AnimaL mundi

di Marco Accorti

Bastet, dea egizia, Gatto mammone, Stregatto, Felix il pornogatto, Gatto Silvestro, ma anche surrogato del coniglio in umido o economica pelliccetta. Da divinità a bestia infernale, da animale a cartone animato fino, oggi, a pet. E pure castrato. Mi sa che non derivi da to pet col significato di vezzeggiare, sbaciucchiare, coccolare, ma da pet nel senso di collera. Comunque queste sono le stelle e le stalle che abbiamo riservato al più eclettico dei nostri parenti. Da divinità amata nelle culture più antiche fu dura fare i conti con il monoteismo che non ammetteva che altri dèi sedessero alla stessa tavola. Gli stessi topi erano inviati sulla terra da Satana perché i gatti si potessero diffondere. Peccato che a forza di metterli al rogo in compagnia delle streghe e degli eretici, ne rimasero così pochi a piede libero da non riuscire più a contenere le frotte dei ratti pulciosi. Ma questa è un’altra storia: è quella della peste. Merita soltanto ricordare che solo con la rivoluzione francese ci si cominciò a domandare se valeva ancora la pena di continuare a bruciarli nella notte di San Giovanni.

Non che agli altri animali sia andata tanto diversamente, grazie a quella peculiarità che ci discrimina da loro, vale a dire la capacità di “trasformare”: come abbiamo creato gli dèi a nostra immagine e somiglianza, abbiamo anche trasformato a nostra fantasia e ridotto a nostra dimensione il mondo e i suoi viventi. Così, a forza di artificî selettivi e costrittivi, abbiamo popolato la nostra quotidianità di cani bolsi e nevrotici, gatti castrati, pesci e uccelli fantasmagorici tali e quali a noi: inurbati psicolabili, obesi, poco fecondi e mascherati da una moda spesso pagliaccesca. Nel bene e nel male abbiamo infuso loro quel soffio vitale che li rende quanto più “umani” possibile. Può essere stata l’utilità o l’estetica a determinare il nostro interesse, ma non si può certo sostenere che personificandoli abbiamo mai fatto il loro. Basta guardarsi intorno per rendersi conto della continua opera di antropomorfizzazione a cui abbiamo sottoposto non solo gli animali, ma l’intera biosfera. E se poi ci guardiamo indietro ci si accorge che da secoli ci siamo ingegnati a umanizzarli per attribuire loro le nostre paranoie.

Oggi come ieri. Oggi abbondano gli psicoterapeuti che al posto del divano hanno una cuccia, ma Girolamo Rorario1, nunzio di Clemente VII alla corte di Ferdinando di Ungheria, non solo narra di cavalli che pur di non coprire la madre si erano gettati da dirupi, ma anche di leoni che venivano crocifissi per spaventare i loro simili in modo che fuggissero temendo di subire la stessa pena. Il tutto per concludere che l’animale ha una sensibilità così marcata che, rispetto all’uomo, mostra una maggiore e naturale tendenza a comprendere e a temere le punizioni. E quando sgarrano? Tribunali, processi e condanne. Ecco allora maiali, cani, gatti, galli, insetti alla sbarra in una pantomima di avvocati di accusa e difesa e condanne analoghe a quelle inflitte agli umani rèi degli stessi reati.

Ovvio che non c’è la completa equiparazione: agli animali non è riconosciuta una vera e propria ragione morale, ma si sostiene che abbiano una sufficiente capacità di comprendere ciò che è per loro lecito e ciò che non lo è. Il tedesco Giovanni Crell (1590-1633) – soncinista sì2, ma almeno in questo per niente eretico in quanto buon interprete del pensiero che aveva percorso tutto il Medioevo – nella sua Etica cristiana sostiene proprio che la loro ragione inferiore (rationem inferiorem) sia bastevole per conoscere l’utile, il buono e la via retta prescritta da Dio; dunque hanno la facoltà, quindi la libertà, di scegliere e di agire. Per questo gli animali, al pari degli umani, sono degni di premio o di pena a seconda del loro comportamento.

