Francia: la laicità impone la sua legge

di Carlo Talenti

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Il contributo di Geoges Jobert pubblicato sul n. 3/2004 (32) de L’Ateo registra e motiva la scontentezza di un laico francese verso la pratica compiacente della “laicità aperta” che si è insinuata nell’ordinamento scolastico francese, facendo concessioni alle scuole private confessionali. Tuttavia, leggendo nel contesto italiano il recente dossier La laïcité impose sa loi, pubblicato su Le Monde de l’éducation, gennaio 2004 (d’ora in poi citato semplicemente LISLO), c’è motivo di maggior rammarico per quanto accade in Italia.

LISLO comprende dieci sezioni: Un principio che non è più ovvio (pp. 25-27 di Christian Bonrepaux); La legge degli uomini contro la legge di Dio (pp. 28-30 a cura di Brigitte Perucca); Parlare di religione da un punto di vista schiettamente laico (pp. 30-33 di Luc Cédelle); Europa: la Francia è mostrata a dito (pp. 33-34 di Mathilde Mathieu); Il “paradiso” americano degli studenti musulmani (pp. 34-35 di Burton Bollag, giornalista del Chronicle of Higher Education, testo tradotto dall’inglese da Laetitia de Kerchove); Mio padre non capisce nulla del vero islam (pp. 36-37 di Julie Chupin); L’insegnamento cattolico extrastatale (pp. 38-39 di Maryline Baumard); I musulmani entrano nel dibattito (pp. 40-41: di Diane Galbaud); Il crescente successo delle scuole ebraiche (pp. 42-44: di Brigitte Perucca); Visita ad Auschwitz: il risveglio della coscienza giovanile (pp. 44-45 di Mathilde Mathieu).

La lettura del dossier mette subito di fronte a un’evidenza intricata: le motivazioni della polemica contro la laicità alla francese non sono omogenee; anzi, spesso sono tra loro incompatibili e in contrasto, ma nell’insieme stanno producendo un effetto di disgregazione della laicità. Perciò la Francia si sta interrogando su questa tendenza a livello di responsabilità governative: cerca di difendere e, dove è necessario, di reinventare la sua tradizione di netta separazione tra Stato e chiesa. E da questo osservatorio giudica anche i fenomeni analoghi che si verificano negli altri Stati europei, negli USA e in Canada. Dunque, una valutazione comparata di questa operazione, per chi vive in Italia, può partire soltanto dal laicismo latente nella laicità che lo Stato francese offre alla convivenza civile delle differenze tra i suoi cittadini di vecchia residenza e i suoi immigrati di nuova cittadinanza. E qui incontriamo l’irreversibilità delle rappresentazioni scientifiche del mondo di fronte alle quali entrano in crisi quelle religiose: un nucleo polemico che la cultura politica francese ha assimilato dapprima nella forma dell’illuminismo settecentesco e poi in quella del positivismo ottocentesco, entrambi recepiti nelle versioni elaborate in casa propria, con autorevolezza da protagonista.

Questo confronto polemico tra religione e scienza ha instaurato in Francia una netta separazione tra Stato e chiesa, fondata sull’indifferenza1 dello Stato nei confronti delle religioni. Un atteggiamento che ha assimilato una ricezione benevola dell’agnosticismo e in parte dell’ateismo nello spazio della “neutralità” dello Stato. Questo rilievo serve a differenziare quanto è accaduto nella legittimazione laica della democrazia americana, che invece nello spazio “neutrale” della sua laicità ha mantenuto il riconoscimento di un generico deismo. In God we trust, come è scritto sul dollaro statunitense.

