L’invenzione del cosmo e l’abolizione del cielo

di Federica Turriziani Colonna

 

La rivoluzione astronomica legata — macroscopicamente — ai nomi di Copernico e di Galilei mutò radicalmente l’immagine del mondo che si era andata costituendo nel corso dei secoli; la sua portata fu sconvolgente, non soltanto perché con essa venivano inficiate l’autorità del divino Aristotele e la sacralità delle Scritture, ma anche perché — e ciò non è secondario — essa proponeva un modello cosmologico altamente controintuitivo. Si trattava, in ogni caso, di proporre — sebbene questa volta con il prezioso ausilio di uno strumento nuovo qual era il cannocchiale — un’immagine del mondo, un modello cosmologico. «Dinanzi alle costellazioni, noi siamo dei vermi dalla vista annebbiata», fa dire Brecht a Galileo; la percezione di ciò che c’è sopra le teste umane era — e resta — un insieme di puntini brillanti e immobili su uno sfondo scuro, di punti più luminosi e mobili, di luce che rischiara lo sfondo fino alle tonalità dell’azzurro e che intervalla il tempo secondo scansione regolare; ma dare struttura coerente a un caleidoscopio di percezioni, unificandole in un modello matematico è ben altro. E sotto questo aspetto, ogni teoria cosmologica — tanto l’antica quanto la moderna — merita attenzione, almeno in quanto costruzione tutt’altro che ovvia e scontata: l’invenzione del cosmo fatta dagli antichi non è meno ingegnosa dell’abolizione del cielo operata dai moderni.

Proviamo a ripercorrere le tappe che hanno condotto i pensatori antichi a immaginare che il loro mondo avesse certe fattezze e non altre: sono un osservatore, prima ancora che un filosofo; alzo gli occhi, e cosa vedo? Una cupola gigantesca chiusa sopra di me; la chiamo, se sono di lingua greca, ouranos — che suona simile al verbo orao, che indica il vedere: il cielo è dunque ciò che vedo — oppure, se parlo latino, chiamo questa cupola con il nome di caelum — simile questa volta al verbo celo, che significa nascondere: la mia immaginazione mi consente di pensare implicitamente, davanti allo spettacolo di una cupola enorme, che ci sia alcunché oltre, al di là di essa; il che non significa tuttavia che esista un oltre, per ora solo pensabile. L’oltre — devo accontentarmi — non è che il convesso pensato in relazione alla concavità del cielo. E la nozione di cupola naturale si delinea nella mia mente assieme alla capacità che vedo nei miei simili di costruire abitazioni, chiuse appunto da una cupola, che dunque protegge, avvolgendo. Il cielo è dunque chiuso, lo capisco dal fatto che non vedo altro oltre il blu di cui è dipinto. Continuo a osservare: sulla cupola celeste brillano dei piccoli puntini bianchi; percepisco il loro movimento come lento e solidale, tale cioè che le posizioni reciproche di quei puntini restano sempre le medesime; esso scandisce quello che a me piace chiamare anno. Ne deduco che le stelle — così le ho chiamate — sono infisse nel cielo, che è un firmamentum, se parlo latino: è luogo delle stelle fisse, firmae; esso dunque gira e le fa girare. La terra su cui poggio i piedi è invece irrimediabilmente immobile, e per di più giace al centro di questa sfera; già, una sfera! Cosa mi impedisce di pensare che la cupola sopra la mia testa non sia che la metà di una sfera?

Guardando meglio, mi par di vedere che alcune tra le stelle hanno un movimento indipendente dalle altre, e mi sembrano più luminose, e forse sono anche più vicine a me; si muovono in avanti, poi tornano indietro, poi ancora in avanti, come volteggiando su un tracciato riccioluto. Sono erranti, perciò le chiamo, nella mia lingua greca, col nome di planetes, che mi sembra descrivere al meglio il loro moto assai peculiare. Saturno, Giove, Marte, Venere, Mercurio: sono i miei dèi, eccoli là!

Mi sorge però una domanda: com’è possibile che non mi cadano addosso? Cosa li sorregge? Devono esserci altre sfere, certo. Ma c’è un problema: come accade che io riesco a vedere contemporaneamente tutti i pianeti, se ciascuno è infisso nella sua propria sfera che lo trasporta alla sua propria velocità? Non dovrei che vedere il più vicino di essi… Be’, forse quelle sfere sono trasparenti, anzi, cristalline. Sì, ecco, è proprio così.

