Il “rapporto sulla laicità” della commissione francese Stasi1

di Sergio Romano2

Se dessimo retta ai resoconti apparsi nella stampa internazionale, la preoccupazione ossessiva del rapporto Laicità e Repubblica, preparato da una speciale Commissione francese, sarebbe il velo islamico, vale a dire il foulard con cui molte ragazze musulmane nascondono agli occhi del mondo, quando frequentano un luogo pubblico, i capelli, le orecchie e il collo. E rischieremmo di lasciar passare accanto a noi, senza accorgercene, uno dei più interessanti documenti apparsi in Europa, in questi ultimi anni, sullo Stato moderno.

Il rapporto è francese per due ragioni. In primo luogo la Francia è un Paese conscio di sé, orgoglioso della sua storia, incline alle speculazioni intellettuali sul proprio futuro, continuamente alla ricerca della propria perfezione. Non avrebbe scritto, dal 1791 al 1958, quindici Costituzioni (senza contare i progetti, le revisioni e gli emendamenti) se non credesse che la toilette costituzionale è un obbligo quotidiano del galantuomo illuminista. In secondo luogo la Francia è il paese più multiconfessionale d’Europa. È cattolico, ma ha una forte tradizione ugonotta e conta seicentomila ebrei, cinque milioni di musulmani e una folla di adepti alle più trendy confessioni religiose dell’Europa postmoderna, dal buddismo al “New Age”.

Nessun altro grande Stato europeo, forse neppure la Gran Bretagna, ha una società altrettanto varia e deve affrontare problemi di tali dimensioni. Suggerisco al lettore di tralasciare per il momento le pagine sul velo islamico e di leggere anzitutto quelle sulle periferie e le scuole. Scoprirà che esistono ormai in Francia, per ammissione degli autori del rapporto, i ghetti. Nei settecento quartieri che accolgono numerose nazionalità e in cui la disoccupazione supera il 40%, le nomenklature politiche e religiose sfruttano il malessere sociale per imporre le regole di una doppia apartheid: fra le diverse comunità etnico-confessionali e fra i sessi.

Gli stadi e le palestre erano una volta luogo d’incontro. Oggi le squadre di comunità non partecipano più ai tornei delle federazioni e le gare si fanno all’interno del gruppo. Escluse dagli stadi e dalle piscine, le donne, d’altro canto, debbono rinunciare a qualsiasi attività sportiva e vivono, coperte dal velo, in un invisibile matroneo, spesso soggette a forme di violenza fisica o morale: mutilazioni sessuali, poligamia, ripudio. I matrimoni avvengono tra cugini o dopo un breve ritorno in patria alla ricerca di un fidanzato. Il gruppo tende soprattutto a perpetuare se stesso e controlla le donne per evitare le unioni miste.

Di queste tendenze isolazioniste e radicali delle comunità islamiche hanno fatto le spese, negli ultimi anni, soprattutto gli ebrei. In alcune scuole il ragazzo ebreo subisce insulti e angherie. Dall’audizione di 220 liceali la Commissione ha appreso che «indossare la kippà all’uscita della scuola, nelle strade o sui trasporti pubblici, può essere pericoloso». Molte famiglie hanno ritirato i loro figli e li hanno iscritti in istituti confessionali, ebrei o cattolici. Questa condizione di continua conflittualità ha generato una spirale perversa. Anche i musulmani sono vittime di angherie e violenze fisiche, anche le tombe musulmane vengono profanate.

Può uno Stato democratico assistere impassibile a tali fenomeni? Può tollerare che le scuole diventino luoghi insicuri, che le comunità vivano esistenze separate, che alle donne venga imposto un matrimonio o proibita un’attività sportiva? Con orgoglio francese la Commissione Stasi ha rivendicato allo Stato il diritto-dovere di intervenire per proteggere i cittadini, tutelare gli stranieri, fissare le regole della loro convivenza e, in particolare, garantire la sicurezza della scuola pubblica. Per conferire maggiore autorità alle sue proposte lo ha fatto in nome di un principio, la laicità, che sarebbe secondo gli autori “un elemento costitutivo” della storia collettiva della Repubblica francese sin dalla Rivoluzione del 1789.

