Scontri di culture o ghetti identitari? Due sfide per la laicità

di Raffaele Carcano


Sotto l’impero ottomano, le comunità di fede minoritarie (dette millet: le diverse confessioni cristiane, gli ebrei) potevano determinarsi autonomamente in alcuni ambiti, quali il diritto di famiglia e le eredità. All’interno di quelle comunità, patriarchi cristiani e rabbini svolgevano a loro volta funzioni di governo, di indirizzo e di rappresentanza nei confronti del potere centrale. Il sistema durò per secoli con piena soddisfazione dei sultani: costoro, tuttavia, non avrebbero mai immaginato di poter costituire, un giorno, l’antecedente logico di alcune società occidentali. Eppure è accaduto. Sta accadendo.
Non è facile definire il multiculturalismo. O forse è fin troppo facile: se è indubbio che, ai giorni nostri, l’idea di una società rigorosamente monoculturale possa essere coltivata soltanto da autocrati e se l’accettazione del pluralismo delle idee è un elemento insostituibile, proprio perché fondante, di ogni nazione che si pretenda democratica, ne discende che le società non possano non essere multiculturali. Per multiculturalismo, tuttavia, s’intende di solito qualcos’altro: una corrente di pensiero, sempre più influente, che teorizza sistemi politici che pongono al centro, anziché gli individui, le comunità. Di qui il nome con cui sono conosciuti i suoi sostenitori: comunitaristi.
Il loro alfiere più noto è probabilmente Charles Taylor, un cattolico canadese. Guarda caso, proprio in Canada, nel 1971, per la prima volta il multiculturalismo è stato adottato ufficialmente da un governo, quale criterio-guida per far fronte alle crescenti rivendicazioni della minoranza francofona del Québec. Negli anni Ottanta, tuttavia, l’attenzione per le minoranze etniche o linguistiche ha lasciato il posto a quella per le comunità di fede, e il multiculturalismo è diventato, de facto, sinonimo di multiconfessionalismo. È questa l’interpretazione ormai prevalente, come si può per esempio riscontrare nel più importante paese europeo ad averlo fatto proprio, il Regno Unito. Oltremanica trova la sua traduzione pratica più rilevante nelle cosiddette faith schools, le scuole private (ma finanziate con soldi pubblici) dove gli insegnamenti (creazionismo compreso) sono impartiti nel pieno rispetto delle dottrine religiose delle comunità che le aprono.
Un aspetto interessante del dibattito intorno al multiculturalismo è la sua “traduzione” politica. La destra, perlomeno quella conservatrice, ha sempre fatto del sostegno alla confessione religiosa predominante un punto centrale dei propri programmi, improntati dunque a un approccio monoculturale: non si può non notare come odierni fenomeni quali l’ateismo devoto abbiano radici antiche (l’Action française di Charles Maurras per esempio) e, anche se sono lontani i tempi in cui cercava di imporre autoritativamente «una sola fede» a «un solo popolo in una sola patria», resta il fatto che l’idea che gli esseri umani siano irrimediabilmente destinati a restare confinati nelle culture, o meglio ancora nelle religioni in cui sono per puro caso cresciuti, continua a essere sostenuta con decisione, come ben dimostra la diffusione della teoria dello scontro delle civiltà avanzata da Samuel Huntington [1]. Per contro la sinistra, che fin dalle sue lontane origini negli anni della Rivoluzione francese aveva fatto dell’égalité di tutti i cittadini un proprio fiore all’occhiello, negli ultimi anni sembra essersi “convertita” a un modello che finisce per trasferire tale principio di uguaglianza dagli individui alle comunità. Significativamente, l’abbandono dell’universalismo è stata una delle prime scelte del New Labour di Tony Blair: un uomo proveniente dalla sinistra, molto attento (fin troppo attento, anche come coinvolgimento personale) alle istanze religiose. È stato lui il padre dei provvedimenti che hanno donato al Regno Unito la sua fisionomia multiculturale [2].