In fin dei conti sono regole ancora vigenti in questa repubblica teocratica: ai pet, agli umanizzati più fedeli, viene ancora riconosciuta un’equiparazione premiale ovvero l’integrazione a pieno titolo nel contesto familiare, mentre invertiti e concubini sono fuori dalle regole catechistiche e per questo a loro non è concessa neppure la dignità che i patetici difensori dell’etica naturale concedono alle bestie. Già, chi offre amore, sostegno, condivisione e compartecipazione a un partner non è degno di nessun tipo di riconoscimento sociale. Gli animali invece, purché travestiti da pet, possono comparire sul 730 godendo delle detrazioni mediche, pardon, veterinarie. Insomma un single che convive con un pesce rosso fa famiglia, due umani che si amano “soltanto”, no.

Dunque un orso o un lupo che uccide un uomo non può essere processato perché segue la sua natura (ductum naturae suae), mentre un maiale che mangia un bambino, un cane che morde una persona, un cavallo che uccide lo stalliere a calci, ma anche un gallo che fa le uova o un gatto che pratica la magia infrangono le “regole divine” al pari di due conviventi more uxorio, tanto più se dello stesso sesso, in quanto compiono atti non conseguenti alla loro natura. Per questo erano passibili di essere sottoposti a un processo penale e il giudice, un laico, poteva infliggere loro le stesse pene previste per gli uomini. Non parliamo poi dei processi di bestialità che potevano prevedere per l’uomo e l’animale pene diverse a seconda delle rispettive “responsabilità”. Chi aveva cominciato la tresca? L’animale s’era lasciato andare a lascìvie o era rimasto indifferente? Ricordate la gallina adescatrice di Vedo nudo? Tuttavia non sembra che a questo tipo di processo fossero sottoposti tutti gli animali, anche se poi molti finivano lo stesso sulle braci ardenti; i pesci, ad esempio, dopo che talune spose insoddisfatte ne avevano fruito a mo’ dei moderni vibratori, pur incolpevoli finivano comunque arrosto nel piatto dei mariti con la speranza di risvegliare un po’ del loro appetito… sessuale3.

Al ductum naturae suae ricorrevano anche gli avvocati difensori degli insetti che invadevano i campi o predavano le colture invocando così l’assoluzione per i loro querelati in quanto non potevano essere puniti perché le erbe, i frutti e i semi sono i loro naturali nutrimenti. È per questo che agli artropodi veniva riservato un processo detto civile, ma poi gestito da un tribunale speciale: quello ecclesiastico. I processi erano detti civili in quanto riguardavano beni “terreni” (raccolti, colture, ecc.) e prevedevano una sentenza civile quale l’ingiunzione di sfratto dai fondi agricoli invasi. Ma quando nei tempi del processo gli invasori non sembravano accettare l’ordine di allontanarsi e di trasferirsi nei terreni incolti proposti come alternativa dal pubblico ministero, visto che erano pur sempre creaturine diddio a cui il mandante divino magari aveva attribuito il compito di punire i peccatori (Levitico XXVII), allora ci si affidava al locale giudice ecclesiastico che poteva così ricorrere al terribile anatema della scomunica con cui alla fine aveva sempre la meglio.

Miracolo? No, è che i tempi di questi processi erano talmente lunghi che nel frattempo gli insetti avevano potuto completare la loro naturale fase di sviluppo ed erano altrettanto naturalmente spariti. Se invece continuavano ad imperversare, be’ quella era proprio una punizione divina mandata per castigare la popolazione rea di qualche colpa. Insomma, santa madre chiesa cascava sempre ritta: o faceva bella figura mostrando il suo potere sugli insetti intascando così laute e riconoscenti prebende o raccoglieva dalla popolazione congrue elemosine a sconto dei peccati commessi. Merita soffermarsi ancora nel mondo dei bacherozzi, perché questi animaletti non sempre erano inviati per punire i peccatori, ma, per dirla con Sant’Agostino, per indurli in tentazione dal momento che potevano essere anche uomini trasformati in bestie a opera del demonio e quindi rappresentavano un pericolo serio4. «Benvenuto, benvenuto, o nostro antico signore. Voliamo, ronziamo e ti conosciamo bene. Zitto zitto, ci hai disseminati, uno ad uno, e ora, padre, ti veniamo incontro a migliaia». Goethe5, in quel padre e signore osannato dal coro degli insetti, vede Mefistofele, Signore delle tenebre e Creatore appunto dei Bacherozzi. In questo caso ci vogliono le maniere forti, il colpo di teatro: la maledizione.

