Il pontefice e i filosofi devoti

di Pietro Rossi, Torino

Il fascino carismatico dell’istituzione ecclesiastica si staglia all’orizzonte della filosofia, soprattutto quando è congiunto con il carisma della persona, e alcuni filosofi di varia estrazione ne vengono abbagliati. Così è accaduto con lo scomparso papa Wojtyla, le cui encicliche trovarono un’accoglienza assai più favorevole di quanto il loro contenuto teorico meritasse. E così sta avvenendo anche con il nuovo pontefice, un teologo che ha cercato, prima di salire sulla cattedra di Pietro, il dialogo con esponenti della filosofia laica.

Nei mesi scorsi sono apparsi due volumi che sono entrambi documenti significativi di questo dialogo, e che vedono come interlocutori del cardinale Joseph Ratzinger rispettivamente un filosofo tedesco, il principale erede della scuola di Francoforte, e un filosofo italiano, che dall’iniziale entusiasmo per l’epistemologia popperiana è divenuto un sostenitore dell’assolutezza dei valori: Jürgen Habermas e Marcello Pera. Entrambi i volumi traggono origine da una discussione. Il primo è la traduzione di un dibattito tra Habermas e Ratzinger sul tema Was die Welt zusammenhält. Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, che si tenne a Monaco, presso la Katholische Akademie bavarese, nel gennaio 2004 e che fu tempestivamente pubblicato dalla Herder Verlag di Friburgo; esso compare presso Marsilio, nei “Libri di Reset”, con il titolo Ragione e fede in dialogo, corredato da una lunga introduzione di Giancarlo Bosetti e da una postfazione di Massimo Rosati. Il secondo, dal titolo Senza radici, edito da Mondadori, contiene il testo di due conferenze del maggio 2004, l’una di Pera su Il relativismo, il Cristianesimo e l’Occidente e l’altra di Ratzinger su Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani; seguono due lettere, rispettivamente di Pera a Ratzinger e di Ratzinger a Pera.

Comune al futuro pontefice e ai suoi interlocutori è la convinzione che il mondo - e, in particolare, il mondo occidentale - viva oggi una svolta, e sia entrato in una fase “postsecolare” (un altro post, come se non bastassero i tanti coniati negli ultimi decenni, a partire dal fumoso “postmoderno”!). Il che presuppone il venir meno di una visione storica che correlava la modernità al distacco dalla religione, con la sua riduzione alla sfera privata. Come rileva Bosetti nella pagine introduttive al primo dei due volumi, «c’è una persistenza della religione e una sua crescente richiesta di partecipazione al discorso pubblico in contrasto con quelle classiche previsioni che facevano pensare a un crescere del disincanto e a un tendenziale ritirarsi nella dimensione privata» (p. 8). Confinata nella sfera privata, nell’intimità delle convinzioni personali dell’individuo, la religione cerca di riconquistare la sfera pubblica, di influire sulle scelte politiche e sulla loro traduzione in norme legislative. E da parte di autorevoli esponenti della cultura laica spesso si consente a questo intento, talvolta addirittura lo si legittima1.

In realtà il ragionamento di Habermas è alquanto più complesso. Egli muove dalla tesi che «lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire» (p. 41), e va in cerca dei «fondamenti morali» dello Stato, fondamenti che sono – così ritiene – «prepolitici». Il ben noto rilievo dell’incapacità di auto-giustificazione della ragione umana, tanto caro all’apologetica religiosa, viene così trasposto sul terreno della filosofia politica. Esso trova un sostegno nella preoccupazione che le fonti della «solidarietà dei cittadini», da cui «gli ordinamenti liberali dipendono», possano «esaurirsi a causa di una secolarizzazione della società dai caratteri aberranti» (p. 42). Preoccupazione che trae origine da un giudizio negativo sul processo di globalizzazione e sulla sua dinamica «non politicamente controllata», che tende a trasformare i cittadini in «monadi isolate» (p. 51). Da ciò Habermas conclude alla necessità di recuperare una legittimazione del potere statale che, senza comportare l’attribuzione di un valore etico allo Stato, salvaguardi quella neutralità nei confronti delle visioni del mondo che è propria della tradizione liberale. Sul modo di realizzare questo recupero Habermas è assai vago. Egli sostiene non soltanto che lo Stato ha (o deve avere?) fondamenti morali antecedenti all’ambito politico, ma anche che «i presupposti normativi di uno Stato costituzionale democratico […] sono più impegnativi per chi assume il ruolo di membro della società, rientrando così tra i destinatari del diritto» (p. 47). In termini meno gergali, questo significa che il ruolo di cittadino di uno Stato democratico richiede un surplus di motivazione, in quanto comporta una partecipazione attiva alla vita pubblica «nella prospettiva del bene comune» (p. 47).