L’indifferenza laica verso le religioni ha finito per diventare in Francia anche una indifferenza giuridico-politica verso identità etniche, che nelle religioni trovano uno dei tratti rilevanti per intraprendere battaglie a difesa della propria differenza. Lo Stato invece, difendendo l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte a un sistema comune di leggi, ha inteso garantire l’emancipazione dalle discriminazioni. L’evento di rottura che ha messo in crisi questo presupposto - non solo in Francia, ma in tutta l’Europa - è stata la perdita di omogeneità antropologica, dovuta all’irruzione delle comunità musulmane e ad altre immigrazioni meno imponenti. Tanto che ormai anche la “universalità dei diritti umani”, in sede di confronti internazionali, risulta sempre più una universalità segnata dalla cultura occidentale.

Tenendo presente questi eventi, diventa comprensibile che in Francia, negli ultimi 15 anni - a partire dal 1989, l’anno in cui è stata posta per la prima volta la questione sulla legittimità di portare il velo islamico a scuola - si siano registrate le più diverse rivendicazioni di differenze identitarie, in nome delle quali la libertà è diventata sempre meno compatibile con l’uguaglianza della giustizia.

Un caso esemplare è quello dei Paesi Bassi, nei quali il governo ha consolidato una separazione sempre più netta tra politica e religione, e ha seguito con attenzione i problemi relativi alla “laicità alla francese”. I Paesi Bassi hanno per anni assecondato le rivendicazioni delle minoranze che lottavano per il diritto alla differenza; rivendicazioni che si accompagnavano a differenti appartenenze religiose (cattolici, protestanti, liberali). Il risultato è stato un sistema molto liberale, che garantisce i diritti degli omosessuali, ampi diritti in materia di bioetica, e il diritto all’eutanasia. Ebbene, da qualche tempo proprio i Paesi Bassi devono far fronte a reazioni di segno contrario che lottano contro questi riconoscimenti. Ma il governo non si lascia intimidire: la laicità “alla francese” garantisce a tutti i gruppi di rivendicazione il diritto di seguire la propria morale, mantenendo fermo il solo il divieto di imporla agli altri.

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Ma, in materia di rivendicazioni contrastanti che minacciano la laicità dello Stato, anche la Francia offre una casistica assai varia. C’è chi si rifiuta di studiare l’arte contemporanea su un nudo femminile di Botero, perché considera il tema scelto dall’insegnante incompatibile con la propria morale sessuale. C’è chi si rifiuta di studiare Molière, Rabelais e Voltaire perché li considera troppo irreligiosi. Oppure chi si rifiuta di studiare Péguy perché lo considera troppo cristiano. C’è l’allievo musulmano che si rifiuta di studiare Il Tartufo di Molière perché giudica il teatro uno spettacolo depravato. Per contro, c’è l’insegnante che studia con attenzione il Corano e a ogni citazione intimidatoria e discriminante dell’allievo musulmano, risponde con una sura contrapposta a quella messa in campo. C’è chi rifiuta la teoria dell’evoluzione «perché l’insegnante parla di eventi ai quali non ha potuto assistere». E c’è l’allievo che informa l’insegnante di aver spiegato ai propri compagni come ricorrere alla “preghiera” - religiosa, s’intende - per ottenere dei buoni voti, e assicura di non aver fatto opera di proselitismo. C’è la presa di posizione antisemita di un gruppo di allievi che rifiuta di ammettere la Shoah; ma c’è anche la visita ad Auschwitz che diventa occasione di un consapevole rifiuto dell’antisemitismo.

Del resto, le rivendicazioni della differenza identitaria moralistica hanno sviluppato tutta una loro casistica anche al di fuori della scuola, negli ospedali, nell’esercito, nei tribunali e nelle aziende. Maschi che si oppongono alla pratica occidentale che affida le loro donne e le loro figlie a medici maschi. Pretese di luoghi separati per ebrei e musulmani nelle mense. Malati che chiedono luoghi separati negli ospedali dove poter preparare i cibi tipici della propria tradizione, senza pensare al rischio di diffondere infezioni incontrollabili. Individui convocati in tribunale che si rifiutano di giurare «in nome della legge» vigente in Francia, perché la sola legge valida è quella di Dio e quella umana è «una legge di buffoni». E la stessa pretesa delle donne musulmane di portare il velo è conseguenza di motivazioni contrastanti: alcune ragazze lo portano perché i loro padri sono pagati da organizzazioni islamiche per garantire questo comportamento; altre lo portano per proteggersi dalle aggressioni o perché vi sono costrette dalla tradizione familiare; alcune lo portano per ragioni di contestazione politica contro le discriminazioni alle quali gli immigrati islamici sono sottoposti; poche sono quelle che lo portano esclusivamente per profonde convinzioni spirituali.