Non è del tutto esatto. L’ideologia laica cui gli autori fanno riferimento è una creazione tardiva e fu il risultato di uno scandalo, il “caso Dreyfus”, che viene generalmente catalogato dagli storici, a torto, soltanto nella storia dell’antisemitismo. La vicenda ebbe altri risvolti, non meno importanti. Contro il capitano alsaziano, ingiustamente accusato di spionaggio, si formò con il tempo un largo partito “patriottico” composto da cattolici, conservatori, legittimisti: in breve, tutte le forze che nel corso dell’Ottocento avevano combattuto, talvolta con successo, una grande battaglia restauratrice contro gli eccessi giacobini della Grande Rivoluzione e, più tardi, contro la Repubblica parlamentare. Erano i discendenti di coloro che avevano richiamato i Borbone nel 1815, accolto Luigi Filippo nel 1830 come un pis-aller, approvato la spedizione del principe-presidente contro la Repubblica romana nel 1849, applaudito le raffiche dei chassepot contro Garibaldi a Mentana nel 1867, sostenuto il partito cattolico dell’imperatrice Eugenia fino al 1870, sperato che il conte di Chambord salisse sul trono nel 1873 e appoggiato il generale Boulanger nel 1887.

La colpevolezza o l’innocenza di Dreyfus ebbero, tutto sommato, una scarsa importanza. Quando fu chiaro che Dreyfus era soltanto la pedina di un gioco molto più importante di lui, divennero dreyfusard, vale a dire paladini della sua innocenza, tutti i “repubblicani”, fra cui uomini politici e partiti (i socialisti, ad esempio) che avevano creduto all’inizio nella colpa del capitano e non avevano, per molti aspetti, meno pregiudizi antiebraici dei loro avversari. La sua assoluzione, quindi, non fu soltanto la sconfitta di quella parte dello stato maggiore che non voleva ammettere le proprie responsabilità.

Fu la vittoria della Francia democratica e repubblicana contro la Francia cattolica e conservatrice. Fu così che nell’ultima fase del caso Dreyfus, quando il capitano era stato “perdonato”, ma non ancora assolto, cominciò a prendere nuova forma il vecchio disegno politico per la separazione dello Stato dalla Chiesa.

La battaglia durò quattro anni, dalla costituzione del “Blocco repubblicano” nel 1900 alla clamorosa visita del presidente Loubet a Vittorio Emanuele III nel 1904, che il Vaticano considerò un affronto ai diritti della Chiesa sulla Città eterna. Nel novembre di quell’anno il Presidente del Consiglio francese, Emile Combes, presentò al Parlamento un disegno di legge per la separazione fra Stato e Chiesa, che fu approvato e promulgato nel dicembre dell’anno successivo. Le chiese furono tolte alle diocesi e conferite ad associazioni private composte da fedeli.

Ricordo ancora quando, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sulla facciata della chiesa di Saint Thomas d’Aquin, tra il boulevard Saint Germain e la rue du Bac, campeggiava a grandi caratteri la scritta: Liberté, Egalité, Fraternité. Dovettero passare sedici anni prima che la Francia e la Santa Sede riprendessero le relazioni diplomatiche. E dovettero passarne altri due prima che un accordo permettesse la costituzione di associazioni diocesane per la gestione delle chiese.

Non basta. Con Pétain la Francia fa un passo indietro. Gli uomini che vanno al potere dopo la sconfitta del 1940 hanno perduto la guerra contro la Germania, ma vinto la loro vecchia guerra civile contro il “partito repubblicano” e ne approfittano per sostituire il vecchio motto della Repubblica (Liberté, Egalité, Fraternité) con un nuovo logo: Dieu, Patrie, Famille.

Il laicismo francese, quindi, è meno antico e radicato di quanto non dica il Rapporto. Ma i suoi autori si sono attenuti a una vecchia regola secondo cui ogni disegno politico è tanto più convincente e legittimo quanto più viene presentato alla pubblica opinione come la logica continuazione di scelte ormai accettate e collaudate. Dimentichiamo questo comprensibile artificio retorico e cerchiamo piuttosto di capire come la Francia si prepari a vivere in una Europa multietnica e multiconfessionale.

