Perché chiedere di togliere i crocifissi dagli edifici pubblici?

di Massimo Albertin, Padova

Questa è la domanda a cui più spesso bisogna rispondere ai sostenitori dell’esposizione di quello che viene definito un simbolo culturale, un segno della tradizione italiana, un emblema di amore, un vessillo di pace. Seguita dall’inevitabile: «Ma a voi che fastidio dà?». Prescindendo per un momento dalle motivazioni giuridiche su cui tornerò più avanti, io che con mia moglie mi sono battuto per l’eliminazione dei crocifissi dalle aule scolastiche frequentate dai nostri figli, e che per questo ho fatto ricorso al TAR del Veneto, desidero rispondere anzitutto a queste due domande.

La prima domanda parte da un presupposto errato e cioè che, poiché la maggioranza delle persone legge nel crocifisso un simbolo esclusivamente positivo e universale, ritiene inammissibile che qualcuno possa darne un’interpretazione diversa. Perché il presupposto è errato? Principalmente se ne deve contestare l’universalità. Quella cristiana è la religione più diffusa nel mondo, ma evidentemente non è l’unica; anche prescindendo dai recenti flussi immigratori (per difendersi dai quali si sta utilizzando anche questo “scudo crociato”), nella stessa cattolicissima Italia coloro che non professano alcuna religione, secondo statistiche di provenienza cattolica, rappresentano il 13-15% circa della popolazione: oltre otto milioni di persone. Forse che i cattolici italiani ritengono che il concetto di democrazia significhi sottomissione delle minoranze? Perché di questo si tratta, quando si pretende di imporre come universale il supposto valore del simbolo che è solo di una parte. È un po’ come se in un edificio pubblico venisse imposta l’esposizione del gagliardetto della squadra di calcio della Juventus. Si tratta indubbiamente della squadra italiana che può vantare il maggior numero di tifosi, ma ciò giustificherebbe l’estensione a “valore universale” di tale emblema? A qualcuno magari potrebbe far ricordare la tragedia dello stadio belga in cui morirono decine di persone e tale ricordo potrebbe risultare molto sgradevole.

Qui veniamo allora all’altro punto dopo l’universalità, cioè alla positività del messaggio implicito nel simbolo. Siamo così sicuri che ci si possa leggere esclusivamente amore, pace, fratellanza, bontà o cultura e tradizioni nazionali? A parte la storia, ben nota, delle crociate che per secoli hanno seminato morte e distruzione; a parte il colonialismo culturale conseguente all’azione missionaria perseguita anch’essa a lungo e tuttora attiva con tutte le negative conseguenze apportate; a parte il nefasto periodo dell’Inquisizione che ha prodotto danni enormi allo sviluppo culturale e sociale della civiltà occidentale la quale, se è giunta agli attuali livelli di benessere e di convivenza civile, lo ha fatto malgrado le resistenze del Vaticano e non certamente grazie a supposte radici cristiane dell’Europa; a parte tutto ciò, se vogliamo restare su temi più attuali, possiamo chiederci se davanti a un crocifisso a qualcuno non potrebbero venire in mente i milioni di morti per AIDS, conseguenza (soprattutto in Africa) della politica oscurantista e menzognera del Vaticano contro il preservativo. O forse qualcuno potrebbe ricordare le terribili conseguenze che la copertura vaticana verso la pedofilia di alcuni suoi sacerdoti ha portato. Altri, guardando un crocifisso, vi potrebbero leggere la lotta strenua che la chiesa cattolica ha fatto in passato e fa tuttora contro la ricerca scientifica, riuscendo a far approvare, con opera di lobbismo politico, leggi che impediscono la libertà di ricerca producendo di conseguenza ritardi nello sviluppo delle conoscenze mediche e sofferenze per i malati di malattie gravissime. E potrei continuare.

Ecco allora che abbiamo cominciato a rispondere anche alla seconda domanda: «Che fastidio dà?». In parte ho già risposto, ma vorrei ampliare introducendo anche altre motivazioni. Qualcuno forse ricorderà i primi tempi delle lotte di alcune minoranze contro le discriminazioni. Nel recente passato alcune minoranze (etniche, sessuali, religiose) in varî Paesi occidentali, ma soprattutto dove più forte è la laicità dello Stato, sono riuscite a ricavarsi spazi di libertà dall’oppressione e dalla discriminazione e hanno visto nascere nel tempo svariati gruppi di difesa per i loro diritti civili. Sicuramente in passato la gente di colore o gli omosessuali hanno dovuto subire discriminazioni e prevaricazioni, ma nel tempo queste minoranze, con lotte civili, hanno saputo recuperare spazio e ridurre sempre più, se non annullare, le differenze che le separavano dalla popolazione cosiddetta normale. Come reagirebbero oggi le comunità di omosessuali o di colore se negli edifici pubblici venissero esposti (addirittura obbligatoriamente) simboli che sottolineano la “superiorità” o comunque la diversità di diritti degli eterosessuali o dei bianchi? E non è analoga la discriminazione che avviene nei confronti della minoranza degli appartenenti ad altre religioni o dei non religiosi da parte di coloro che impongono l’esposizione dei crocifissi negli edificî pubblici? Non può essere letta come odiosa prevaricazione da parte di una maggioranza (relativa) verso un altro gruppo di cittadini che si ritrovano così in una posizione di inferiorità?