La contrapposizione tra i due modelli c’è ed è evidente, ma è di fondamentale importanza capire che poggiano entrambi sullo stesso assunto: l’umanità è condannata a restare divisa in gruppi, e gli individui, fin dalla nascita, sono costretti a far parte di uno di questi gruppi, sorta di ghetti in cui le comunità tendono a rinchiudersi lasciando ben poche possibilità di poterne fuoriuscire [3]. Ne consegue che la differenza tra gruppi predominanti e gruppi di minoranza è soprattutto una, il grado di accesso al potere, e non è dunque un caso che le comunità religiose si rivelino più riformiste e multiculturaliste quando si trovano in minoranza, e più conservatrici e monoculturaliste quando sono invece maggioranza. Si veda, a mo’ d’esempio, il largo consenso storicamente espresso in favore dei democratici USA da ebrei e cattolici, o l’ampio sostegno a favore del Congress Party indiano da parte di musulmani, cristiani e fedeli di altre religioni del subcontinente. Una diffusa «doppia morale», dunque, che la stessa Chiesa cattolica ha fatto propria fin da tempi remoti: «la massima della separazione più o meno radicale della Chiesa dallo Stato, se può sembrare il minor male là dove diverse confessioni religiose si contendono il predominio ed il governo non è tenuto da cattolici, non può non apparire oltraggiosa verso Dio là dove il cattolicesimo ha la prevalenza» [4].
Il concetto di laicità, invece, è sempre stato inteso come possibilità di rapporti paritetici sotto l’egida dell’universalità del diritto. La crescente fortuna che il multiculturalismo riscuote a sinistra mette ora in difficoltà i laici, che nel corso della storia hanno storicamente combattuto i monoculturalisti. In molti paesi europei si è inevitabilmente creata una tensione (se non una vera e propria frattura) tra i partiti di sinistra e l’elettorato più sensibile alla separazione tra Stati e Chiese, preoccupato che in tal modo qualsivoglia tipo di comportamento socio-
culturale, anche il più ripugnante, possa in qualche modo essere legittimato. Nel Regno Unito (dove si è assistito a un travaso di voti “laici” dal Labour ai libdem) i sikh, a cui è stato concesso di indossare il turbante al posto del casco quando viaggiano in motocicletta, hanno già rilanciato e chiedono che per i confratelli appartenenti alle forze dell’ordine si inventino speciali copricapi antiproiettile, religiously correct; gli indù chiedono di poter cremare i propri cari sulle rive dei fiumi britannici, nei quali poter poi riversare le ceneri; e Lord Phillips, il giudice più alto in grado in Inghilterra e Galles, ha dichiarato lo scorso anno che la sharia, la legge religiosa islamica, «può avere un ruolo nel sistema giudiziario britannico», pur negando che si debba arrivare all’istituzione di tribunali islamici. La proposta di un’adozione quantomeno parziale della sharia era stata del resto lanciata, solo pochi mesi prima, addirittura dallo stesso arcivescovo anglicano di Canterbury, Rowan Williams; quasi che, in società profondamente colpite dai fenomeni di secolarizzazione, anche i leader delle confessioni di maggioranza (relativa) si sentano ormai più sicuri se tutte le confessioni religiose saranno in grado di blindare il proprio gregge all’interno del proprio ovile.
Una volta avviato il meccanismo multiculturale, però, non c’è modo di frenare le rivendicazioni: come giustificare, per esempio, il divieto a una pratica così diffusa e “tradizionale” come l’infibulazione? Quando poi le rivendicazioni sono fondate sulla dottrina di una religione, e quindi ritenute “divinamente fondate”, diventa ancora più difficile respingerle: i fedeli griderebbero subito alla violazione della libertà religiosa. In una religione à la page come il buddhismo tibetano i cadaveri sono tradizionalmente frantumati e abbandonati in posti isolati, affinché gli animali possano cibarsene: come può questa tradizione (peraltro relativa, perché la religione tradizionale del Tibet è il Bön) essere compatibile con le legislazioni sanitarie vigenti? E una volta che sia per assurdo accolta, come impedire ai parsi (gli zoroastriani indiani) di costruire le loro ancor più tradizionali torri del silenzio, dove i cadaveri sono lasciati alla mercé degli avvoltoi?
Il riconoscimento delle comunità religiose va ovviamente di pari passo con il riconoscimento dello status sociale dei loro leader: nella camera dei Lord, dove storicamente siedono anche i vescovi anglicani quali Lords Spiritual (attualmente 26), negli ultimi anni hanno trovato posto anche un leader sikh, un rabbino e perfino il leader islamico, Nazir Ahmed, accusato da diverse parti di antisemitismo e noto per aver violentemente criticato la concessione del cavalierato a Salman Rushdie. Il governo britannico ha recentemente presentato un progetto volto a «incrementare la presenza di altre tradizioni religiose alla camera dei Lord»: i vescovi cattolici scozzesi l’hanno giudicato favorevolmente, pur esprimendo la preferenza per l’elezione di fedeli che, pur «non appartenenti al clero», abbiano comunque «l’esplicito mandato di rappresentare gli interessi e le preoccupazioni della Chiesa cattolica».