I grandi principî della laicità, sostiene il Rapporto, sono la neutralità dello Stato e la libertà di coscienza. Ma la neutralità, in questo caso, non può essere un alibi per evitare coinvolgimenti sgradevoli o politicamente pericolosi. Lo Stato neutrale deve difendere la libertà di coscienza e impedire che un credo religioso s’imponga sugli altri con metodi aggressivi o tenga in soggezione i propri fedeli. Deve tutelare l’eguaglianza dei cittadini e le parità fra i sessi. Lo deve fare soprattutto nei luoghi di cui è maggiormente responsabile e che sono per molti aspetti il suo naturale prolungamento: la scuola pubblica sino alle soglie dell’università e la pubblica amministrazione.

Per ottenere questo scopo la Francia, se adotterà le raccomandazioni del Rapporto, cercherà di evitare che i vincoli comunitari, all’interno di ogni gruppo nazionale o religioso, divengano costrittivi e tirannici. Lo farà, tra l’altro, rinunciando ad applicare gli accordi sul “diritto alla differenza” stipulati negli anni Settanta con alcuni paesi (Algeria, Spagna, Italia, Marocco, Portogallo, Serbia, Iugoslavia, Turchia) «per garantire un insegnamento delle lingue e delle culture d’origine ai figli delle popolazioni immigrate». Tali accordi, come quelli stipulati allora da altri Paesi, furono l’applicazione di una ideologia, il “multiculturalismo”, che riconosce alle comunità straniere il diritto di mantenere intatta, nel paese d’immigrazione, la loro identità.

Il sistema, secondo gli autori del rapporto, «va generalmente contro l’integrazione dei giovani immigrati, la promozione della lingua francese e la valorizzazione dell’insegnamento dell’arabo, del turco e di altre lingue». Credo che abbiano ragione e aggiungo che il sistema ha prodotto un altro risultato negativo: quello di creare all’interno dello Stato moderno alcune feudalità religiose e culturali, dirette da nomenklature di “professionisti” dell’immigrazione cui viene riconosciuto il diritto di governare il loro gregge e privarlo, come accade nel caso delle ragazze musulmane, di alcuni dei suoi diritti di cittadinanza.

Questo non significa, secondo la Commissione, che lo Stato francese debba trascurare l’insegnamento delle lingue straniere. Ma non deve limitarne l’insegnamento ai singoli gruppi nazionali perpetuando in tal modo la loro separatezza e il loro isolamento. La proibizione dei simboli religiosi aggressivi (il velo islamico, la kippà, le grandi croci) è una delle proposte avanzate dalla Commissione e diventa in questo contesto perfettamente comprensibile.

Ma nel Rapporto vi sono altre proposte. Gli autori riconoscono che la libertà religiosa impone allo Stato e alle comunità locali una forte capacità di adattamento. Occorre facilitare la costruzione dei luoghi di culto, permettere l’osservanza delle feste religiose, tener conto delle esigenze dietetiche dei fedeli, consentire che la sepoltura dei morti avvenga secondo i riti della loro fede, garantire l’assistenza religiosa nelle forze armate e nelle carceri (il lettore scoprirà che non esistono ancora, in Francia, cappellani musulmani e che spesso la cura spirituale dei soldati musulmani è assicurata paradossalmente dai rabbini).

Ma vi sono circostanze in cui lo Stato deve imporre regole che gli consentano di fornire i suoi servizi. Non è possibile consentire che gli ospedali si conformino ai pregiudizî religiosi dei loro pazienti o tollerare che le giovani donne rifiutino di portare assistenza agli uomini nei corsi di pronto soccorso organizzati in occasione delle giornate dedicate alla difesa nazionale.

