Insegnare scienze naturali nella scuola superiore italiana

di Alessandra Magistrelli.

Insegnare…

Parlare d’insegnamento vuol dire parlare di scuola. O no? Sicuramente vuol dire parlare di insegnanti, cioè degli artigiani della trasmissione della cultura alle nuove generazioni, ma se c’intendiamo sui termini “trasmettere cultura” forse diventa più facile rispondere alla domanda iniziale. In genere “trasmettere cultura” è usato col significato più ampio di “educare”. Educare a…

In base a una definizione molto generale “educare” vuol dire trasmettere e far apprendere le tecniche culturali ovvero quelle tecniche (di produzione e uso di beni e di comportamento) grazie alle quali una società umana riesce a proteggersi dalle difficoltà esterne, a provvedere alle sue necessità e a far vivere insieme i suoi componenti nel modo il più possibile ordinato e pacifico. Se in una società primitiva l’educazione serve a garantire l’immutabilità delle tecniche di cui dispone, che considera sacre e pertanto immodificabili, nelle società più evolute tali tecniche sono considerate suscettibili di trasformazione per adeguarsi alla realtà mutevole, per cui l’educazione qui serve a trasmettere le vecchie regole, ma anche ad attrezzare i nuovi soggetti a cambiarle. Gli insegnanti sono dunque degli adulti che imparano, lentamente e con molta pazienza, aiutati dal proprio sapere disciplinare e da una serie di tecniche materiali e psicologiche, a realizzare un processo educativo, ovvero a far scattare negli “apprendisti” quel processo creativo che è l’imparare.

La scuola non coincide con l’insegnamento. In senso lato è l’istituzione preposta all’esecuzione del processo educativo, anche se la sua etimologia (dal greco scholé = ozio, riposo) la collega al concetto di riposo, dopo una fatica fisica, reso piacevole dalla quiete e dalla ricreazione mentale. In senso più ristretto la scuola è anche il luogo dove l’insieme dei docenti e degli allievi s’incontra per insegnare e apprendere. In conclusione, seguendo i suggerimenti della lingua, la scuola è il luogo (in senso spaziale, ma anche metaforico) dove si realizza un processo educativo in cui gli insegnanti sono incaricati di trasmettere il proprio sapere specifico, ma anche (soprattutto) di trasmettere ai discenti una conoscenza (sia teorica, sia pratica, sia dei comportamenti) coniugata stabilmente col cambiamento della conoscenza stessa.

Scienze naturali…

Chi scrive ha passato una vita a insegnare ai liceali quella marea di nozioni, leggi fisiche, ipotesi scientifiche, errori utili, esperienze ed esperimenti che è stata raggruppata nel secolo XIX sotto il nome di scienze naturali. Mai nome è stato meno chiaro ma, in un certo senso, più esplicito. Mettere, infatti, sotto lo stesso cartellino materie così diverse tra loro (come epistemologia e come contenuti) quali la chimica e la geologia, l’astronomia e la botanica, l’etologia animale e l’anatomia umana, lo studio della cellula e quello dei minerali… vuol dire aver pensato a una specie di poubelle dell’universo scientifico in cui viene stivato tutto ciò che non è analizzabile con la matematica e la fisica, ovvero tutto ciò che, secondo una mentalità ancora molto diffusa, non è veramente scientifico.

Quante volte, sedendomi a un tavolo ministeriale per discutere di nuovi programmi della scuola superiore, ho dovuto sopportare gli occhi in su e l’aria di vago compatimento dei miei colleghi chimici, fisici e matematici. Che ci faceva lì una naturalista? Lì, vicino a degli scienziati? Per cercare qualche ramo di nobiltà, spesso invece di “scienze naturali” si preferisce parlare di “biologia” (accreditata tra le hard sciences) o di “ecologia” (il suffisso -logia nobilita). Eppure… eppure questo guazzabuglio piace molto ai ragazzi che vi pescano informazioni, suggerimenti, idee, problematiche di grande impatto, oltre che cognitivo, emotivo.

Tuttavia i vuoti di progettazione non si possono colmare solo con la buona volontà e nessun insegnante – nemmeno il più motivato – può sopperire alla carenza di stima sociale che circonda le scienze naturali. Non sono vere scienze, non fanno accedere ai potenziali lauti guadagni delle professioni alte (medico, avvocato, ingegnere), si portano dietro un’aura di bizzarria «…E lo zoologo o il botanico pertinace, cioè colui che persisteva nell’insano proposito di continuare a dedicarsi alla storia naturale anche in età adulta, quando è tempo di mettere la testa a partito, veniva guardato dai compagni con stupore misto a commiserazione e a un tantino di ammirazione per il suo coraggio. Stolto coraggio, pensavano i più, che lo conduceva a occuparsi di minuzie o di stranezze che non attingono ai grandi problemi della cultura e della società…». Così Giuseppe Montalenti racconta dell’inizio della sua carriera di genetista.

Detto ciò, come s’insegnano oggi le scienze naturali nella nostra scuola? S’insegnano come sempre: con pochissimo tempo a disposizione (2 o 3 ore settimanali per 2 o 3 anni, a seconda del tipo di scuola), con scarsa possibilità – o volontà – di lavorare in laboratorio, con un libro di testo usato come un vangelo (ipse dixit) o – dio ce ne guardi – dettando appunti (in verità è sempre più raro). Dato il programma esorbitante, si fanno scelte necessarie, ma non sempre condivisibili, cassando argomenti e concetti anche fondamentali come quello di evoluzione dei viventi. E così si può parlare dell’uomo, senza mai dire che è il risultato di una lunghissima filogenesi che affonda nel nostro lontano passato pre-umano.