Aver dato tanta importanza alla questione del velo - commenta Jacqueline Costa-Lascoux, ricercatrice impegnata nella elaborazione del Rapporto Stasi - ha fatto dimenticare l’enorme repertorio di rivendicazioni centrifughe che minacciano la laicità dello Stato. Per far fronte a queste, alcuni responsabili delle istituzioni hanno minimizzato i problemi, altri li hanno affrontati con vario successo, ricorrendo alla discussione, alla flessibilità o alla fermezza. Ma persino i sindacati sembrano disorientati e si rifugiano in una “rassegnazione critica”. E tuttavia, a differenza di ciò che accade in Italia, lo Stato francese non è latitante, ma ha messo in atto varie inchieste sistematiche per avere a disposizione una chiara descrizione dell’ampiezza e della varietà dei fenomeni che minacciano la laicità. Ed è ben deciso a difenderla.

Di fronte al carattere pretestuoso di molte tendenze centrifughe il Rapporto Stasi suggerisce fermezza da parte dello Stato, ma riconosce anche l’emergere di fenomeni che giustificano tolleranza e flessibilità. Condanna la tendenza al vittimismo che viene dall’esperienza americana - quella di rinchiudersi nella propria umiliazione sociale per far riconoscere la propria identità - ma prende atto che nella comunità musulmana francese molti non sono praticanti e pochi in fondo sono gli integralisti fanatici. Registra con soddisfazione che i buddisti residenti in Francia rendono omaggio alla laicità, perché accorda loro diritti che non sono riconosciuti in altri paesi; e sottolinea che in Francia il 15% dei matrimoni sono misti, contro il 3% dei Paesi Bassi.

Il Rapporto Debray, del 2002, mette in evidenza l’importanza antropologica del fenomeno religioso, che mostra tutta la sua conflittualità latente nel momento in cui religioni che erano rimaste per secoli confinate in una loro nicchia culturale sono venute a contatto in Europa per effetto delle immigrazioni, e qui si sono riscoperte incompatibili; come già era accaduto nell’antichità, prima che la marea trionfante delle conversioni al cristianesimo creasse l’illusione di una universalità religiosa privilegiata ed esemplare. Appunto per far fronte alla nuova situazione ormai irreversibile, Debray sostiene, insieme a molti responsabili dell’educazione, la necessità di diffondere anzitutto tra i docenti un’informazione sistematica sulla varietà dell’esperienza religiosa. Al riguardo avanza tre proposte: a) l’aggiornamento degli insegnanti in merito ai riferimenti alla storia delle religioni impliciti nelle materie dei curricoli scolastici; b) un modulo d’insegnamento obbligatorio di “filosofia della laicità” e storia delle religioni nella formazione degli insegnanti; c) la fondazione di un Istituto Europeo in scienza delle religioni collegato alla École des Hautes Études. Quest’ultimo è entrato in funzione sotto la direzione dello stesso Debray. Le altre due iniziative, riguardanti “la formazione degli insegnanti” sono state avviate e riguardano alcune decine di migliaia di docenti.