E qui c’è d’aiuto Guglielmo, abate di San Teodorico di Reims, fedele testimone e cronista di come San Bernardo di Chiaravalle seppe risolvere l’increscioso caso di una tale invasione di mosche da impedire con il loro assordante ronzio la regolare celebrazione della messa inaugurale dell’abbazia di Froigny. Bernardo, infastidito da queste importune sicuramente mandate dal diavolo, andò così sul pesante che ci volle la pala per liberare la chiesa dall’enorme quantità di mosche fulminate da una maledizione ferale. Chi non ci crede può controllare: c’è un fedele reportage del Fiamminghino a documentare il fatto6. La cattiva nomèa delle mosche è stata un chiodo fisso anche per molti pittori che le hanno inserite quasi come messaggio subliminale in molte opere: valga per tutti il veronese Francesco Benaglio (1432-1492) che in due sue rappresentazioni le mette, pur minuscole, al centro della scena; roba da “aguzza gli occhi” forse perché l’anima burlona non gli mancava – era già stato incarcerato per dei murales profani e un po’ sconcetti con cui aveva imbrattato palazzo Sagramoso a Verona. Ebbene, in una Madonna con bambino la mosca è posata su una mela quale accoppiata della “tentazione”: la mela si sa, la mosca perché è molesta. Ne dipinge un’altra sulla spalla dell’immagine a tutto tondo di un personaggio dalla discussa interpretazione: dovesse indicare “un’anima inquieta” come suggerisce Rabano Mauro7 sarebbe San Girolamo, noto giramondo, per altri feroce attaccabrighe come il leone con cui spesso lo si rappresenta; se invece significasse “lussuria” come tramanda il Venerabile Beda8 allora si tratterebbe di Sant’Antonio abate9 e in questo caso la mosca starebbe al posto del maiale.

Per tornare alle maledizioni, non sempre il disinfestatore di turno ricorse a enunziati letali come quelli usati da San Bernardo, né ci si limitò al mondo degli invertebrati. A Sant’Agricolo, vescovo di Avignone, ne bastò una semplice per scacciare le cicogne che avevano invaso la città e i campi dopo una tempesta; con lo stesso sistema Sant’Ugo privò del veleno i serpenti che avevano invaso l’abitato di Aix-les-Bains. Qualche volta però i vescovi locali non bastavano: ecco allora nell’886 la scomunica risolutiva direttamente da papa Stefano V contro le cavallette della campagna romana. Traccheggiò tanto che, guarda caso, quando la pronunciò erano sparite.

E che funzionassero lo testimonia il mercato delle maledizioni: venivano acquistate, naturalmente a Roma, spesso da intermediari che poi le rivendevano in giro. Ne comprò un paio anche il Comune di Torino, una nel 1661 e una nel 1678, contro le gatte pelose che nonostante il nome non miagolavano, ma da bravi bruchi pelosi mangiavano le foglie delle viti. Insomma si salta il processo e la scomunica diventa una sentenza preconfezionata in un breve di Sua Santità. A onor del vero fra i due enunziati c’è una differenza e non di poco conto. Mentre il primo è confezionato secondo il classico stile della maledizione verso gli insetti, il successivo ribalta il punto di vista e consiste in una benedizione delle campagne. In fin dei conti fu proprio da “campagne benedette” che Innocenzo XI aveva avuto grandi soddisfazioni e le stragi dei turchi erano state sicuramente più gratificanti di quelle incerte contro i bacherozzi.

