Il velo rivoluzionario: donne e Islam nell’Iran contemporaneo

di Gaia Rau

Parlare di donne e di Islam è difficile. È difficile perché nel nostro immaginario occidentale la parola Islam non può fare a meno di evocare un’idea di sottomissione, di repressione, di regressione. È difficile perché lo hejab, il velo islamico, rappresenta ai nostri occhi la principale negazione simbolica della donna e del suo ruolo nella società. È difficile perché parlare di donne e di Islam non può prescindere dal sollevare questioni spinose, che mettono in discussione le fondamenta stesse del nostro modo di essere e di pensare la democrazia, la religione, la modernità. Parlare di donne e di Islam in Iran è ancora più difficile. È difficile perché l’Iran ha vissuto nel suo passato prossimo una rivoluzione popolare il cui risultato è stato l’instaurazione di una “Repubblica Islamica” che, per definizione, implica una serie di valori e di norme apparentemente in contraddizione con qualsiasi aspirazione all’emancipazione femminile. È difficile perché, se questa rivoluzione vi è stata, i religiosi oggi al potere lo devono in gran parte proprio a quelle stesse donne contro le quali si sono poi accaniti. È difficile perché quell’evidenza giuridica e politica di discriminazione propria di molti contesti del medioriente islamico è in Iran forse più ingombrante che altrove: obbligo del velo, diritto unilaterale e pressoché privo di condizioni dell’uomo al divorzio, alla poligamia e alla tutela dei figli, matrimoni permessi a partire dall’età di nove anni per le bambine, divieto di esercitare la funzione di giudice o di ricoprire le più alte cariche politiche, codice penale “islamico” improntato alla “legge del taglione” che attribuisce alla vita della donna la metà del valore o “prezzo di sangue” di quella dell’uomo.

Eppure, se in Iran le donne sono forse le principali vittime del sistema, esse rappresentano anche la forza sociale la cui critica a quest’ultimo è la più consapevole, la più dinamica, la più legittima. Quella delle iraniane costituisce oggi, nella società “post-islamista”, un’esperienza di mobilitazione esemplare e, insieme a quella di giovani e intellettuali, uno dei principali elementi di dinamismo che i sociologi individuano in quel processo di produzione e maturazione di una società civile che è, come ovunque, condizione preliminare e necessaria a un’evoluzione in senso democratico della realtà sociopolitica. La contestazione delle donne iraniane è diversa da quella degli uomini per la sua complessità e per la profondità della rimessa in causa dei rapporti di potere che essa rappresenta. A differenza degli uomini, le cui rivendicazioni sono essenzialmente di ordine politico e hanno come oggetto il funzionamento non democratico dello Stato e delle sue istituzioni, le donne devono mobilitarsi tanto nella società quanto in famiglia, e su un doppio fronte, contro l’autoritarismo del potere politico, ma anche contro il sessismo della tradizione. Ma ciò che più colpisce è l’apparente contraddittorietà di un discorso che, pur contestando massicciamente ed esplicitamente lo status femminile all’interno della Repubblica Islamica, lo fa attraverso il filtro dell’islamismo, ed è per questo indice di un altro modo di vedere l’Islam, che si oppone non tanto alla religione in quanto fede o identità culturale, ma alla strumentalizzazione che di essa viene fatta per legittimare uno status quo misogino e antidemocratico. È necessario dunque ricercare le origini di questo fenomeno nel contesto sociale, storico e ideologico nel quale esso è situato e analizzare in tale contesto le diverse e, a volte, contraddittorie strategie delle sue protagoniste.