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La Francia conta quasi 5 milioni di musulmani su un totale di 11 milioni presenti in Europa; il Regno Unito ne ospita 2 milioni; la Germania, con una popolazione quasi doppia, ne ospita 3 milioni e gli Stati Uniti d’America, con una popolazione quasi tripla di quella tedesca, ne ospitano 5,5 milioni. Anche se, secondo un altro conteggio, la Francia ospitasse poco meno di 4 milioni di musulmani, essa rimane lo Stato occidentale che, in rapporto alla propria popolazione, ne ospita la percentuale maggiore. Per di più, le recenti vicende politiche che hanno portato alla guerra in Afganistan e in Irak, insieme con la guerra interminabile tra israeliani e palestinesi e con le tensioni sempre latenti tra musulmani e induisti, ai confini tra Pakistan e India, hanno fatto della “questione islamica“ un polo di conflittualità che ha invaso i media e quindi l’immaginario collettivo.

In presenza di questi eventi di notorietà quotidiana dovrebbe essere sempre più evidente l’enorme potenziale d’integralismo religioso che tutti i monoteismi sono pronti a mettere in campo e se ne dovrebbe trarre la conclusione che, alla resa dei conti, le pretese spirituali pacificatrici delle religioni sono del tutto illusorie. Perciò si dovrebbe apprezzare come esemplare lo sforzo dello Stato francese di difendere e rilanciare la laicità dello Stato come uno dei beni più preziosi ricevuti in eredità dal processo di secolarizzazione e di demitizzazione proprio della tradizione occidentale. E, anche volendo tener conto che lo Stato come luogo privilegiato del potere politico è ormai in declino, dovrebbe essere avvertita l’urgenza di rafforzare un movimento laico almeno d’ampiezza continentale, coestensiva alla nuova Europa, in grado di costituire un argine al dilagare degli integralismi religiosi. L’essere “segnata a dito” dagli altri Stati europei è dunque per la Francia motivo di orgoglio piuttosto che di vergogna; qualunque cosa ne pensino gli Stati contestatori del modello francese di laicità.

Ma il dossier LISLO, documentando la varietà di compromessi adeguati alle situazioni locali, offre anche una casistica utile per evitare una pratica astrattamente intransigente e alla fine controproducente del laicismo. Il Regno Unito, che ha una religione di Stato controllata dal potere politico, sotto la pressione dei gruppi musulmani e con l’intento di favorire l’integrazione e la coesione sociale, piuttosto che quello di incoraggiare le divisioni, nel 1998 ha finito per accordare finanziamenti statali a cinque scuole primarie musulmane.

La Francia stessa riconosce e finanzia alcune scuole private confessionali, cattoliche o ebraiche, collegate per contratto ai curricula della “educazione nazionale”. Preso atto di questa situazione, i musulmani tentano di usufruire di questa stessa possibilità, che per ora continua a essere loro negata, in attesa della nuova legge sulla “educazione nazionale” che Chirac dovrebbe promulgare. Peraltro le scuole cattoliche, in quanto private, non sono sottoposte al divieto di ammettere il velo islamico nelle scuole di Stato e, perciò, si sta aprendo la possibilità piuttosto singolare che i musulmani più moderati preferiscano far frequentare le scuole cattoliche alle proprie figlie.

Anche le scuole private ebraiche finanziate dallo Stato hanno registrato un aumento continuo a partire dal 1975, anno in cui 500.000 ebrei dell’Africa del nord si sono riversati in territorio metropolitano e, in anni più recenti, sono aumentate al ritmo del 3,5%, con un rallentamento al 2% nel 2002-2003. Ma la loro origine risale al 1820, anno in cui erano state riconosciute in antagonismo alle scuole cattoliche. La loro organizzazione, dispersa durante l’ultima guerra mondiale, è oggi fiorente e comprende tre categorie: un terzo di scuole “comunitarie”, che accolgono allievi di tutte le classi sociali; 26% di scuole degli “ortodossi” - così dette dagli insediamenti degli ebrei slavi in Francia a partire dal 1920, in seguito alla persecuzione politica - caratterizzate dall’insegnamento tecnologico e professionale; infine un gruppo costituito da varie scuole di carattere leggermente più liberale o cosmopolitico. Nel complesso la comunità scolastica ebraica in Francia non s’ispira a un orientamento élitario e la scuola di Stato rimane per essa un punto saldo di riferimento, con venature che ricordano gli esperimenti delle scuole attive tipiche degli anni 1930-1940 e con la specificità dello studio intensivo della lingua ebraica. La recente ondata d’antisemitismo apre nuove prospettive di sviluppo e d’orientamento e obbliga l’organizzazione a integrare i finanziamenti statali con sovvenzioni private.