Anche gli sforzi di aggiornare e riformulare i programmi scolastici da parte di svariate commissioni ministeriali si sono arenati sull’incapacità di pensarli in funzione della scuola (ovvero degli allievi e delle loro esigenze e capacità di assimilazione di argomenti così vasti e complessi) e non cercando di “metterci dentro tutto” con il metodo dei libretti Bignami. I risultati? Ignoranza naturalistica preoccupante, permanere di un diffuso pensiero magico, diffidenza – se non vera ostilità – verso il mondo animale e vegetale, discussioni insopportabili quanto vacue sulla validità della scienza, ritorno di fondamentalismi che si credeva scomparsi per sempre.

Nella scuola superiore…

Insegnare nella scuola superiore vuol dire tout court parlare di adolescenti … e non so se mi spiego. Sul tema dei giovani ormai si naviga a vista. Su un quotidiano viene pubblicata questa lettera:

«Ho appena visto un programma televisivo dedicato alla violenza degli adolescenti nelle scuole. Due ospiti in studio: un’avvocatessa e un giovane, vittima per anni di violenze da parte di molti compagni, nell’indifferenza di preside e insegnanti. Alla domanda sul perché di tanta violenza nelle scuole, l’invitata risponde che in una società composta da separati, divorziati, coppie di fatto non è più possibile nessun controllo sugli adolescenti».
(la Repubblica, 7 dicembre 2006)

O questo stralcio da un articolo di Marco Lodoli:

«E ora cadiamo dalle nuvole, sgraniamo gli occhi e sorpresissimi ci domandiamo: ma come è mai possibile che nelle scuole si moltiplichino le violenze e i soprusi, come diavolo è accaduto che i nostri adolescenti, che solo dieci minuti fa erano ancora bambinetti ingenui, siano diventati così aggressivi e insensibili? Non facciamo i finti tonti, vi prego, e non gettiamo sulle spalle curve della scuola anche questa colpa. Sono vent’anni almeno che l’immaginario della nostra società si struttura attorno alla violenza, al denaro, al cinismo, alla brutalità, sono vent’anni che gli insegnanti si trovano ad affrontare ragazzi ipernutriti da un cibo avariato che avvelena la mente, che eccita a dismisura i desideri, accelera i tempi fino alla frenesia, cancella ogni pazienza ed esalta sempre e comunque una trasgressione senza scopi».

Se la diagnosi dell’avvocatessa riportata dal lettore è miope, terribile quanto esatta è l’invettiva di Lodoli. Le cose stanno proprio così. I ragazzi e le ragazze sono avvelenati, ma non mitridatizzati perché, infatti, stanno male, soffrono nonostante la loro aria crudele e spavalda, e cercano (la maggior parte) uno scampo. Non è colpa loro se la società “avanzata” sta abbandonando la mentalità alfabetizzata, cioè analitica, sequenziale, basata sugli assunti di causalità e di non contraddizione, per tornare all’oralità propria delle culture pre-alfabetiche, primitive. Quelle in cui l’aggregazione conta di più dell’analisi, la simultaneità e la presenza più della distanza spazio-temporale, in cui il discorso “formulaico” (frasi fatte, cliché, slogan, modi di dire, ecc.) prevale su quello “scrittorio” (idee proprie, ragionamenti complessi, originalità di linguaggio, ecc.).

…in Italia

Se questa sembra essere la linea di tendenza del mondo globalizzato (e speriamo di esagerare!), in Italia, nel nostro Bel Paese, come vanno le cose? Vanno… all’italiana. Il futuro inquietante si tinge di colori pastello, il dramma si trasforma vagamente in farsa, “Francia o Spagna purché se magna”. Prendiamo un avvenimento come l’affaire-Moratti, ovvero la “scomparsa” dell’evoluzione (della Terra, dei viventi e dell’uomo, nonché del “sistema eliocentrico”) dai programmi di scuola media.

Com’è andata a finire? Dopo la levata di scudi di migliaia di cittadini indignati, il ministro si sbrigò a costituire una commissione di scienziati, presidente Rita Levi Montalcini, perché si pronunziasse sulla questione: l’evoluzione può stare in un programma scolastico del 2004 o è meglio aspettare che la scienza ci dia qualche altra conferma del fenomeno? Dopo una serie di misteri (il parere scritto, consegnato a chi di dovere al Ministero della Pubblica Istruzione, scomparve per poi ricomparire tutto corretto e purgato da frasi non idonee… mah), sembra che la Moratti dovette obtorto collo accettare il documento Levi Montalcini e far rientrare l’evoluzione a scuola.

Ed ecco la trovata italica: la modifica viene pubblicata allegata a un decreto legge che riguarda tutt’altro argomento e che ha richiesto molto tempo e pazienza a chi scrive per essere scovata. Vi si recita: «“Il globo terracqueo dimensioni e struttura” diventa “Il globo terracqueo, dimensioni e struttura. Origine, evoluzione, ere geologiche, i fossili. Darwin”». In cui il nostro eroe (Darwin) torna sì, ma chiuso com’è tra due punti, senza né ah né bah, sembra invitato a togliersi il più presto dai piedi.