E qui entra in gioco la religione. Quella che Habermas chiama la «modernizzazione aberrante della società presa nel suo complesso» rischia, a suo parere, di indebolire la solidarietà sulla quale si regge lo Stato democratico (p. 51); la tradizione religiosa può allora venire in suo aiuto, rafforzando le basi di una convivenza solidale. Ne deriva la necessità di un «processo di apprendimento complementare», che coinvolga «cittadini non credenti e credenti» (p. 59). Apprendimento complementare vuol però dire, almeno nell’intenzione di Habermas, apprendimento reciproco. Da una parte dà per scontato, non a torto, che la religione abbia dovuto rinunciare alla tradizionale «pretesa di monopolio dell’interpretazione e di organizzazione complessiva della vita», che essa sia ormai un sotto-sistema parziale della società al pari di altri (p. 60). Dall’altra sottolinea che la coscienza laica deve acquisire «un rapporto auto-riflessivo con i limiti dell’Illuminismo» (p. 61), anche se non è chiaro che cosa sia, o voglia essere, questo rapporto. Se «la neutralità del potere statale […] è inconciliabile con la generalizzazione politica di una visione del mondo secolaristica», il cittadino non credente non può «disconoscere un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni del mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa»; gli si può anzi chiedere – questa è la conclusione cui Habermas perviene, sulla linea indicata in Glauben und Wissen«di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti» (pp. 62-63).

La modernità in crisi si rivolge dunque alla religione per acquisire da essa dei “materiali” utili a fondare moralmente la convivenza solidale tra cittadini, credenti e non credenti, di uno Stato democratico. Il che comporta l’ammissione – piuttosto grave per un filosofo “laico” – che la tradizione liberale non sia in grado di produrre, o di rinnovare, i fondamenti morali della società civile. Ben più “devota” è la posizione di Pera: il Cristianesimo è per lui l’alleato indispensabile per combattere il pericolo mortale che incombe sulla civiltà occidentale, il relativismo. E questo pericolo è tanto più grave in quanto l’Occidente si trova oggi di fronte alla minaccia dell’Islam, portatore di valori incompatibili con la sua tradizione. Il relativismo, sostenendo che le culture sono incommensurabili tra loro e che esistono criteri di valore «sempre infra-, mai inter-culturali» (p. 15), ha condotto l’Occidente alla paralisi; ed «è penetrato anche nella teologia cristiana, l’ultima roccaforte che esso non aveva ancora espugnato» (p. 24), giungendo talvolta a relativizzare la stessa verità cristiana, a fare di Gesù Cristo «“uno tra i tanti” nel mondo dei salvatori e dei liberatori» (p. 25). Pera invoca quindi rigore dottrinale all’interno della Chiesa (cattolica, s’intende), invoca il primato della verità rivelata rispetto al dialogo; e ciò in base alla convinzione che «il relativismo che predica l’equipollenza dei valori o l’equivalenza delle culture orienta non tanto alla tolleranza quanto all’arrendevolezza e più alla resa che alla consapevolezza, più al declino che alla forza di convinzione, penetrazione, missione […] un tempo tipica del cristianesimo, dell’Europa, dell’Occidente» (pp. 33-34).