Scuole cattoliche e scuole ebraiche costituiscono dunque il precedente giuridico al quale si richiamano i musulmani. Ma una scuola di Stato aperta all’informazione antropologica del fenomeno religioso - velo islamico a parte - potrebbe costituire anche per loro l’offerta preferenziale. Secondo un sondaggio IFOP pubblicato su Le Monde Diplomatique nel settembre 2001 solo il 36% dei musulmani si dichiara “credente e praticante”, il 42% si dichiara semplicemente “credente”, il 16% “di origine musulmana” e il 5% “senza religione”; e in totale il 79% ammette di non frequentare la moschea. Abderrahmane Dahmane, presidente del Consiglio dei democratici musulmani dichiara di «non volere islamizzare la modernità, ma di voler modernizzare l’islam». Tuttavia, esiste anche una minoranza di giovani musulmani che si ribella all’abbandono graduale della fede musulmana da parte dei loro genitori e che vuole ricuperare l’intransigenza della pratica religiosa fino a sposare la causa della guerra santa.

Aziz Sahiri, uno dei fondatori del movimento dei musulmani laici di Francia, in sede di elaborazione della nuova legge, propone di tentare in via sperimentale il finanziamento di alcune scuole musulmane, simili a quelle cattoliche ed ebraiche, e di fare un bilancio dopo cinque anni. La sola scuola musulmana privata che beneficia di finanziamenti dallo Stato francese non si trova in territorio metropolitano, ma nell’isola della Réunion. Intanto emergono soluzioni provvisorie ingegnose come quella del Collège Réussite d’Aubervilliers, che offre un’ora settimanale d’istruzione islamica, facoltativa e aperta agli studenti d’altre confessioni e agli atei, ma per ora frequentata solo da musulmani. Invece l’Alsazia-Mosella fin dal 1801 è sottoposta a regime di concordato. I ministri di quattro culti (cattolico, luterano, calvinista, ebraico) sono finanziati dallo Stato francese per un insegnamento obbligatorio in una delle quattro religioni. Il Rapporto Stasi, proponendo il mantenimento di questa situazione giuridica, suggerisce di aggiungere l’insegnamento islamico e di far diventare opzionale l’insegnamento religioso.

In Germania l’insegnamento religioso cattolico o protestante è garantito per legge, ma per ora non è prevista l’introduzione d’un insegnamento islamico; tuttavia i Länder possono legiferare autonomamente in merito al velo islamico. In Belgio, ogni istituto è libero di fissare le proprie regole, e il governo federale finanzia un corso settimanale di morale, a scelta laico o religioso; e nell’ambito della morale laica è riconosciuto anche l’insegnamento dell’ateismo e dell’agnosticismo.

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Paradossalmente gli studenti musulmani hanno trovato fino a poco tempo fa il loro “paradiso educativo” negli Stati Uniti. La maggior parte delle università americane, infatti, offre spazi garantiti perché i musulmani possano vivere la loro diversità culturale: sale di preghiera, cucine per la preparazione di pasti adeguati alle norme coraniche, quartieri musulmani non misti, dove l’alcool e le relazioni sessuali prematrimoniali sono strettamente proibiti. La laicità “alla francese” oltremanica è poco compresa, perché gli americani si vantano d’essere “meno allergici” al fenomeno religioso degli europei. Per loro le religioni hanno il loro mercato che prospera finché ci sono consumatori. Ma tutta questa disinvoltura è entrata bruscamente in crisi dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Anche il vago deismo che pervade la laicità “all’americana” ha ritrovato la sua intransigenza, la sua intolleranza e la sua bigotteria. Dichiararsi atei e agnostici negli USA è diventato un comportamento sospetto. Il dio biblico è sempre più incompatibile con quello coranico; e il non appellarsi alla propria divinità suprema e quindi superiore a quella del “nemico” è considerato un comportamento irresponsabile e antipatriottico. Oriana Fallaci, vivendo negli USA, è diventata la paladina fanatica di questo atteggiamento.