Ciononostante, è stato il premier Gordon Brown a proporre, senza ricevere contestazioni da parte cattolica, la nomina a Lord del cardinale Cormac Murphy-O’Connor. Comunità di fede che si autoregolamentano e i loro leader nelle stanze del potere: proprio come le millet ottomane. Gordon Brown non avrà probabilmente fatto una piega quando lo stesso Murphy O’Connor, che a suo dire «non solo ha mostrato una grande modestia, ma anche una grande sensibilità nel rappresentare i sentimenti dei cattolici», ha dichiarato che gli atei non sono «totalmente umani» e che l’incredulità «è il più grande dei mali». Certo, ogni organizzazione deve essere lasciata libera di darsi norme di convivenza interna illiberali e di lasciarsi guidare da personaggi intolleranti (purché sia garantita la libertà di entrarne e uscirne), ma non si comprende proprio per quale motivo i governi debbano valorizzare siffatte organizzazioni. Che abbiano ancora l’idea, cara a Voltaire, che le religioni rappresentino un fattore di coesione sociale, che «se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo»? Non la pensa così la maggioranza dei cittadini inglesi, che in diversi sondaggi hanno espresso l’opinione che le religioni siano, al contrario, divisive. Peraltro, che il modello inglese sia ormai entrato in crisi l’ha abbondantemente mostrata la strage di Londra del 7 luglio 2005, compiuta da cittadini britannici di religione musulmana, cresciuti in comunità radicali e culturalmente isolate.
Nel 2008 il multiculturalismo è stato messo in discussione persino in Canada: una commissione pubblica ha infatti stabilito che il modello locale «non appare molto adatto alle condizioni del Québec», avendo tralasciato di interconnettere le diverse comunità. Potrà forse sorprendere sapere che al vertice di quella commissione c’era anche Charles Taylor. La sua parabola (che ai suoi occhi non è affatto tale) è significativa: nel 2007 si è portato a casa il Premio Templeton, quella sorta di ricchissimo Nobel, assegnato a coloro che fanno «progredire» la religione, già oggetto degli strali di Richard Dawkins [5]; per nulla casualmente, la commissione canadese non ha saputo proporre, come elemento di riconciliazione tra le comunità, altro che la vecchia «anima francofona» del Québec, mostrando ancora una volta l’incapacità di uscire dallo schema binario monoculturalismo/multiculturalismo.
Cosa pensano e auspicano gli uomini e le donne che non fanno e non intendono far parte di alcun gruppo non è dato sapere: a far le spese dello schema binario sono soprattutto loro: privi di una rappresentanza in grado di proteggerli davanti al potere, si ritroveranno presto con ancora minori diritti, se quello stesso potere intende riconoscerli soltanto ai gruppi. Un sistema politico, ha ricordato il premio Nobel Amartya Sen, dovrebbe innanzitutto mettere in condizione gli individui, «attraverso le opportunità sociali di istruzione e partecipazione alla società civile e al progresso politico ed economico del paese, di compiere scelte ragionate» [6]. Un obiettivo che né il monoculturalismo né il multiculturalismo sembrano in grado di assicurare compiutamente.
Il modello italiano si situa a cavallo delle due correnti di pensiero. Il vecchio monopolio cattolico, fondato sul Concordato fascista, da 25 anni ha lasciato il posto a una specie di multiconfessionalismo multilevel, una struttura piramidale che continua ad avere al vertice la Chiesa cattolica; attraverso la stipula di Intese sono stati riconosciuti diritti ad alcune confessioni religiose; ad altre ancora no, perché subiscono l’ostracismo parlamentare di devoti fedeli di quella stessa Chiesa che vanta lo status privilegiato. Chi non crede è in ogni caso tagliato fuori: senza diritti, senza rappresentanza, senza interlocutori politici capaci di esprimere le loro istanza. L’UAAR è un tentativo di rispondere a questa palese discriminazione. Un tentativo molto ambizioso: voler rappresentare gli atei e gli agnostici ottenendo per loro, e non per sé o per i suoi dirigenti, quei diritti di cui al momento non dispongono. Una sfida che non è solo giuridica, ma anche, si sarà ormai capito, culturale. Né mono- né multi-; in nome semmai di quella pluralità di identità e di interessi, intellettuali e non, di cui ogni individuo che ha liberamente scelto di coltivarli è e sarà sempre unico possessore.