A parte scomuniche e maledizioni, proprio a ribadire la personificazione degli importuni invasori, ottimi risultati si ottenevano anche con gli esorcismi buoni contro ogni forma biologica. San Grato, vescovo ai tempi di Carlomagno, liberò la Valle d’Aosta dalle talpe benedicendo dell’acqua che fu poi aspersa dappertutto per chilometri con tale successo che accorsero da ogni dove per imparare questa tecnica. A fine 800 l’usò nuovamente un papa Stefano, ora VI, per scacciare le solite cavallette dall’agro romano e in Abruzzo, mille anni dopo, si usava ancora l’acqua di San Bartolomeo, una specialità locale, per debellare i vigneti questa volta da un fungo: la peronospora.

Ho scelto di parlare poco dei vertebrati superiori lasciando spazio agli insetti perché occorre riflettere sulla scarsissima considerazione di cui godono questi ultimi. Per la maggior parte delle persone non sono neppure animali. Bene che vada sono un fastidio. Eppure sono arrivati prima di noi, da loro dipendiamo e quando noi saremo scomparsi, perché continuando così sarà inevitabile, rimarranno a presidiare quel che resta del nostro pianeta. Meritano perciò quel rispetto e quella voce da sempre preclusi, col risultato di farne bersaglio di un entomocidio disastroso anche per noi. Gli insetti meno difesi, ma anche i più importanti per noi, sono i pronubi: da più di un secolo, con l’avvento della chimica e delle moderne pratiche agricole, vengono sempre più decimati tanto che oggi le api, nella più totale indifferenza, sono veramente in pericolo di scomparsa.

Eppure lo dovevamo sapere. Proprio un secolo fa il nostro principale entomologo agrario, Antonio Berlese, all’apparire dei primi trattamenti chimici, mise in guardia contro la «distruzione od almeno alla ingente ecatombe di api» perché «è certo che una perturbazione profonda nel vigente equilibrio deve accadere senza dubbio». Sarà perché i bacherozzi li manda il demonio, sarà perché non hanno occhioni teneri con cui guardarci né la capacità di rubare il nostro affetto e la nostra attenzione, fatto sta che non sono mai stati accolti neppure in quella sottocultura del «più conosco gli uomini, più amo gli animali», emblematico slogan di un’educazione basata sulla mancanza di rispetto delle varie forme di vita. Processare o scomunicare un maiale ha un significato diverso dal fare altrettanto nei confronti degli insetti e degli altri invertebrati. Nel primo caso si giudica e si punisce la personificazione di un singolo soggetto, nel secondo si mette in discussione un’intera popolazione, una cultura, un’etnia, una “razza”: gli insetti buoni – come gli zingari, gli ebrei, i negri, i miscredenti – sono solo quelli morti.

Per tornare ai processi, ancora oggi uno dei più completi riferimenti in proposito rimane un testo di fine ‘80010, da cui sono tratte molte delle notizie qui riportate, che elenca e documenta i 144 processi contro animali comprovati da un’attestazione ufficiale dall’821 fino al 1845, ma per lo più compresi fra il XV e il XVII secolo. Salta agli occhi come risultino accertati più che altro per Francia e Svizzera mentre pochi per l’Italia: solo 11 di cui 5 ai confini con questi due Paesi. Il perché va ricercato nelle difficoltà che la chiesa di Roma incontrò oltr’Alpe nel contenere le eresie e così le guerre di religione non furono condotte solo contro o fra uomini, ma ne fecero le spese anche le personalizzazioni delle varie forme biologiche. Ovviamente chi ci rimette è sempre chi ci sta più vicino, così gli animali da fatica, anch’essi protagonisti e vittime negli incidenti sul lavoro (cavalli, muli e asini), rappresentano la maggioranza relativa degli imputati (24%) e i maiali, allora usuali conviventi delle popolazioni urbane, non sono da meno (22%), ma merita sottolineare la marcata presenza degli invertebrati nelle loro varie forme (23%) sia perché sono i più famelici fra i nostri commensali sia perché evocano quel mondo ctonio da cui la chiesa faceva strumentalmente discendere le cause della miscredenza e degli scismi. Il tempo non dovrebbe passare invano e dobbiamo rallegrarci se oggi queste pantomime sono relegate nel folclore del tempo che fu e se gli animali sono guardati con occhi diversi. Ma dovremmo anche domandarci se quell’animalismo spesso chiesastico, fin troppo patinato e consumistico, riservi davvero a questi nostri parenti più o meno stretti il rispetto che meritano11.