Innanzitutto, è opportuno ricordare che l’Islam è soltanto una delle componenti che costituiscono l’universo culturale di una nazione. È vero che in Iran i principali ostacoli che, a livello politico e giuridico, si interpongono all’affermazione e all’emancipazione femminile sono eretti in nome della religione, in quanto prodotti di una rivoluzione “islamica”, ma è anche vero che questi ostacoli sono riconducibili in primo luogo a una struttura mentale e sociale che a tale rivoluzione è preesistente e che può essere identificata con il concetto di “cultura patriarcale”. La cultura patriarcale, un insieme di valori, norme e costruzioni sociali che puntano a confinare la donna alla sfera domestica e a riconoscerne il valore soltanto in quanto moglie e madre di famiglia, esisteva in Iran anche prima della rivoluzione khomeinista, e non era stata intaccata se non in minima misura dal processo di modernizzazione e occidentalizzazione promosso o, per meglio dire, imposto dai due Shah Pahlavi (Reza Shah, 1925-1941 e Mohammad Reza Shah, 1941-1979) nel corso del secolo scorso: disposizioni come l’abolizione forzata del velo (1963) o la concessione del diritto di voto alle donne (1967), oltre ad avere un carattere selettivo, in quanto andavano a toccare soltanto alcuni segmenti privilegiati della popolazione urbana, senza riuscire a coinvolgere la stragrande maggioranza delle donne delle aree rurali e popolari, non erano altro che misure di carattere politico per contrastare il potere delle aree conservatrici e degli ulama, il clero sciita iraniano, principali oppositori dello Shah, e non avevano lo scopo più profondo di sensibilizzare e aprire le coscienze degli iraniani ai valori dell’emancipazione femminile, un’emancipazione che il potere ha sempre voluto controllare e reprimere piuttosto che promuovere, proprio a causa del potenziale rivoluzionario intrinseco alla mobilitazione e alla presa di coscienza del sesso “debole”. È comunque possibile obiettare che la rivoluzione islamica non abbia certo apportato miglioramenti nello status delle iraniane, ma abbia anzi cancellato alcune misure di incontestabile progresso adottate dagli Shah, come la legge di protezione della famiglia del 1967, che introduceva una legislazione del diritto di famiglia tra le più avanzate dell’area islamico-mediorientale e che fu immediatamente abolita dagli ayatollah in seguito al “trionfo” rivoluzionario.

Ed è, soprattutto, legittimo domandarsi perché le donne parteciparono con tanto accanimento e passione, sacrificando se stesse e i propri figli, a una rivoluzione che rappresentò il trionfo più grande di quell’Islam inteso non tanto come credenza o identità culturale, ma come trionfo del potere patriarcale. Ma quando le iraniane scesero in piazza, tra il 1978 e il 1979, l’Islam non era altro che la bandiera comune di una mobilitazione vasta e multiforme che raggruppava esperienze ideologiche divergenti (la sinistra, gli ulama, gli intellettuali e, appunto, le donne) contro le ingiustizie e le iniquità di un regime considerato corrotto, autoritario e asservito all’occidente, ed era dunque sentito come un simbolo di libertà e di progresso piuttosto che di regressione. Per le donne, inoltre, l’utilizzo dello hejab o dello chador, la classica tenuta iraniana nera che copre il corpo della donna dalla testa ai piedi, oltre che essere il simbolo di una rivendicazione culturale e identitaria contro l’occidentalizzazione imperiale, era l’unico modo per legittimare la loro presenza e la loro militanza nello spazio pubblico accanto agli uomini, altrimenti considerata disdicevole, e il loro accesso a quella categoria di “popolo” che in un Paese come l’Iran, proprio a causa del dominio della cultura patriarcale, era stata da sempre considerata preclusa alle donne. Dunque, l’Islam del 1979, a differenza dell’Islam “ufficiale” degli anni Ottanta e Novanta, rappresentava per le donne libertà e innovazione piuttosto che regressione e ritorno alla tradizione. Le misure di “islamizzazione” adottate da Khomeini e dai suoi seguaci con la rivoluzione culturale degli anni Ottanta hanno compromesso definitivamente questa visione dell’Islam, hanno minato i diritti delle donne, hanno cancellato il loro impegno rivoluzionario e i loro sforzi per essere attrici di primo piano nella società e le hanno nuovamente recluse all’interno della sfera familiare, in quanto considerate dagli ayatollah pericolosi elementi di contaminazione e corruttibilità dello spazio pubblico. In questo senso, esse possono essere considerate misure politiche più che religiose, in quanto finalizzate all’instaurazione di un sistema totalizzante basato sul predominio di un attore sugli altri, e sull’annientamento di qualsiasi opposizione. In questo possiamo riconoscere due elementi di continuità, piuttosto che di rottura, con la situazione pre-rivoluzionaria: la strumentalizzazione delle donne e della questione femminile al servizio del mantenimento del potere e, al tempo stesso, l’intrinseco riconoscimento del potenziale di “pericolosità”, dunque di rivoluzionarietà, della presa di coscienza femminile, e la parallela strumentalizzazione dell’Islam per legittimare un assetto politico antidemocratico e autoritario, basato sulla cancellazione delle opposizioni e della diversità.