A intervalli ben più brevi che gli anni e i mesi, indicatimi dalle stelle e dai pianeti, mi sembra di poter distinguere fra il dì e la notte. Chiamo dì quel tempo in cui la cupola è chiara, piena della luce che emana dal Sole: altra sfera, questa, che mi gira attorno, sotto il limite del cielo; il suo moto è piuttosto veloce, inizia in un punto che chiamo destra, e termina nella sinistra. E i luoghi assumono un significato preciso — sto diventando filosofo — a sinistra il Sole va a morire, insieme al dì, così questa sinistra non mi piace affatto: d’ora in avanti chiamerò sinistro ogni evento triste. L’ultimo, il più vicino dei corpi celesti, lo chiamerò Luna; i moti che vedo nel cielo mi sembrano così perfetti, ormai prevedibili — già, lo sono, ora che, con il sussidio di calcoli matematici, ho costruito il cosmo — mentre qui, sulla Terra, tutto è così irregolare, così poco perfetto… questo mondo sublunare è dominato da eventi parziali, le cose nascono e muoiono continuamente; nel cielo sopralunare, al contrario, non vedo di questi mutamenti. C’è un abisso, una differenza ontologica tra questi due mondi.

Fu così che, verosimilmente, gli antichi costruirono il loro sistema, cervellotico, certo; era un modello che necessitava di numerosi calcoli, di epicicli che spiegassero perché i pianeti si avvolgono a ricciolo nel loro moto errante, ma, tutto sommato, tale sistema riusciva a dar conto dei fenomeni. E il paradigma cosmologico che immaginarono sopravvisse a lungo. Ma, come ogni teoria, iniziò a invecchiare, poiché chiedeva di essere aggiornata continuamente, per sopravvivere; e, d’altra parte, diveniva sempre più ingombrante, appesantita com’era da troppi calcoli, sempre nuovi. Il sistema aristotelico-tolemaico non era più in grado di spiegare i fenomeni, così iniziava a giustificare se stesso.

Poi fu la volta delle navigazioni — «io ho in mente che tutto sia incominciato dalle navi» dice ancora il Galileo di Brecht — e degli artigiani; si apriva un’epoca nuova, di scoperte e di invenzioni; ci fu chi, come Bruno, ebbe il coraggio di demolire l’autorità degli antichi, fantasticando che il cosmo — chiuso — fosse in realtà un universo — aperto — pieno di innumerevoli altri mondi come il nostro, e chi trovò invece il coraggio di puntare una semplice composizione di lenti lassù, in cielo, contribuendo alla demolizione di quel sistema ormai in rovina.

Galilei accolse l’ipotesi copernicana che non fosse il Sole a girare intorno alla Terra, ma viceversa, che la Terra ruotasse, insieme a tutti gli altri pianeti, intorno al Sole; e convalidò tale teoria, destinata a sostituirsi alla cosmologia antica, con l’evidenza dei fatti. Non fu però solo: insieme a lui, molti furono gli astronomi e i matematici autori della rivoluzione cosmologica: Tycho Brahe — oltre a proporre un sistema geo-eliocentrico alternativo a quello copernicano, e a dir poco bizzarro e improbabile, in cui la Terra era immobile al centro del sistema e attorno a essa ruotavano la luna e il sole, che costituiva, quest’ultimo, un sistema a sé, attorno al quale ruotavano a propria volta tutti gli altri pianeti — fu anche il genio che abolì le sfere celesti, sostenendo che queste non fossero consistenti realmente, ma che andassero considerate, più astrattamente, come semplici tracciati matematici. D’altra parte, nel 1572 era stata avvistata una super-nova, vale a dire una stella nascente; la qual nozione contraddiceva la dottrina aristotelica dell’incorruttibilità dei cieli — essa avrebbe dovuto bucare le sfere celesti, se queste fossero esistite. Tale avvistamento fu alla base dell’uniformazione della fisica celeste a quella terrestre, cioè della negazione di ogni differenza intrinseca fra mondo sublunare e mondo sopralunare; la materia di cui erano composti i cieli non era più divina, era solo materia. E Galilei lo dimostrò, puntando il suo cannocchiale sulla Luna, la cui superficie appariva finalmente rugosa e imperfetta, montagnosa, proprio com’era la Terra dunque; né essa brillava di luce propria, anzi, su di essa risplendeva una luce che egli pensò come riflessa dal nostro pianeta. Si tratta dunque di costruzioni di immagini, che non sorgono spontaneamente se l’intelletto umano non unifica in esse la molteplicità dei fenomeni; e Galilei contribuì a costruire un nuovo sistema, innovativo e alternativo in ogni suo aspetto a quello degli antichi, che pure era stato, allora, una costruzione coerente.