Habermas guarda alla religione come a un sostegno della democrazia; Pera – non alieno da toni alla Oriana Fallaci – cerca nel Cristianesimo un alleato nella lotta contro l’Islam: una lotta in cui «il dialogo non serve a niente se, in anticipo, uno dei dialoganti dichiara che una tesi vale l’altra» (p. 43). Per cui il conflitto tra le civiltà, di cui ha parlato Samuel P. Huntington in un libro che ha avuto larghissima risonanza2, si vince in primo luogo rafforzando le difese ideologiche, facendo propria la fede in «valori universali», in «valori unici e condivisi», della quale è campione George Bush (p. 38), e liberandosi così dal «morbo del relativismo» (p. 77). Condizione per condurre questa battaglia è il richiamo alle «radici giudaico-cristiane» dell’Europa, dalle quali discendono «le nostre libertà e il nostro stesso liberalismo» (p. 35). Perciò Pera concorda con l’impegno di Ratzinger «per la difesa di alcuni valori, principî e istituti di fondo», i quali «stanno subendo l’assalto di legislazioni “laiche” in Europa» (p. 85). A questo scopo egli ritiene indispensabile una «religione civile», la quale gli appare «naturaliter cristiana per la peculiare tradizione europea e occidentale» (p. 86). Non c’è bisogno di mettere in discussione la separazione tra Stato e religione, tra Stato e chiesa, purché essa non venga intesa come “cesura”: la religione cristiana è parte integrante della “religione civile”, «perché [essa è] spirito e sentire comune di una società civile che se ne nutre» (p. 87). Il problema del rapporto della coscienza laica con il Cristianesimo è così sbrigativamente risolto, o meglio eliminato: i valori sono i medesimi, e differente è soltanto la giustificazione che ne viene data.

Rispetto allo spirito di crociata che anima il nostro intrepido filosofo, l’intervento di Ratzinger appare un capolavoro di moderazione (che sia anche lui tra i potenziali disfattisti aborriti da Pera?). Dell’origine del mondo europeo egli delinea un quadro equilibrato, che ne riconosce la pluralità di componenti. E correttamente osserva che a partire dall’Ottocento «si sono sviluppati due modelli europei», «il modello laico» nelle nazioni latine e «il modello di Chiesa e Stato del protestantesimo liberale» nei Paesi germanici, ai quali si affianca il modello statunitense «attraversato da un consenso cristiano-protestante non definito in termini confessionali», in virtù del quale la religione si costituisce «come forza prepolitica e sovrapolitica potenzialmente determinante la vita politica» (pp. 62-63). Su un punto, però, Ratzinger concorda con il suo interlocutore: sull’«impressione» che con la diffusione del modello di vita europeo «il sistema di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi già uscito di scena; che sia giunta l’ora dei sistemi di valori di altri mondi» (p. 59). E rileva preoccupato, proponendo «il confronto con l’Impero romano al tramonto», la «mancanza di voglia di futuro» (p. 60); analogamente a Pera, constata il diffuso «odio di sé dell’Occidente» che, mentre si apre alle altre culture, «non ama più se stesso» e si è costruita un’immagine negativa del proprio passato (pp. 70-71). La proposta di Ratzinger si riassume nell’affermazione del carattere incondizionato dei valori fondamentali «che precedono qualsiasi giurisdizione statale» e sono indipendenti da essa (p. 67). Nell’esistenza di valori assoluti sta «la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana»; essa «rinvia al Creatore» che li ha stabiliti, creando l’uomo a propria immagine (p. 67). Manco a dirlo, il terreno sul quale questi valori vengono oggi messi a repentaglio è quello della genetica, né Ratzinger ci risparmia il richiamo terroristico agli «orrori del nazismo e della sua dottrina razzista» (p. 68); insieme ad esso c’è quello della salvaguardia della famiglia, che può essere fondata soltanto – ma qui c’entra forse più il diritto romano che la tradizione giudaico-cristiana – sul «matrimonio monogamico, come struttura della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella formazione della comunità statale» (pp. 68-69).

Nella risposta a Pera la posizione del cardinale diventa più esplicita, soprattutto per quanto riguarda la rappresentanza della religione nella sfera pubblica. La proposta di una religione civile si traduce, quasi che la cosa fosse ovvia, nella proposta di una religione civile cristiana. Ratzinger conviene nella diagnosi che l’Europa si trovi «in rotta di collisione con la propria storia», in quanto nega «qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani» (p. 99); ma non se ne chiede il perché. O, meglio, si limita a rilevare con rammarico che nei paesi latini si è affermato un laicismo che vuol dire «appartenenza […] alla corrente spirituale dell’illuminismo, e da quel momento non sembra esserci più nessun ponte che conduca alla fede cattolica», con la conseguenza che «i due mondi sembrano essere diventati impenetrabili l’uno all’altro» (p. 105). Ratzinger sembra non rendersi conto del fatto che la compenetrazione della religione nella società americana è strettamente connessa con il pluralismo religioso, mentre la divaricazione tra cultura laica e Chiesa cattolica è il prodotto della pretesa di monopolio che questa ha sempre avanzato. Il lamento su quella che egli chiama «l’esclusione dei contenuti e dei valori cristiani dalla vita pubblica» (p. 105) è il portato dell’esclusività con cui questi valori sono stati e vengono tutt’ora proposti, e sovente anche imposti. Non a caso, nel quadro storico che egli traccia compaiono la Riforma, il movimento illuministico, la rivoluzione francese e la società americana (con un opportuno riferimento a Tocqueville), ma è del tutto assente la Controriforma. Che la cultura laica abbia assunto, specialmente nella Francia settecentesca, tratti radicali è da imputarsi non tanto a un suo presuntuoso atteggiamento anti-religioso, ma al tentativo di far valere, con l’appoggio del potere secolare, una determinata fede religiosa con tutto il suo bagaglio di credenze e, perché no?, di pregiudizî.

