Il dolore inutile

di Franco Toscani.

Ciò che noi definiamo “dolore” è il prodotto di un meccanismo evolutivo che permette, attraverso un sistema di premi/punizioni, il riconoscimento e la valutazione delle esperienze essenziali alla vita animale, e di adattare i comportamenti alle circostanze. È il dolore che ci avverte che stiamo facendo qualcosa di sbagliato come afferrare un oggetto rovente; che un certo movimento è oltre le nostre possibilità; che qualcosa di pericoloso sta avvenendo nel nostro corpo per cui è meglio digiunare che abbuffarsi. Quei rari sventurati che per motivi congeniti non percepiscono il dolore sono destinati a malattie, incidenti e morte precoce.

Il dolore è anche uno degli elementi determinanti per fissare nella memoria le cose che non si devono scordare. Lo schiaffo del genitore fa sì che il bambino, anche dopo anni, ricordi la lezione. Il dolore era largamente usato nell’alto Medioevo e nelle consuetudini giuridiche germaniche per garantire che l’evento fosse ben saldo nella memoria degli interessati, ed era questa la funzione del ceffone (la paumée) che il cavaliere riceveva durante la sua investitura, perché non si scordasse il codice di comportamento del suo nuovo stato. È stata per secoli la frustata del maestro a inculcare nozioni, regole e valori al discepolo. Il significato del dolore, il suo “senso”, è stato per millenni solo di ordine metafisico, ed è solo da poco che i suoi meccanismi biologici sono stati cercati ed individuati.

Alcmeone di Crotone (V secolo a.C.) fu il primo a formularne una teoria razionale, attribuendolo all’alterazione dell’isonomia, l’armonia tra gli organi. Erofilo e Erasistrato di Chio (III secolo a.C.) dimostrarono l’esistenza di nervi motori e sensoriali e il loro collegamento al cervello, permettendo a Galeno (II secolo d.C.), di postulare l’origine neurologica del dolore. Ma è Cartesio che, nonostante le sue fantasiose teorie anatomiche e ontologiche, lo interpretò come risposta condizionata, un riflesso “meccanico” fondamentale per la conservazione dell’integrità dell’organismo.

In effetti, il dolore è ben più di un messaggio nervoso. Esso è il risultato di una complessa interazione tra percezione e psiche: cioè, una faccenda assolutamente soggettiva. L’influenza dell’esperienza, del carattere, dell’umore, delle emozioni, delle aspettative, del valore a esso attribuito, delle circostanze esterne e interne è sostanziale, e spiega come mai un identico stimolo possa produrre, in soggetti diversi, dolori di intensità diversissime. Oggi il concetto di “soglia del dolore” è uno dei fondamenti delle discipline che se ne occupano.

Il dolore è elemento naturale e necessario. Tuttavia esistono situazioni dove esso non funziona come dovrebbe. In alcuni casi non ci avverte in tempo di malattie pericolose, né riesce a farci cambiare abitudini come avviene nel caso del diabete o dell’ipercolesterolemia; e talvolta è presente senza una causa, o permane a lungo anche quando ciò che l’ha causato si è definitivamente allontanato. La minaccia senza allarme, e l’allarme senza minaccia. In questi casi, a cosa serve il dolore? E a cosa serve il dolore puramente o prevalentemente psichico, la “sofferenza”? In sostanza: qual è il senso, il significato del dolore? Su questi interrogativi si apre una infinita serie di porte metafisiche, antropologiche, epistemologiche. E teologiche.

Il dolore è usato come metafora di tutto ciò che nel mondo è spiacevole, non solo fisicamente, ma anche moralmente. Il dolore rappresenta il male. Ma come dare una giustificazione convincente alla presenza del male nel mondo, soprattutto all’interno di una cultura pre-scientifica? È concepibile la co-esistenza di Dio e quella del dolore? E se c’è Dio, perché c’è il dolore e il male?

Si potrebbe affermare che l’esistenza stessa delle religioni è spiegabile col tentativo di dare risposta a queste domande. Ciò che è fondamentale per la comprensione dell’atteggiamento della medicina nei confronti del dolore è esaminare come le religioni giudaico-cristiane, sino a ieri la principale (o, forse, la sola) chiave interpretativa dell’universo nel mondo occidentale, lo hanno giustificato, dal momento che l’ethos religioso ha plasmato l’atteggiamento – e quindi le azioni, le “cure” – che la società e l’individuo hanno nei suoi confronti. Il dolore – afferma la Bibbia – è punizione divina per chi non rispetta la legge di Dio. Anche se oggi si tende a mitigarne il significato attribuendo questa posizione alla necessità politica di compattare il popolo di Abramo minacciato dall’impero babilonese, l’idea che il dolore provenga da Dio (e che chi soffre, in fondo, se lo meriti) ha permeato tutta la nostra cultura. È il peccato originario di Adamo ed Eva che ha causato dolore e morte, per loro e per tutti i loro discendenti.