Note
[1] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000.
[2] Per una critica “da sinistra” al multiconfessionalismo del New Labour, cfr. Eric J. Hobsbawm, Identity Politics and the Left, in «New Left Review», 1996.
[3] Per una trattazione molto più ampia di questo aspetto rimando al libro da me scritto insieme ad Adele Orioli, Uscire dal gregge (Luca Sossella Editore, 2008).
[4] Enciclopedia cattolica (Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, 1948-1954), volume III, p. 1503.
[5] Richard Dawkins, L’illusione di Dio, Mondadori, 2008, per es. pp. 67-72, 102, 154-156.
[6] Amartya K. Sen, Identità e violenza, Laterza, 2006, p. 152.

 

 

Sotto l’impero ottomano, le comunità di fede minoritarie (dette millet: le diverse confessioni cristiane, gli ebrei) potevano determinarsi autonomamente in alcuni ambiti, quali il diritto di famiglia e le eredità. All’interno di quelle comunità, patriarchi cristiani e rabbini svolgevano a loro volta funzioni di governo, di indirizzo e di rappresentanza nei confronti del potere centrale. Il sistema durò per secoli con piena soddisfazione dei sultani: costoro, tuttavia, non avrebbero mai immaginato di poter costituire, un giorno, l’antecedente logico di alcune società occidentali. Eppure è accaduto. Sta accadendo.

Non è facile definire il multiculturalismo. O forse è fin troppo facile: se è indubbio che, ai giorni nostri, l’idea di una società rigorosamente monoculturale possa essere coltivata soltanto da autocrati e se l’accettazione del pluralismo delle idee è un elemento insostituibile, proprio perché fondante, di ogni nazione che si pretenda democratica, ne discende che le società non possano non essere multiculturali. Per multiculturalismo, tuttavia, s’intende di solito qualcos’altro: una corrente di pensiero, sempre più influente, che teorizza sistemi politici che pongono al centro, anziché gli individui, le comunità. Di qui il nome con cui sono conosciuti i suoi sostenitori: comunitaristi.

Il loro alfiere più noto è probabilmente Charles Taylor, un cattolico canadese. Guarda caso, proprio in Canada, nel 1971, per la prima volta il multiculturalismo è stato adottato ufficialmente da un governo, quale criterio-guida per far fronte alle crescenti rivendicazioni della minoranza francofona del Québec. Negli anni Ottanta, tuttavia, l’attenzione per le minoranze etniche o linguistiche ha lasciato il posto a quella per le comunità di fede, e il multiculturalismo è diventato, de facto, sinonimo di multiconfessionalismo. È questa l’interpretazione ormai prevalente, come si può per esempio riscontrare nel più importante paese europeo ad averlo fatto proprio, il Regno Unito. Oltremanica trova la sua traduzione pratica più rilevante nelle cosiddette faith schools, le scuole private (ma finanziate con soldi pubblici) dove gli insegnamenti (creazionismo compreso) sono impartiti nel pieno rispetto delle dottrine religiose delle comunità che le aprono.