Né Ratzinger sembra aver imparato la dura lezione della storia. Quando fa valere, alla Toynbee, «l’importanza delle minoranze creative» (p. 109), considerandole la base di una religione civile cristiana, e per di più asserisce che esse «non possono stare in piedi da sé, né vivere di sé», ma devono attingere al patrimonio di fede della Chiesa, non si rende conto che, se ancora può esserci spazio per una «religione civile», non è però possibile ripristinare una uniformità di credenze, e neppure di valori condivisi: la pluralità di concezioni del mondo, o – per esprimerci in termini meno solenni – delle convinzioni e dei comportamenti che ad esse si ispirano è un dato ineliminabile della società contemporanea. Capisco che un cardinale, e a fortiori il pontefice romano, possa dispiacersene, e rimpiangere il bel tempo antico; altri invece lo considerano, a buon diritto, una conquista, anche se – come tutte le conquiste – può avere pure risvolti negativi. Ratzinger riconosce, e si deve rendergliene merito, che oggi il «modello di vita» cristiano «non convince» (p. 113); ma la risposta a questa sfida non può essere il richiamo, per quanto legittimo dal punto di vista religioso, alla rivelazione, e meno che mai la pretesa che questa fornisca l’unica chiave interpretativa di ciò che l’uomo è o dev’essere, né la base indiscussa di come si debbano affrontare i problemi posti dalla genetica. Quando Ratzinger afferma, per esempio, che «la questione del diritto alla vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica della fede, ma di etica della ragione» (p. 120), non gli si può certo dar torto; ma che cosa voglia dire «essere uomo», quando cominci non già la vita ma la vita umana, se di questa si possa parlare anche in termini di qualità, se l’individuo possa decidere della propria vita, in quale misura e in quali condizioni, quali norme legislative se ne possano derivare in materia di aborto o eutanasia, sono tutte questioni che non possono essere risolte contrabbandando come risposte “razionali” quelle che si accordano con la posizione del magistero della Chiesa, anzi di una determinata chiesa, e assumendo la conformità al suo insegnamento come criterio determinante di razionalità.

E qui ritorna in ballo l’antico problema del rapporto tra ragione e fede, esercizio prediletto di ogni scolastica (non soltanto cattolica). Quando lo si è posto, la soluzione era sempre già data: la fede va oltre i limiti della ragione, o può farne addirittura a meno. La fides quaerens intellectum va inevitabilmente alla ricerca di un sostegno per verità che non possono né devono venir messe in discussione, se non in via di ipotesi. Ratzinger non si discosta da questo atteggiamento. Nel dibattito con Habermas si chiede sì se la religione non debba essere «posta sotto la tutela della ragione e attentamente delimitata», ma se la cava chiedendosi «chi può farlo?» (p. 71); e replica avanzando il «dubbio sulla affidabilità della ragione» (p. 72), sottolineandone i «limiti» e sostenendo che «essa deve imparare la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni dell’umanità» (p. 80). Tutto bene: la ragione – per usare questo termine tanto equivoco – ha i suoi limiti, il sapere scientifico progredisce attraverso errori e auto-correzioni, «la scienza come tale non può produrre un’etica» (p. 66), e via dicendo. Ma la fede non conosce anch’essa limiti, non foss’altro che per l’esistenza di molteplici tradizioni religiose irriducibili a un denominatore comune? Non compie errori, o forse semplicemente non è capace di correggerli? E, per quanto riguarda la Chiesa cattolica, chi dice che, dopo aver confessato la propria colpa nei riguardi di Galilei, non dovrà confessare domani un’analoga colpa verso Darwin e l’evoluzionismo, e ancora una volta troppo tardi?