E la punizione è tanto terribile da colpire non solo i malvagî, ma anche coloro che ai comandamenti divini obbediscono: sul giusto per antonomasia, Giobbe, fuori da ogni apparente logica giuridica per una scommessa tra Dio e il Demonio. Colpisce anche gli innocenti, i neonati, che non sono ancora in grado di peccare. Perfino sul Dio-uomo Cristo, che certo non può essere in alcun modo considerato “peccatore”! E continuano a colpire l’umanità, nonostante il sacrificio di Cristo, che quel peccato originale l’avrebbe definitivamente mondato. La colpa è perdonata, ma la punizione resta. Se il dolore è giusta punizione, allora è anche mezzo di catarsi, e chi soffre deve gioirne perché attraverso la sofferenza sarà redento. Cosa sono poche ore d’agonia in confronto alla beatitudine eterna?

Non solo: il dolore accomuna l’uomo a Dio, sperimentando le sofferenze di Cristo, e quindi, il sofferente, imago Christi, concorre anche alla redenzione altrui. Il dolore è segno della predilezione di Dio: e quindi lo si accetti, non lo si combatta. E se stenta a venire per conto suo, perché non dargli una mano con scapolari e cilicî? Il dolore è essenza dell’universo, è necessità fondante dell’esistenza umana? Ma allora, se persino Dio si sottrae alla implorazione di Sé stesso-suo figlio nell’orto dei Getzemani e tace; se persino Dio si manifesta sofferente come un qualsiasi peccatore, esigendo la nostra compassione in cambio della Sua, come possiamo, noi mortali, massa damnationis, rifiutarlo? E quale dovere o giustificazione avrebbero mai i medici per combatterlo?

Questa dottrina, conosciuta come “Dolorismo” ha permeato la cultura occidentale. Oggi è forse un po’ passata di moda e, almeno nella comunicazione di massa, di esortazioni al masochismo se ne fanno poche, probabilmente più per il cambiamento della mentalità della gente che per la timidissima revisione di Giovanni Paolo II. Ciononostante, venti secoli di dolorismo hanno lasciato traccia, e il tentativo di rendere accettabile al (buon) senso comune uno dei più complessi e insolubili rovelli teologici ha portato a una serie di posizioni altrettanto indimostrabili quanto bizzarre.

Tra le più comuni sta la tesi che il dolore è necessario per comprendere la serietà della vita che attraverso l’esperienza del dolore diventa più attraente e interessante; e che il dolore è indispensabile per far sorgere una coscienza morale. Sebbene sia ovvio che lo star male renda ancor più apprezzabile lo star bene, si farebbe fatica a sostenere che per dar valore alla libertà si dovrebbe tutti sperimentare il carcere, o che per capire che non è giusto rubare sarebbe indispensabile essere stati derubati!

La medicina non è stata immune da questo modo di pensare, che s’intravede da aforismi del tipo «Si deve soffrire se si vuole guarire», «Il medico pietoso fa la piaga purulenta», oppure «Di dolore non si muore, ma d’allegrezza sì». Sedare dolorem sarà anche stato sempre considerato opus divinum: tuttavia ben poco la medicina si è sforzata di provvedervi. A parziale sua discolpa sta il fatto che il dolore è un sintomo importante, uno degli elementi cruciali per individuare e monitorare una malattia, tanto più quando l’unico strumento diagnostico disponibile erano le mani e gli occhi del medico. Oggi però abbiamo a disposizione mezzi di indagine molto precisi, e il sintomo dolore è utile solo per un primo inquadramento diagnostico: ciononostante, l’abitudine a sottostimarlo e a curarlo poco e male è ancora la regola. Eppure è da molto tempo che si conoscono farmaci analgesici di grande efficacia.

Il succo essiccato del Papaver somniferus, pianta originaria dell’Asia Minore, e chiamato “oppio” da Teofrasto, era conosciuto e usato dai Sumeri nel terzo millennio a.C. ed è nominato nel papiro egizio di Ebers, della metà del secondo millennio, e in alcune tavolette assire del VII secolo. Probabilmente era conosciuto anche da Omero, che cita un phàrmakon usato da Elena per lenire il dolore proprio e quello degli eroi che la circondavano. Ippocrate, Democrito, Galeno e Plinio ne parlano nei loro scritti, e Andreas, medico di Tolomeo Filopatore, lo prescriveva nella pratica oftalmica. Dioscoride, vissuto nel I secolo d.C., conosce l’uso dell’oppio, della cannabis, del solanum e del giusquiano, e ne fa uso per rendere il malato insensibile al dolore. L’hakim Albucasi ne descrive minuziosamente l’estrazione dalla capsula del papavero. Gli Arabi l’introdussero in tutta l’Asia e i crociati e i medici ebrei in Occidente, dove era caduto nell’oblio durante i secoli bui. Raimond de’ Viviers, medico di Clemente VII, ne consiglia l’uso regolare al pontefice. Nel ‘500, Paracelso, grande prescrittore e consumatore in proprio di oppio (che definiva “chiave dell’immortalità”) ne raccomandava l’uso per gli effetti sonniferi e analgesici. In pieno ‘600, l’inglese Thomas Willis dimostrò che esso agisce sul sistema nervoso centrale, deprimendo le funzioni della corteccia. Sydenham, uno dei padri della medicina moderna, inventore e degustatore del laudano (una soluzione alcolica di oppio) scrisse nel 1680: «Tra i rimedi che la Misericordia Divina ha donato all’uomo per lenirne le sofferenze, nessuno è così universale ed efficace come l’oppio». Tra i suoi allievi, Dower, più noto come corsaro al servizio della corona d’Inghilterra, inventò la polvere di Dower, somministrata ai feriti della sua ciurma dopo la battaglia. “Spugne soporifere”, a base di oppio erano usate da alcuni chirurghi fino al Seicento.

