) si è vista la progressiva affermazione di veri e propri ordinamenti penali paralleli, attraverso il cosiddetto “sentencing circle”, giurisdizione che vede la compartecipazione, a fianco del giudice statale, dei capi delle comunità locali. Anche in Colombia e Perù, peraltro, troviamo simili procedure sanzionatorie di carattere consuetudinario a favore delle popolazioni indigene, con esplicita rilevanza giuridica esimente dell’“errore culturalmente condizionato”. Molti parlano, a questo proposito, di sistema derivato dal “senso di colpa dei colonizzatori” …
Il secondo e più delimitato tipo di approccio rinuncia ad applicare alcune norme del diritto penale sostanziale a individui di determinati gruppi etnici. Le leggi statali abbandonano quindi la neutralità, l’astratto egualitarismo a favore invece dell’ammissione di trattamenti speciali, a seguito di “eccezioni culturalmente fondate” [3].
Il terzo, al contrario dei primi due, non è un atteggiarsi di matrice normativa, ma giurisprudenziale: nulla dice la legge, ma all’atto pratico, nei tribunali, la colpevolezza dei membri delle minoranze può risultare scemata o addirittura del tutto esclusa (si parla a tal proposito di “cultural defense”, concetto strettamente legato a quello dei cosiddetti “reati culturali”, i “cultural offences”) [4].
Nei paesi europei si fronteggiano antiteticamente il modello multiculturalista e il modello assimilazionista, che prevede l’assoluta neutralità dello Stato a difesa di un’uguaglianza da intendersi in senso strettamente formale (tipico il caso francese, con il divieto in luoghi pubblici di tutti i segni religiosi “ostensibles”). Vi è anche chi individua una “terza via”, meno marcata, specificatamente riguardante il fenomeno migratorio, che attraverso l’istituzionalizzazione della precarietà agisce tramite scelte politiche che favoriscono il ritorno in patria dell’immigrato (in Danimarca, ad esempio).
Il punto è che il multiculturalismo può  tradursi in un forte incentivo al processo definito di “balcanizzazione”, che chiude ogni possibile osmosi o comunicazione tra le diverse culture e finisce inevitabilmente per reprimere qualsivoglia integrazione. Anzi, quasi offre le basi per l’incertezza del sistema istituzional-giuridico nel suo complesso. Ma soprattutto viene violato, più o meno intensamente, il fondamentale parametro dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, degradando in qualche modo i diritti fondamentali di ogni individuo a pallidi interessi legittimi subordinati all’accettazione di questi da parte della comunità di appartenenza. Un multiculturalismo puro, inteso come negazione di una dimensione universale dell’esperienza umana, lascia senza alcuna difesa il singolo, di fronte a un pluralismo culturale che mette in questione lo stesso diritto alla libertà. A tutto ciò, già di non poco conto, si aggiunga il fatto che le attenuazioni della pena, le eccezioni alla legge generale legate esclusivamente all’appartenenza culturale (ove per cultura si intende anche e solo, tout-court, religione) non solo pregiudicano la funzione deterrente delle norme, ma minano la stessa capacità di orientamento dei comportamenti del singolo.
A questo proposito un esempio tutto tricolore. Nel 2008 la Cassazione ha annullato (rinviando in Corte d’appello) la condanna a 1 anno e 4 mesi di reclusione e a 4 mila euro di multa per illecita detenzione a fine di spaccio inflitta al signor Giuseppe G., trovato dai carabinieri con circa un etto di marijuana. Ma il signor G. si è dichiarato rastafariano e quindi fumatore d’erba solo in base ai precetti della sua religione che ne consentono l’uso fino a 10 grammi al giorno [5]. La sentenza 28270 della Sesta Sezione penale della Suprema Corte ha ritenuto, infatti, «fondato» il ricorso, perché i giudici di merito non avevano considerato «la religione di cui l’imputato si è dichiarato praticante» escludendo, pertanto, che potesse detenere un simile quantitativo di marijuana per esclusivo uso personale. Gli Ermellini in sentenza argomentano sulla marijuana quale 
«… erba meditativa, come tale possibile apportatrice dello stato psicofisico teso alla contemplazione nella preghiera, nel ricordo e nella credenza che l’erba sacra sia cresciuta sulla tomba di re Salomone, chiamato “il re saggio” e da esso ne tragga la forza». Ora, del tutto a prescindere dalla posizione di chi scrive, peraltro ferocemente antiproibizionista, resta il fatto che secondo la legislazione vigente la marijuana è una sostanza stupefacente illecita non detenibile (né consumabile). Se è così, così dovrebbe esserlo per chiunque, senza ulteriori valutazioni. Però …
La previsione di “diritti collettivi culturali” (così come di “attenuanti collettive culturali”) sacrifica i diritti individuali fondamentali, incrementando la segregazione del gruppo e privilegiando esclusivamente i leader delle comunità e non certo i singoli appartenenti. Infatti, postulare l’impossibilità di giudicare le varie culture, concedendo loro acriticamente pari dignità e pari tutela “in una sorta di connubio tra un malinteso concetto di democrazia coniugato con il più assoluto relativismo culturale” [6] significa a conti fatti accettare – o quantomeno non porre obiezioni a – la poligamia, il lavoro minorile, l’infibulazione … Rischio quest’ultimo che si è corso da vicino anche in Italia. Prima, infatti, dell’emanazione della specifica L. 7/2006 contro le mutilazioni genitali femminili (e senza voler ricordare la proposta di alcuni parlamentari di permettere l‘operazione presso le ASL, previo pagamento del ticket), fu chiesta e ottenuta l’archiviazione nei confronti di due genitori nigeriani, perché “pratica accettata nelle tradizioni locali” e quindi “non penalmente rilevante”, in considerazione anche del fatto che l’operazione fu effettuata in clinica.