Un aspetto interessante del dibattito intorno al multiculturalismo è la sua “traduzione” politica. La destra, perlomeno quella conservatrice, ha sempre fatto del sostegno alla confessione religiosa predominante un punto centrale dei propri programmi, improntati dunque a un approccio monoculturale: non si può non notare come odierni fenomeni quali l’ateismo devoto abbiano radici antiche (l’Action française di André Malraux, per esempio) e, anche se sono lontani i tempi in cui cercava di imporre autoritativamente «una sola fede» a «un solo popolo in una sola patria», resta il fatto che l’idea che gli esseri umani siano irrimediabilmente destinati a restare confinati nelle culture, o meglio ancora nelle religioni in cui sono per puro caso cresciuti, continua a essere sostenuta con decisione, come ben dimostra la diffusione della teoria dello scontro delle civiltà avanzata da Samuel Huntington [1]. Per contro la sinistra, che fin dalle sue lontane origini negli anni della Rivoluzione francese aveva fatto dell’égalité di tutti i cittadini un proprio fiore all’occhiello, negli ultimi anni sembra essersi “convertita” a un modello che finisce per trasferire tale principio di uguaglianza dagli individui alle comunità. Significativamente, l’abbandono dell’universalismo è stata una delle prime scelte del New Labour di Tony Blair: un uomo proveniente dalla sinistra, molto attento (fin troppo attento, anche come coinvolgimento personale) alle istanze religiose. È stato lui il padre dei provvedimenti che hanno donato al Regno Unito la sua fisionomia multiculturale [2].

La contrapposizione tra i due modelli c’è ed è evidente, ma è di fondamentale importanza capire che poggiano entrambi sullo stesso assunto: l’umanità è condannata a restare divisa in gruppi, e gli individui, fin dalla nascita, sono costretti a far parte di uno di questi gruppi, sorta di ghetti in cui le comunità tendono a rinchiudersi lasciando ben poche possibilità di poterne fuoriuscire [3]. Ne consegue che la differenza tra gruppi predominanti e gruppi di minoranza è soprattutto una, il grado di accesso al potere, e non è dunque un caso che le comunità religiose si rivelino più riformiste e multiculturaliste quando si trovano in minoranza, e più conservatrici e monoculturaliste quando sono invece maggioranza. Si veda, a mo’ d’esempio, il largo consenso storicamente espresso in favore dei democratici USA da ebrei e cattolici, o l’ampio sostegno a favore del Congress Party indiano da parte di musulmani, cristiani e fedeli di altre religioni del subcontinente. Una diffusa «doppia morale», dunque, che la stessa Chiesa cattolica ha fatto propria fin da tempi remoti: «la massima della separazione più o meno radicale della Chiesa dallo Stato, se può sembrare il minor male là dove diverse confessioni religiose si contendono il predominio ed il governo non è tenuto da cattolici, non può non apparire oltraggiosa verso Dio là dove il cattolicesimo ha la prevalenza» [4].