Nelle pagine conclusive del saggio sui fondamenti spirituali dell’Europa il cardinale Ratzinger reclama, come «aspetto fondamentale per tutte le culture», «il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio» (p. 70). Non si può non consentire: la religione è un elemento ineliminabile della vita umana, e le tradizioni religiose sono parte, e parte tutt’altro che secondaria, del patrimonio culturale dell’umanità. Ma perché mai si pretende rispetto per la religione, e non altrettanto rispetto da parte della religione, da parte di chi professa una fede verso chi ne professa un’altra (magari ritenuta non “vera”) o verso chi non ne professa nessuna, convinto che Dio non esiste o che l’immagine che la religione (una religione) ne fornisce sia mistificatoria? Il rispetto non è un atteggiamento a senso unico, né tra gli individui né tra le culture.

Eppure in questo dialogo tra il cardinale Ratzinger, ora divenuto papa Benedetto XVI, e due filosofi entrambi devoti, anche se in maniera e misura differente, serpeggia l’asimmetria del rapporto. Ha ragione Massimo Rosati a intitolare la postfazione al volume di Reset «Prove di dialogo (asimmetrico)». Che la religione non sia morta, che essa stia riguadagnando terreno nella sfera pubblica, magari con la compiacenza di politici interessati più a far carriera che alla vita eterna, che il “risveglio” religioso in chiave politico-sociale sia un fenomeno globale, è ben vero. Ed è vero non soltanto né principalmente nel mondo europeo o, più in generale, occidentale: l’Islam lo insegna. Ma alla religione occorre guardare in termini realistici, di analisi storico-sociologica. E allora ci si può render conto che le religioni possono essere «“serbatoi” di senso e luoghi privilegiati di fondamentali esperienze individuali e collettive» (p. 86), ma non sono soltanto questo: possono essere, sono state e sono ancor oggi deposito di errori, di falsità, di imposture3, perfino fonte di fanatismo, incitamento alla persecuzione e al massacro. E ci si può render conto anche del vantaggio di una società laica: che ognuno ha diritto di scegliere quale senso dare alla propria vita4 e a quale “serbatoio” attingere, se così decide. Se proprio si volesse indulgere ai giudizi di valore dei quali è prodigo Pera, ai confronti assiologici tra le culture, l’unica differenza dell’Occidente nei confronti delle altre starebbe proprio in questa libertà. Ma essa non è il frutto del Cristianesimo, meno che mai appartiene al patrimonio della Chiesa cattolica; è il prodotto della lotta per la tolleranza religiosa, di una lotta secolare combattuta anche (e soprattutto) contro le chiese, in primo luogo contro il Cattolicesimo.

(Tratto da Nuova Informazione Bibliografica, anno II, n. 4, ottobre-dicembre 2005, pp. 625-653).

L’Autore

Pietro Rossi è ordinario di Filosofia della Storia all’Università di Torino. Tra le sue opere principali: Lo storicismo tedesco contemporaneo (1956), Storia e storicismo nella filosofia contemporanea (1960), Max Weber: oltre lo storicismo (1988). Dirige una raccolta dei principali testi weberiani per le Edizioni di Comunità. Coordina, insieme a Carlo A. Viano, la Storia della filosofia per Laterza.

Note

  1. Un esempio tra i tanti è l’articolo di Giuliano Amato, Che cosa vuol dire essere laici oggi, pubblicato su Repubblica del 31 agosto 2005; ma si veda la critica puntuale che ne ha fatto Massimo L. Salvadori, La nuova alleanza tra fede e ragione, su Repubblica del 10 settembre successivo.
  2. S.P. Huntington, The Clash of Civilisations and the Remaking of World Order. New York, Simon & Schuster, 1996, trad. it. di S. Minucci con il titolo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997.
  3. A questo proposito si rimanda al libro di C.A. Viano Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni, Torino, Einaudi, 2005.
  4. Si veda il volumetto – ricco, in realtà, più di belle citazioni che di argomentazioni – di Giulio Giorello Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Milano, Cortina, 2005. Cfr. anche i saggi raccolti nel volume Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2005.