Per restare in Europa, spesso la Germania è stata a tal proposito oggetto di critiche, ad esempio per aver concesso l’assistenza sanitaria alle seconde, terze e quarte mogli “se la poligamia corrisponde al diritto del paese d’origine”, ma anche per numerose sentenze “multiculturali pure”, per così dire. Qualcuno forse ne ricorderà una in particolare, che arrivò a provocare qualcosa di molto simile ad una vera e propria crisi diplomatica fra l’Italia e il governo tedesco. Il tutto a proposito della decisione del Tribunale di Buckeburg, in Bassa Sassonia, di scontare la pena (già non particolarmente severa, prevedendo la legge tedesca un massimo di 15) da 8 a 6 anni ad un ventinovenne cagliaritano emigrato che per tre settimane aveva recluso, picchiato, drogato e violentato la fidanzata lituana, sospettata di tradimento. Sconto di pena proprio perché … sardo [7]. E quindi portatore, non troppo sano parrebbe, di “attenuanti etniche e culturali”, stante la perdurante primitività della cultura isolana. L’allora governatore della Sardegna, Renato Soru, commentò laconicamente “Gli imbecilli esistono”,  mentre il sottosegretario alla Giustizia, Luigi Manconi, parlò di “razzismo differenzialista”. Però …
Nei paesi di common law il public prosecutor, l’equivalente del nostro pubblico ministero, è libero di esercitare o meno l’azione penale sulla base del principio di opportunità per reati a sfondo culturale. In Italia, a parte l’obbligatorietà dell’azione penale, l’ambito riconosciuto alla pubblica accusa è molto più ridotto e in materia non esistono per ora leggi speciali (sempre che tali non si vogliano considerare le Intese stipulate con le confessioni religiose, creatrici a nostro sommesso parere di un multiculturalismo multilevel tipicamente italiano …). La fattispecie del delitto d’onore, ad esempio, è stata abolita nel 1981, ma in ogni caso e situazione resta però sempre possibile la valutazione discrezionale da parte del giudice di fattispecie processuali (attenuanti, motivi di particolare valore morale e sociale, errore di diritto scusabile), che permettono al multiculturalismo ufficialmente lasciato fuori dalla porta di rientrare agevolmente dalla finestra.
Nel 2008, per dirne una, un giudice di pace de L’Aquila ha concesso l’attenuante della “provocazione” a un egiziano che aveva malmenato un ignaro idraulico, reo di essersi presentato a casa sua, peraltro dietro appuntamento e di aver parlato (solo parlato, nonostante le facili battute evocate da leggende erotico-metropolitane che riguardano idraulici e affini) con la di lui moglie, nonostante l‘assenza di uomini della famiglia. Si è ritenuto, infatti, non poter prescindere dal valutare la personalità dell’imputato, “influenzato dalla cultura del suo paese d’origine” e quindi giustificato nel suo sentirsi provocato e offeso nell’onore [8]. E non è stato forse l’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, nel corso di una lezione sull’Europa tenuta all’Università Kore di Enna, a ravvisare la possibilità delle attenuanti per motivi di particolare valore morale (sic!) per il padre e lo zio di Hina Saleem (la ragazza pakistana uccisa brutalmente in provincia di Brescia nell’agosto 2006), perché “c’è una esasperazione assoluta in questo omicidio terribile, però c’è una forte identità religiosa”[9]? La potenza devastante di quel “però”, al di là del singolo episodio, resta incommensurabile.
Chi scrive continua a ritenere che nessuna società possa esistere se basata sui “però”, senza affermare dunque una cultura dominante, capace di stabilire i principi-base, uguali per tutti, della convivenza civile. E se non è capace di fondare valori condivisi e di farli condividere, è inevitabilmente destinata alla dissoluzione. Sempre a spese dell’individuo.


Note
[1] Si veda a tal proposito Uscire dal gregge, Luca Sossella Editore, 2008, scritto con Raffaele Carcano.
[2] Si veda in particolare l’art. 4 della L. 101/1989.
[3] A. Barazzetta, Casi giurisprudenziali in materia di multiculturalismo.
[4] F. Basile, Società multiculturali. Immigrazione e reati culturalmente motivati, Riv. It. Proc. Penale, 2008.
[5] Il Giornale, 11 luglio 2008.
[6] A. Barazzetta, cit.
[7] Il Sole24ore, 12 ottobre 2007.
[8] Corriere de L’Aquila,  2 settembre 2008.
[9] Corriere della Sera, 23 ottobre 2006.