Il concetto di laicità, invece, è sempre stato inteso come possibilità di rapporti paritetici sotto l’egida dell’universalità del diritto. La crescente fortuna che il multiculturalismo riscuote a sinistra mette ora in difficoltà i laici, che nel corso della storia hanno storicamente combattuto i monoculturalisti. In molti paesi europei si è inevitabilmente creata una tensione (se non una vera e propria frattura) tra i partiti di sinistra e l’elettorato più sensibile alla separazione tra Stati e Chiese, preoccupato che in tal modo qualsivoglia tipo di comportamento socio- culturale, anche il più ripugnante, possa in qualche modo essere legittimato. Nel Regno Unito (dove si è assistito a un travaso di voti “laici” dal Labour ai libdem) i sikh, a cui è stato concesso di indossare il turbante al posto del casco quando viaggiano in motocicletta, hanno già rilanciato e chiedono che per i confratelli appartenenti alle forze dell’ordine si inventino speciali copricapi antiproiettile, religiously correct; gli indù chiedono di poter cremare i propri cari sulle rive dei fiumi britannici, nei quali poter poi riversare le ceneri; e Lord Phillips, il giudice più alto in grado in Inghilterra e Galles, ha dichiarato lo scorso anno che la sharia, la legge religiosa islamica, «può avere un ruolo nel sistema giudiziario britannico», pur negando che si debba arrivare all’istituzione di tribunali islamici. La proposta di un’adozione quantomeno parziale della sharia era stata del resto lanciata, solo pochi mesi prima, addirittura dallo stesso arcivescovo anglicano di Canterbury, Rowan Williams; quasi che, in società profondamente colpite dai fenomeni di secolarizzazione, anche i leader delle confessioni di maggioranza (relativa) si sentano ormai più sicuri se tutte le confessioni religiose saranno in grado di blindare il proprio gregge all’interno del proprio ovile.

Una volta avviato il meccanismo multiculturale, però, non c’è modo di frenare le rivendicazioni: come giustificare, per esempio, il divieto a una pratica così diffusa e “tradizionale” come l’infibulazione? Quando poi le rivendicazioni sono fondate sulla dottrina di una religione, e quindi ritenute “divinamente fondate”, diventa ancora più difficile respingerle: i fedeli griderebbero subito alla violazione della libertà religiosa. In una religione à la page come il buddhismo tibetano i cadaveri sono tradizionalmente frantumati e abbandonati in posti isolati, affinché gli animali possano cibarsene: come può questa tradizione (peraltro relativa, perché la religione tradizionale del Tibet è il Bön) essere compatibile con le legislazioni sanitarie vigenti? E una volta che sia per assurdo accolta, come impedire ai parsi (gli zoroastriani indiani) di costruire le loro ancor più tradizionali torri del silenzio, dove i cadaveri sono lasciati alla mercé degli avvoltoi?

Il riconoscimento delle comunità religiose va ovviamente di pari passo con il riconoscimento dello status sociale dei loro leader: nella camera dei Lord, dove storicamente siedono anche i vescovi anglicani quali Lords Spiritual (attualmente 26), negli ultimi anni hanno trovato posto anche un leader sikh, un rabbino e perfino il leader islamico, Nazir Ahmed, accusato da diverse parti di antisemitismo e noto per aver violentemente criticato la concessione del cavalierato a Salman Rushdie. Il governo britannico ha recentemente presentato un progetto volto a «incrementare la presenza di altre tradizioni religiose alla camera dei Lord»: i vescovi cattolici scozzesi l’hanno giudicato favorevolmente, pur esprimendo la preferenza per l’elezione di fedeli che, pur «non appartenenti al clero», abbiano comunque «l’esplicito mandato di rappresentare gli interessi e le preoccupazioni della Chiesa cattolica».

Ciononostante, è stato il premier Gordon Brown a proporre, senza ricevere contestazioni da parte cattolica, la nomina a Lord del cardinale Cormac Murphy-O’Connor. Comunità di fede che si autoregolamentano e i loro leader nelle stanze del potere: proprio come le millet ottomane. Gordon Brown non avrà probabilmente fatto una piega quando lo stesso Murphy O’Connor, che a suo dire «non solo ha mostrato una grande modestia, ma anche una grande sensibilità nel rappresentare i sentimenti dei cattolici», ha dichiarato che gli atei non sono «totalmente umani» e che l’incredulità «è il più grande dei mali». Certo, ogni organizzazione deve essere lasciata libera di darsi norme di convivenza interna illiberali e di lasciarsi guidare da personaggi intolleranti (purché sia garantita la libertà di entrarne e uscirne), ma non si comprende proprio per quale motivo i governi debbano valorizzare siffatte organizzazioni. Che abbiano ancora l’idea, cara a Voltaire, che le religioni rappresentino un fattore di coesione sociale, che «se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo»? Non la pensa così la maggioranza dei cittadini inglesi, che in diversi sondaggi hanno espresso l’opinione che le religioni siano, al contrario, divisive. Peraltro, che il modello inglese sia ormai entrato in crisi l’ha abbondantemente mostrata la strage di Londra del 7 luglio 2005, compiuta da cittadini britannici di religione musulmana, cresciuti in comunità radicali e culturalmente isolate.