Per contro la laicità “alla francese” sembra ideologicamente meno liberale se si pensa che esiste un’associazione centenaria, la Mission laïque française, che ha per scopo l’esportazione della laicità, e che gestisce un centinaio di sedi francesi nel mondo. Ma proprio di questi tempi i responsabili dei due licei francesi di Tripoli e di Casablanca - che fan parte di questa associazione - segnalano gli accomodamenti che debbono inventarsi per dar spazio alle differenze culturali musulmane. Dunque, dobbiamo abituarci a pensare anche la laicità per gradi e differenze. Certo, la sua forma più coerente è l’ateismo e il naturalismo che lo sostiene. Per ora questa è politicamente una posizione marginale e minoritaria; e se dovesse confrontarsi con le guerre di religioni in corso sarebbe spazzata via come foglia al vento. Ma non è detto che qualche argine e qualche cittadella non possa essere eretta. Per metterci mano occorre almeno tentare di eliminare alcuni equivoci con cui i laici delle professioni liberali e i letterati incantati dall’ermeneutica si vantano della propria indipendenza individualistica di pensiero. Per la laicità, oggi, sono loro i cattivi maestri.

Di fronte a questo repertorio una considerazione è doverosa: quando i cattolici di casa nostra - contro il dettato costituzionale - pretendono finanziamenti dello Stato a favore delle scuole cattoliche, appellandosi con supponenza ai riconoscimenti che queste hanno ottenuto in molti altri Stati europei, essi sono in malafede. Infatti, dietro i riconoscimenti delle altre nazioni europee c’è pur sempre da parte dello Stato una difesa sostanziosa della propria laicità; in Italia, invece, i finanziamenti statali o regionali alle scuole cattoliche sono concessioni compiacenti e opportunistiche all’invadenza sempre più arrogante del Vaticano nella politica educativa dello Stato italiano.

Purtroppo fin dal dopoguerra i partiti cattolici hanno sempre mantenuto un fermo controllo sul Ministero della Pubblica Istruzione e ora, in condizioni particolarmente favorevoli, contribuiscono da protagonisti a demolire quel tanto di laicità che rimaneva nella scuola di Stato. L’inserimento in ruolo, a spese dello Stato, di migliaia di insegnanti di religione e il diritto concesso loro di poter passare automaticamente a insegnamenti di altre materie - secondo la laurea di cui sono titolari - se la loro cattedra di religione rimane vacante è l’ultimo episodio vergognoso di questa politica. A tutto questo si aggiungono in Italia le ingegnose manovre cattoliche per attuare un massiccio controllo sui finanziamenti agli istituti statali della ricerca scientifica.

Note

  1. Régis Debray, autore di un rapporto commissionato recentemente dal governo francese, usa il termine incompétence nel senso appunto di ciò che non compete allo Stato. Con un’accentuazione leggermente polemica dovuta alla connotazione del termine italiano, abbiamo tradotto quello francese con “indifferenza”. Lo Stato francese garantisce a tutti i cittadini libertà di pensiero e diritto di esercitarla entro un quadro di obblighi e divieti comuni. È evidente che questa definizione della laicità presuppone una notevole omogeneità antropologica della cultura soggiacente: quella appunto della secolarizzazione e demitizzazione della tradizione cristiana che si è diffusa in Europa negli ultimi tre secoli attraverso il progresso scientifico e tecnologico.