Ed è proprio a questa strumentalizzazione che si oppongono oggi le esponenti del “movimento delle donne”: non all’Islam inteso come fede o identità culturale, ma al suo utilizzo politico e alla sua interpretazione in senso antidemocratico e patriarcale, una strumentalizzazione resa possibile dalla stessa forma di Stato iraniana, basata sulla teoria khomeinista del Velayat-e faqih, ovvero sul monopolio dei religiosi, rigorosamente di sesso maschile, nell’interpretazione dei testi sacri e nella loro applicazione nell’ordinamento giuridico. Esse ricercano un diverso modo di interpretare e comprendere l’Islam, che ne valorizzi i principî ugualitaristici e di giustizia sociale, e il riconoscimento della dignità di tutti gli esseri umani, indipendentemente dal loro sesso. Per loro, il Corano è il testo nel quale si legge che uomini e donne sono uguali in origine e responsabilità di fronte a Dio, e non una giustificazione a pratiche barbariche come la lapidazione delle adultere, pratiche in cui, peraltro, nel libro sacro dei musulmani non vi è traccia. La loro ricerca e i loro sforzi si esprimono in studi, convegni, pubblicazioni, forum di discussione aperti al grande pubblico, come quelli della rivista Zanan, ma anche in pratiche dai contenuti apparentemente meno impegnati, ma il cui valore, in un contesto caratterizzato da enormi limitazioni espressive come la Repubblica Islamica, è altrettanto se non più grande, come il cinema, lo sport e le arti. Non va inoltre dimenticata la prassi politica: per quanto l’accesso delle donne all’agorà sia condizionato dalla fedeltà all’ideologia islamica, e per quanto le cariche politiche più alte siano tradizionalmente considerate precluse alle donne, esse possono, comunque, votare ed essere elette in parlamento e, nonostante la loro presenza nel Majles sia stata sempre esigua (variando da 4 a 13 candidate dal 1979 a oggi), la loro azione diventa di giorno in giorno più cosciente ed efficace, permettendo a volte risultati importanti, come l’adozione, nel 1992, di importanti emendamenti alla legislazione sul divorzio, che ripristina importanti forme di tutela nei confronti delle donne presenti nell’ordinamento familiare prerivoluzionario (introduzione di clausole prematrimoniali che attribuiscono alla donna il diritto di iniziativa di divorzio e obbligo della presenza di donne come consiglieri nei tribunali che si occupano di cause attinenti il diritto di famiglia). Non dobbiamo inoltre dimenticare che è proprio grazie al voto di una maggioranza femminile che, alle elezioni presidenziali del 1997 venne eletto il candidato riformatore Khatami, il quale riuscì a sconfiggere il conservatore Nouri, favorito dalla stessa guida della rivoluzione Ali Kamenehi, proprio grazie a una campagna elettorale basata sulla valorizzazione dell’emancipazione femminile e della società civile. In questa pluralità di strategie, può stupire la nuova solidarietà esistente oggi tra le donne laiche e le donne islamiste: antagoniste e sospettose le une verso le altre ai tempi della rivoluzione, oggi queste due categorie di donne si tendono la mano. Nonostante la diversità dei loro percorsi e piattaforme ideologiche, esse hanno maturato un’esperienza di comune sofferenza e sono giunte alla consapevolezza della priorità del miglioramento dello status femminile su qualsiasi altro fattore di carattere ideologico. È per questo motivo che intellettuali e giuriste laiche come Mehranguiz Kaar o Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003, oltre che esponenti del mondo intellettuale riformatore maschile, consapevoli dell’importanza della mobilitazione femminile per un’evoluzione in senso democratico della realtà iraniana, sostengono le islamiste nel loro sforzo di studio e reinterpretazione dei testi sacri alla base della teocrazia iraniana in senso ugualitario e genuino, oltre che la loro opera di sensibilizzazione, solidarietà e impegno nei confronti delle donne e la loro battaglia per la presenza femminile nel mondo dell’istruzione, del diritto e della politica. Le iraniane, reduci da una storia in cui il confronto politico e ideologico tra le forze della tradizione e quelle della modernità è spesso passato sul loro corpo, e ne ha fatto al tempo stesso armi e vittime in nome di ideologie, l’Islam in primo luogo, che non hanno tenuto in conto le loro reali esigenze e aspirazioni, sono giunte alla consapevolezza comune della necessità di tornare protagoniste della realtà del loro paese, e la loro battaglia è tanto più importante in un contesto come quello odierno, nel quale gli ultraconservatori di Ahmadinejad portano avanti una linea politica sempre più aggressiva e lontana dal reale sentire della popolazione. Indipendentemente dalla possibilità teorica di ricondurre la loro mobilitazione alla nozione di “femminismo”, tipica del mondo occidentale, indipendentemente dunque dall’esistenza o meno del tanto discusso “femminismo islamico”, la loro storia, la loro azione e il loro movimento rappresentano un’esperienza complessa, unica ed esemplare all’interno dell’intero mondo musulmano.