Nel 2008 il multiculturalismo è stato messo in discussione persino in Canada: una commissione pubblica ha infatti stabilito che il modello locale «non appare molto adatto alle condizioni del Québec», avendo tralasciato di interconnettere le diverse comunità. Potrà forse sorprendere sapere che al vertice di quella commissione c’era anche Charles Taylor. La sua parabola (che ai suoi occhi non è affatto tale) è significativa: nel 2007 si è portato a casa il Premio Templeton, quella sorta di ricchissimo Nobel, assegnato a coloro che fanno «progredire» la religione, già oggetto degli strali di Richard Dawkins [5]; per nulla casualmente, la commissione canadese non ha saputo proporre, come elemento di riconciliazione tra le comunità, altro che la vecchia «anima francofona» del Québec, mostrando ancora una volta l’incapacità di uscire dallo schema binario monoculturalismo/multiculturalismo.

Cosa pensano e auspicano gli uomini e le donne che non fanno e non intendono far parte di alcun gruppo non è dato sapere: a far le spese dello schema binario sono soprattutto loro: privi di una rappresentanza in grado di proteggerli davanti al potere, si ritroveranno presto con ancora minori diritti, se quello stesso potere intende riconoscerli soltanto ai gruppi. Un sistema politico, ha ricordato il premio Nobel Amartya Sen, dovrebbe innanzitutto mettere in condizione gli individui, «attraverso le opportunità sociali di istruzione e partecipazione alla società civile e al progresso politico ed economico del paese, di compiere scelte ragionate» [6]. Un obiettivo che né il monoculturalismo né il multiculturalismo sembrano in grado di assicurare compiutamente.

Il modello italiano si situa a cavallo delle due correnti di pensiero. Il vecchio monopolio cattolico, fondato sul Concordato fascista, da 25 anni ha lasciato il posto a una specie di multiconfessionalismo multilevel, una struttura piramidale che continua ad avere al vertice la Chiesa cattolica; attraverso la stipula di Intese sono stati riconosciuti diritti ad alcune confessioni religiose; ad altre ancora no, perché subiscono l’ostracismo parlamentare di devoti fedeli di quella stessa Chiesa che vanta lo status privilegiato. Chi non crede è in ogni caso tagliato fuori: senza diritti, senza rappresentanza, senza interlocutori politici capaci di esprimere le loro istanza. L’UAAR è un tentativo di rispondere a questa palese discriminazione. Un tentativo molto ambizioso: voler rappresentare gli atei e gli agnostici ottenendo per loro, e non per sé o per i suoi dirigenti, quei diritti di cui al momento non dispongono. Una sfida che non è solo giuridica, ma anche, si sarà ormai capito, culturale. Né mono- né multi-; in nome semmai di quella pluralità di identità e di interessi, intellettuali e non, di cui ogni individuo che ha liberamente scelto di coltivarli è e sarà sempre unico possessore.

Note

[1] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000.

[2] Per una critica “da sinistra” al multiconfessionalismo del New Labour, cfr. Eric J. Hobsbawm, Identity Politics and the Left, in «New Left Review», 1996.

[3] Per una trattazione molto più ampia di questo aspetto rimando al libro da me scritto insieme ad Adele Orioli, Uscire dal gregge (Luca Sossella Editore, 2008).

[4] Enciclopedia cattolica (Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, 1948-1954), volume III, p. 1503.

[5] Richard Dawkins, L’illusione di Dio, Mondadori, 2008, per es. pp. 67-72, 102, 154-156.

[6] Amartya K. Sen, Identità e violenza, Laterza, 2006, p. 152.