È noto che gli interventi chirurgici sono molto dolorosi: ciò malgrado, anche l’anestesia ha stentato a essere accettata. L’etere fu scoperto da Raimondo Lullo nel ‘200, ma non fu utilizzato fino al XIX secolo. Il Paré, uno dei più grandi chirurghi del passato, respinse ogni forma d’anestesia. Nel XVII secolo il barbiere-chirurgo Bailly de Troyes cercò di anestetizzare i suoi pazienti, ma le corporazioni mediche insorsero e lo fecero condannare da un tribunale. Nell’Ottocento viene scoperto e utilizzato il protossido d’azoto, l’etere e il cloroformio e, grazie a loro, l’anestesia permise lo sviluppo della chirurgia moderna, nonostante idroterapeuti, omeopati e suffragette vi si opponessero giudicandola come pratica innaturale. Anche la religione entrò nella polemica: quando nel 1847 James Young Simpson la introdusse nella pratica ostetrica, il clero calvinista scozzese considerò il parto indolore un insulto alla Bibbia. Young si difese sostenendo che persino il Padreterno addormentò Adamo quando gli tolse la famosa costola, ma ci volle la Regina Vittoria, aiutata dal cloroformio a partorire il suo ottavo figlio, a mettere a tacere la protesta.

Tutto ciò è cosa del passato? Assolutamente no: oggi si conosce tutto sull’uso degli analgesici, sui loro meriti e sul modo di usarli. L’anestesia è un cardine della moderna medicina e altre discipline, come l’algologia e la medicina palliativa, hanno fornito conoscenza e regole per il controllo del nemico atavico. Eppure in molti Paesi, tra i quali l’Italia, il dolore è sottostimato, poco considerato e pochissimo curato, tanto che il Ministero della Salute ha intrapreso azioni concrete per convincere i medici a trattarlo. Medici cattivi? Crudeli? Ignoranti? Mala sanità? Assolutamente no: semplicemente figli inconsapevoli di un modo d’essere e di pensare vecchio di secoli.

La causa di una tale chiusura è da ricercarsi nella tradizione medica che attribuiva un valore religioso all’opera del medico. Essa si fondava sul riconoscimento del carattere divino della physis, la natura universale, matrice d’ogni cosa. Tutto ciò che è parte della natura, le sue regole e leggi, erano ritenute intrinsecamente giuste e pertanto dotate di valenza etica. Il dolore è tanto più necessitas naturae quanto più anatomia e fisiologia ne dimostrano la “naturalezza”. Se è naturale, allora è anche buono. Questo atteggiamento non può che essere stato potenziato dalla tradizione cristiana e dalla sua visione salvifica del dolore.

Inoltre non va dimenticato che l’etica medica riteneva più importante il dovere di guarire rispetto al dovere di sedare il dolore: infatti, la salute – il fine dell’Arte – era definita dal buon funzionamento del corpo (come previsto, appunto, dalle leggi della natura), e solo in seconda battuta dal benessere (cioè dall’assenza di sofferenza). Questo era pertanto eventuale conseguenza della ritrovata salute, e non poteva essere perseguito indipendentemente, o magari al posto di essa.

Oggi l’etica medica sta cambiando, ma il processo non si è ancora completato. È il singolo individuo che deve decidere, secondo le proprie convinzioni e le proprie antropologie, quanto dolore è disposto a sopportare, che sia o meno provvisto di senso trascendente. Il senso lo diamo noi alle cose del mondo, e questo può mutare da persona a persona e da epoca a epoca. Non ci sono ontologie. Se qualcuno “sceglie” di credere che ci siano, esse devono valere solo per lui. Edonismo? Forse, e perché no? Ciascuno decida per sé, ne sia responsabile e consapevole. E orgoglioso delle proprie scelte e della propria unicità. E forse il dolore cesserà di essere un tormentone fisico e metafisico.

L’autore

Franco Toscani, medico palliativista, Direttore scientifico della Fondazione “Lino Maestroni” (Istituto di ricerca in medicina palliativa); socio onorario di “Libera Uscita” (Associazione nazionale e apolitica per la legalizzazione del testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia).