Lawrence Ferlinghetti: l’ultimo dei Moicani

di Marco Accorti, Roma

Il ballo dell’orso o qualche lagna mugugnosa tipo “l’agonia del mestolo” è tutto quello che mi è concesso dal momento che sono impacciato oltre che stonato come una campana e privo di orecchio musicale, ma questo non basta a impedire che un ritmo trasmesso sul filo delle note o delle parole mi salga dal fondo dello stomaco e mi faccia godere. Specialmente quando non so più distinguere parole, musica, colore e forme e tutto si trasforma in una sensazione.

Sarà per questo che amo il jazz e forse proprio per questo ho anche un debole per i futuristi e per il paradossale formalismo della loro sintassi che ribalta gli schematismi omologanti del “normale” sentire; comunque sia, quando mi son capitate fra le mani le raccolte di poesie di Ferlinghetti, ho cominciato, seppur goffamente, a battere il tempo col piede.

Chi sia Ferlinghetti in molti credono di saperlo. Perfino lui pensa di saperlo. In quel momento. Poi basta un clic e splash si rituffa per riemergere bagnato di nuova acqua. O forse l’acqua è sempre la stessa, ma è diverso il modo in cui questa volta s’è bagnato.

Poeta, pittore, romanziere, vagabondo più che viaggiatore, libraio, precursore dell’ecopacifismo, editore, commediografo e teatrante, ospite delle patrie galere a 15 anni per un furtarello e a 48 in compagnia di Joan Baez e altri 66 dimostranti contro la guerra nel Vietnam, oggi ha 89 anni ed è come un vecchio reperto del tempo passato; come uno di quei calendari perpetui che oggi non usano più, ma che una volta erano in tutte le case per ricordare i giorni trascorsi e per annunciare quelli che dovevano ancora venire. Erano un diario visionario a passata memoria.

È stato un guru, un simbolo, ora è forse solo l’ultimo dei Moicani; qualche volta si schernisce e come nella barzelletta urla “bucaioli aspettatemi”, molto più spesso rimane solo davvero, l’unico sopravvissuto di quella “on the road” che nessun navigatore satellitare saprebbe più trovare; l’ultimo di una generazione che le ha provate tutte pur di non rimanere inchiodata e farsi consumare dal perbenismo moralista e ipocrita per finire poi consunta e integrata dall’omologazione globalizzata.

Devo essere sincero, quando ho letto che nel quarantennale del ‘68 italiano il neosindaco Alemanno l’ha accolto a Roma come «monumento della poesia contemporanea» mi sono venuti i bordoni. Sicuramente l’invito era avvenuto in “altri” tempi, ma da un’appropriazione a un esproprio alla fine cosa ci rimarrà?

Sbronzo, lucido o fumato sono decenni che si rappresenta su tutti i palcoscenici di questo mondo, anche i più improbabili, e ogni volta appare come un guitto saggio, un esibizionista introiettato, un timido estroverso, un bastian contrario accondiscendente, un “maestro” senza allievi, uno Zelig capace di emulare solo i propri avatar, un “mistico” orientaleggiante che più di odore di buddismo emana aroma di marijuana con un retrogusto di malto invecchiato non certo nei monasteri tibetani; insomma un non credente “religioso” o forse solo così tanto “religioso” da essere inevitabilmente laico e vitalmente anticlericale.

Ecco fermiamoci qui e intendiamoci: la sua non è poesia senza dio, perché almeno un dio c’è. Solo che per Ferlinghetti il dio è la Vita che va vissuta, conquistata, sofferta e goduta. E se possibile anche beffata con una liturgia all’insegna di sesso, amore, contemplazione, colore e musica. Ma quale musica? Per dirla con Baricco, «se non sai che musica è, allora è jazz».

Ferlinghetti è improvvisazione, è una continua performance, una jazz session in cui si trova quasi sempre a suonare da solo anche quando sono gli strumenti ad accompagnarlo. Sarà che la sua musica è difficile inchiodarla a un pentagramma visto che le note, o meglio le parole, non stanno assieme con regole canoniche, ma si rincorrono per tutto il foglio disegnando a loro volta ghirigori impertinenti senza neppure l’ausilio di un punto o di una virgola. Insomma se la fa e se la canta e infatti è rimasto pressoché solo.

Non c’è solo jazz però. C’è anche, o meglio c’è stata a suo tempo, la ricerca di altre assonanze, melodie, nenie esotiche per sfuggire da quella routine conformistica e insanguinata che almeno una volta nella storia recente è riuscita a indignare mezzo mondo:

Non c’è altro dio che la Vita

Sitar lo dice Sitar lo suona
Sitar ci suona di amare amare & odiare odiare
Sitar ci respira il suo respiro Atman
suona & risuona il suo bellissimo om om
Ad ogni passo si solleva il vento puro
Gente con le rose
dietro le transenne!

Oggi, con gli USA sfilaccicati sugli scenari mondiali in guerre senza prospettive, suona aliena questa litania – La illaha el lill Allah, una variazione su un mantra Sufi – recitata all’Incredible Poetry Reading del Nurse Auditorium, a San Francisco l’8 giugno 1968, il giorno in cui Robert Kennedy venne sepolto. Sono passati 40 anni e il sitar non manda più suoni.

Un non credente che nel Sogno reale 5 si direbbe quasi un religioso panteista invasato: il bosco, la rugiada, la voce del torrente e il cip cip degli uccellini: «Ah, aaah l’universo respira». Ma la chiusa è tanto minimalista «Un pipistrello si accartoccia sotto le grondaie» da essere concretamente realistica. Il suo essere più marxiano che marxista gli permette di barcamenarsi sempre fra l’onirico, l’utopia, la tenerezza e il senso della realtà, non a caso ci tiene a sottolineare che non è un comunista ma “solo” un rivoluzionario direi regolarmente deluso tanto da doversi rivolgere a un mito del passato per trovare in Emiliano Zapata un riferimento che almeno non lo potrà più deludere.

Il suo realismo non lo abbandona mai, nemmeno nei momenti di «Una gran confusione» (da Who Are We Now, 1976):

ci deve essere un posto dove tutto è luce
e che la luce viene da quell’alto luogo
dove tutto è luce
semplicemente non è ancora arrivata qui
ragione per cui abbiamo ancora la notte
Ma quando quella luce finalmente arriva
quando finalmente arriva qui
la parte del giorno che ora chiamiamo
Notte avrà un cielo bianco
con piccoli puntini neri piccoli buchi neri
dove un tempo erano le stelle
E allora in quel posto simbolico
così pieno di poesia
che ci apparterrà noi saremo le vere ombre di noi stessi
e la nostra stessa illuminazione
su una terra al tramonto

Nel “dopo” non c’è altro se non diventare delle negative di noi stessi: ombre, tramonti, disincanto da tanto lirismo e il senso concreto della finitezza. Niente vieta di dare sfogo alle proprie fantasticherie, ma da qui a scambiare un’aspettativa illusoria con la “verità” ce ne corre.

Si sente anche quasi collega di un povero Cristo – «Una volta nell’eternità» (da A Coney Island of Mind, 1958) – entrambi profeti senza credenziali perché «nessuno crederà davvero a quelle cose / o a me / del resto» e come lui si percepisce emarginato anche se su un palcoscenico:

Ti bolle la testa
gli dicono
E gliela freddano
Lo stendono sull’Albero a raffreddare

mentre idolatria, la superstizione e simonia dilagano in una forma di quel consumismo misticheggiante che ben conosce e con cui forse c’ha anche (inconsapevolmente?) giocato rivendica la vitalità della speranza nella Vita a dispetto di tutto e tutti:

E da allora tutti quanti

stanno sempre a costruire modellini
di questo Albero
con Lui appeso
e cantilenano sempre il Suo nome
e gli chiedono di scendere
Lui rimane appeso lassù
al Suo albero
sembra proprio impietrito
e completamente freddo e anche
secondo una rassegna
delle ultime notizie dal mondo
dalle solite fonti malinformate
morto stecchito

Non ci s’illuda però di accreditarlo a qualche setta più o meno colorita e folcloristica pur di rendere credibili le sue radici cristiane solo perché ne denuncia il tradimento collettivo. Lui fra l’altro ci tiene a rivendicare lontane origini di ebreo sefardita e da cosmopolita girovago e reietto non ci sta:

E da qualche parte ancora

una campana rintocca
la pazza idea di una società cristiana

(«Paris Trasformations», da Over All the Obscene Boundaries, 1984, n. 6)

Se poi ci si domandasse se si sia mai posto una di quelle domande che piacciono tanto a chi ha le risposte preconfezionate, ne «I Cro-Magnon» (da Open Eye, Open Heart, 1973) ci dà la conferma che su “da dove veniamo” non ha certo dubbi fra Darwin e il creazionismo:

Gli uomini di Cro-Magnon portavano libri di pietra
E una pietra piatta e scura nella quale mi imbattei fu quella in cui lessi
le storie a copia carbone dell’uomo ripugnante
stampate nella fine stampa dei fossili tra le pagine di pietra invecchiate
le prime sillabe del tempo registrato trasformate in messaggi di fuoco
sul primo declino e caduta
e sul disaccordo delle specie
cosicché
quando la spaccai in due sorpresi l’ombra di una lucertola sui gradini
di una succursale della biblioteca di Alessandria che bruciava sulla pietra rotta
luminosamente stordita dal sole
E in un guizzo della lingua penzolante di quella lucertola in un istante raffreddato di tempo carbonizzato
decifrai l’eternità

Dunque una poesia dove il suo anticlericalismo anarco-pacifista non impicca l’ultimo prete con le budella dell’ultimo re, ma più semplicemente li mette talmente a nudo e con tale leggerezza che il sorriso se li porta via. Purtroppo però solo dalle pagine dei suoi libri, perché, almeno da noi, la fantasia al potere s’è vista ahimè solo con la finanza creativa.

E per concludere quello che potrebbe essere un suo autoritratto o un suo testamento, una chicca scritta in italiano, perché uno dei tanti Ferlinghetti è figlio di un bresciano e conosce bene anche la nostra lingua («Alla maniera di Cecco Angiolieri» da Scene italiane, 1995)

S’i’ fosse foco, non fumerei
S’i’ fosse vento, suonerei soltanto i flauti lirici
S’i’ fosse acqua, non berrei altro che vino
S’i’ fosse Dio, mi farei una Dea
S’i’ fosse Papa, mi farei mamma mia
S’i’ fosse mamma, darei natali a molte vergini
S’i’ fosse imperatore, sa’ che farei?? Ucciderei tutti gl’imperatori.
S’i’ fosse morte, ritornerei all’utero per ricominciare
S’i’ fosse cieco, troverei un cane
S’i’ fosse un cane, troverei un cieco
Che vuole fare molte passeggiate ai bordelli.