Si dimentica che in seguito alla domesticazione si sono avute vitali modificazioni fisiche e comportamentali: ipotrofia di alcuni comportamenti (aggressività, difesa), ipertrofia di altri (riproduzione), atrofia di altri ancora come nel caso del corteggiamento. Insomma domandiamoci cosa rimane ai nostri coinquilini che non sia stato indotto dalle nostre forzature e quanto siano garantite “Le cinque libertà” assunte dalla SCAHAW (Scientific Committee on Animal Health and Animal Welfare) della Commissione Europea come indispensabili per definire corretta la loro convivenza con noi: (1) libertà dalla sete, dalla fame e dalla cattiva nutrizione, (2) dal disagio fisico e termico, (3) dalle malattie e dalle lesioni, (4) dall’annullamento del comportamento “normale”, (5) dal “timore”12.

Troppe volte il maltrattamento degli animali è derivato da erronee interpretazioni del diritto naturale, di quello divino e soprattutto delle «naturali tendenze dell’uomo che sente simpatia e compassione per gli animali mansueti e innocui»13. Queste parole non erano valide solo a metà del 1800 quando fu proposta per la prima volta in Italia la creazione di una “Società per la protezione degli animali”, lo sono forse ancor più oggi che questi nostri parenti hanno perso la loro innata identità per assumerne una a nostra immagine e somiglianza: quella di pet, bamboccioni sì coccolati, ma incazzati neri.

Note

  1. Quod animalia bruta ratione utantur melius nomine. Amsterdam 1654.
  2. Il soncinismo negava la trinità, che Cristo fosse consustanziale con il Padre e lo Spirito Santo e sosteneva che fosse stato generato da S. Giuseppe e non concepito dallo Spirito Santo, inoltre contestava il parto virginale della Madonna.
  3. Burcardo di Worms, Decretorum libri XX, p. 661: «Tollunt piscem vivum, et mittunt eum in puerperium suum, et tam diu ibi tenent, donec mortuus fuerit, et decocto pisce vel assato, maritis suis ad comedendum tradunt, ideo faciunt hoc, ut plus in amorem earum exardescan».
  4. De Civitate Dei, l. XVIII, cap. 18.
  5. Wolfgang Goethe. Faust. Mondadori 1965, II, p. 375 (libero adattamento della traduzione di Amoretti).
  6. Giovanni Mauro della Rovere detto il Fiamminghino (Milano 1575-1640), Tredici scene della vita di san Bernardo, Lenno (Como), Abbazia di S. Maria e dei Ss. Pietro Agrippino di Acquafredda, cappella di S. Bernardo.
  7. Rabano Mauro, Allegoriae in Sacram Scripturam.
  8. Venerabile Beda, Quaestiones super Exodum.
  9. Entrambe le opere sono alla National Gallery di Washington, D.C.
  10. Carlo D’Addosio. Bestie delinquenti. Napoli 1982, pp. 364.
  11. EURISPES 2007: 4,5 miliardi, spesa totale per animali; LAV: nei ricoveri 600.000 cani e 2,5 milioni di gatti.
  12. Farm Animal Welfare Council britannico (FAWC), 1992.
  13. Pietro Paganessi. Sui maltrattamenti delle bestie. Ragionamento, Mazzoleni, Bergamo 1856, pp. 144.

<span class="caps">UAAR</span> - «L’Ateo» n. 2/2009. Marco Accorti: «AnimaL Mundi»