Con l’utilizzo del cannocchiale, che annullava l’alone luminoso attorno alle stelle, mostrandone dimensioni diverse rispetto a quelle che erano state percepite sino ad allora a occhio nudo, e che soprattutto consentiva di vedere corpi mai visti prima, si ponevano due problemi: il primo, se l’alone luminoso appartenesse alle stelle stesse, o se fosse inerente alla vista umana — e su tale problema si innesta la distinzione, tanto decantata, fra qualità primarie e qualità secondarie; il secondo, se tale strumento consentisse di vedere corpi invisibili a occhio nudo, se cioè funzionasse come un microscopio, o se anzi avvicinasse corpi lontani, funzionando dunque come un telescopio. E tale problema ne sollevava un altro, dalla portata molto più ampia e, sì, anche metafisica. Il sistema è chiuso oppure è aperto? Viviamo in un mondo finito o in un universo infinito? In Copernico esso era ancora un mondo chiuso, ancorché immensum, vale a dire non misurabile per la sua grandezza. Lo stesso Galilei chiamava il suo cannocchiale perspicillum, il che significa che lo considerava strumento in virtù del quale si rendeva possibile guardare meglio, scorgendo il troppo piccolo; dunque, il mondo di Galilei è ancora un mondo chiuso; anzi, egli è perfettamente consapevole del fatto che non si è in grado di sapere come esso sia in effetti, non con certezza almeno, tanto che nel Dialogo sopra i due massimi sistemi fa dire da Salvati a Simplicio «né voi né alcun altro ha mai provato che il mondo è finito e dotato di figura o infinito e interminato». E lo stesso Descartes non ebbe il coraggio di dirlo infinito, attributo appropriato solo a Dio. Lo spazio divenne propriamente infinito nella lettura di More dell’opera di Descartes, secondo cui l’estensione indefinita poteva essere intesa, tout court, come spazio infinito.

Ma come andava inteso tale spazio infinito? Pieno o vuoto? Fu Newton che, in opposizione alla cosmologia cartesiana, introdusse la nozione di vuoto nell’universo; eppure, non si trattava ancora di quel vuoto fisico quale noi lo intendiamo, bensì di un vuoto spirituale, coincidente con il divino.

Come emerge, gli autori delle teorie cosmologiche sono sempre plurali, nessuno pensa in solitudine; né ci si possono aspettare da tali pensatori posizioni schiettamente ateistiche: alla domanda «esistono solo delle stelle? Dov’è Dio allora?», il Galileo di Brecht risponde «in noi, o in nessun luogo!». I filosofi, molto spesso, un Dio ce l’hanno, e anche gli uomini di scienza; ma quel Dio non piace a chi legge le Scritture, e allora i teologi da una parte e il popolo dall’altra, additano questi personaggi come atei, mentre i veri atei si rifiutano di accogliere tali personalità entro la sparuta cerchia di chi un Dio non ce l’ha, e li considerano troppo religiosi; il Dio dei filosofi è una strana cosa, non è un Dio personale, ma divino è per loro ciò di cui si fanno paladini, come divina è la materia di Bruno, oppure come lo spazio di Newton, che coincide con lo spirito.

 

Bibliografia

  • Bertolt Brecht. Vita di Galileo. Torino, Einaudi [1939], 1963.
  • Alexandre Koyré. Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, Feltrinelli [1957], 1988.
  • Giorgio Stabile. «Immagini del mondo dal tardo-antico a Newton» in L’Europa dei popoli. Roma, Editalia 1988.

Da L’ATEO 4/2009