Non vi è Paese europeo che non abbia fatto esperienza di casi simili e che non abbia cercato di risolverli pragmaticamente con una certa flessibilità. Anche la Francia “cristiana” li ha affrontati con prudenza e buon senso. Ma ritiene di poterlo fare meglio nell’ambito di una concezione della laicità che fornisca ai suoi prefetti, sindaci, magistrati, imprenditori e insegnanti una serie di principî cui fare riferimento. So che in questo metodo vi è l’amore francese per il “metodo” e una forte dose di volontarismo intellettuale. Ma confesso che non mi sembra una cattiva idea.

Potrebbe l’Italia seguire l’esempio francese? Temo di no. L’Italia è un paese concordatario, quindi uno Stato che riconosce alla Chiesa il diritto di “amministrare” i propri fedeli e le ha ceduto una parte delle sue prerogative. È difficile impedire il velo islamico con argomenti imparziali là dove le scuole, i tribunali, le caserme dei carabinieri e molti uffici pubblici esibiscono il crocifisso come un simbolo di identità nazionale. Il signor Adel Smith, paladino di una campagna contro il crocifisso in una scuola abruzzese, non aveva tutti i torti. Se avesse fatto una battaglia meno chiassosa e sgangherata, avrebbe trovato forse maggiori consensi.

Accanto al regime concordatario esistono altre ragioni per cui l’Italia non è laica. Non abbiamo più da molti anni lo Statuto albertino, ma l’art. 1 («La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato») è ancora scolpito nel nostro carattere nazionale. Anche quando non è materia di fede religiosa il cattolicesimo fornisce un marchio di validità e legittimità a tutti i riti di cui l’italiano ha bisogno per la sua vita. Molti hanno rinunciato al matrimonio e a tutti i comandamenti che sono d’impaccio al loro edonismo quotidiano. Ma vorrebbero avere sempre un prete accanto a loro quando scioperano, occupano una ferrovia, protestano contro l’inquinamento o manifestano per la pace. Ne ho avuto una ennesima prova quando ho letto nel Corriere della Sera del 24 febbraio del 2004 che il segretario di una sezione dei DS in un paese degli Abruzzi pretendeva che il parroco benedicesse la nuova sede del partito. Il parroco ha rifiutato. Dei due, il più laico era certamente lui.

Note

  1. La Commissione Stasi, composta da venti personalità del mondo universitario, culturale, sociale e religioso francese e così chiamata dal nome del suo presidente, ha elaborato il Rapporto sulla laicità, su richiesta del presidente francese Jaques Chirac, nel 2003. Il testo integrale del Rapporto è pubblicato in Italia da Libri Scheiwiller (Milano 2004, pp. 124, ISBN 88-7644-411-4, www.librischeiwiller.it) con la prefazione di Sergio Romano qui riprodotta, una postfazione di Enzo Bianchi e, in appendice, le risposte di alcune comunità religiose (gran rabbino di Francia, Consiglio delle Chiese cristiane di Francia, Consiglio francese del culto musulmano).
  2. Sergio Romano è nato a Vicenza nel 1929. Si è laureato in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano, ha svolto la professione di giornalista a Londra, Milano, Vienna e Parigi iniziando la carriera diplomatica nel 1954. Direttore generale degli Affari Culturali del Ministero degli Esteri (anni 1977-1983) e rappresentante alla NATO (anni 1983-1985) e ambasciatore a Mosca (anni 1985-1989). È editorialista del Corriere della Sera e di Panorama, collabora con Limes, il Corriere del Ticino e Le Matin di Losanna (Svizzera). I suoi ultimi libri sono Il rischio americano (Longanesi 2003) e I confini della storia (Rizzoli 2003). Come storico si è occupato prevalentemente di storia italiana e francese tra Otto e Novecento. È stato docente nelle università di Berkeley (California, USA), Pavia, Harvard (Massachusetts, USA), Firenze e Sassari. Dall’anno 1992 al 1998 è stato professore di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università Bocconi di Milano. Nominato dottore honoris causa dall’Institut d’Études Politiques di Parigi (Francia), dall’Università degli Studi di Macerata e dall’Istituto di Storia Universale dell’Accademia delle Scienze della Russia.