Tutto ciò che ho finora esposto era riferito in generale alla problematica dei crocifissi negli edifici pubblici, ma il problema si arricchisce ulteriormente se ci riferiamo agli edifici scolastici. Infatti, si può supporre che un adulto abbia una coscienza formata e che possa riuscire a convivere, in qualche modo, con tutte le situazioni di discriminazione che ho descritto finora. Ma le scuole sono frequentate da bambini e ragazzi, la cui coscienza non solo non è ancora formata, ma è proprio nella scuola che si va a formare. E allora, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche non rischia di suggerire al minore che le altre religioni (o concezioni del mondo) sono errate o semplicemente da tollerare se non addirittura da combattere, che comunque quelli che le seguono sono diversi da lui e che questa differenza si sovrappone alla comune cittadinanza? È questo il messaggio educativo che vogliamo venga trasmesso dalla scuola? È così che vogliamo preparare l’ambiente sociale, la società civile del futuro alla forte immigrazione che si sta attuando? Io credo che di fronte alla “prepotenza” culturale e religiosa dimostrata da alcune frange estremiste d’immigrati che pretendono l’applicazione di tradizioni aberranti (come ad esempio l’infibulazione femminile), non si possano contrapporre altre tradizioni solo apparentemente meno aberranti; credo che l’unico valore che la società civile possa applicare sia quello della libertà religiosa rispettosa delle leggi di uno Stato laico.

E facciamo così l’ultimo passo e affrontiamo l’argomento anche da un punto di vista giuridico. Le scomposte reazioni politiche e sociali all’ordinanza del giudice sulla richiesta di Adel Smith a Ofena hanno dimostrato ancora una volta l’immaturità civile e l’ignoranza delle nostre leggi da parte di giornalisti, deputati, ministri con cadute di stile - e perciò di prestigio - perfino del Presidente della Repubblica. Tutti si appellano ai regî decreti del 1924 e 1928 che imponevano l’esposizione dei crocifissi come arredo delle aule scolastiche, ma dimenticando alcuni punti essenziali, per illustrare i quali mi farò aiutare dalla citazione di sentenze già emesse e dalla memoria conclusiva preparata per il ricorso al TAR veneto di mia moglie da parte dell’avvocato Ficarra:

    Quelle del 1924 e 1928 sono norme di carattere regolamentare che si connettono all’art. 140 del r.d. 15/9/1860, 4336 contenente il regolamento per l’istruzione elementare della legge 13/11/1859, n. 3725 (così detta legge Casati) che prescriveva appunto il crocifisso tra gli arredi delle aule scolastiche. Esse quindi, non diversamente da quella legge trovano riferimento nel principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, contenuto nell’art. 1 dello Statuto albertino: principio che proprio il punto 1 del protocollo addizionale degli accordi di revisione del Concordato del 1984 considera espressamente - se pur ve ne fosse stato bisogno dopo l’entrata in vigore della Costituzione - non più in vigore, con conseguenti ricadute implicite sulla normativa secondaria derivata (sentenza della Corte di Cassazione n. 439 del 1/3/2000).

    D’altra parte, per tornare al parere del Consiglio di Stato del 1988 (che rispondeva a un quesito del Ministero della Pubblica Istruzione ribadendo la validità delle famose circolari) così puntualmente criticato dalla Corte di Cassazione, l’appartenenza della croce al patrimonio culturale del Paese non esclude che essa abbia un forte valore simbolico e che la sua esposizione, per legge, nelle scuole contrasti col principio di laicità dello Stato; laicità intesa come garanzia del pluralismo confessionale e culturale. Un principio più volte energicamente riaffermato dalla Corte costituzionale (sent. 12 aprile 1989 n. 203, sent. 19 dicembre 1991 n. 467), che ha dichiarato essere la laicità principio “supremo” dell’ordinamento costituzionale, uno dei profili della forma di Stato delineata nella carta costituzionale della Repubblica (sent. 12 aprile 1989 n. 203), una supernorma (sent. 8 ottobre 1996 n. 334) che su ogni altra ha «priorità assoluta e carattere fondante» (sent. 5 maggio 1995 n. 149). Nel suo parere del 1988 il Consiglio di Stato non ha tenuto conto del fondamentale principio di laicità dello Stato probabilmente perché esso, intravisto dalla Corte costituzionale sin dal 1979 (sent. 10 ottobre 1979 n. 117) si è consolidato nella sua giurisprudenza soltanto dal 1989 in poi.

    All’approfondimento del principio così autorevolmente e solennemente affermato è poi di sicura utilità l’esperienza di altri Paesi europei, nei quali il problema dell’esposizione dei simboli religiosi nelle scuole è stato considerato dalla giurisprudenza ai più alti livelli. Anzitutto dal Tribunale federale svizzero, che con una sentenza del 26 settembre 1990 ha rigettato il ricorso di un comune del cantone Ticino contro una sentenza del giudice amministrativo, che aveva annullato l’ordine del comune di esporre il crocefisso nella scuola comunale. Il supremo tribunale di un paese che porta la croce nella propria bandiera (lo sottolinea J. Luther riferendone con indicazione della fonte in Democrazia, diritti, costituzione, a cura di G. Gozzi, Il Mulino, 1995, p. 106) ha dichiarato che la libertà di coscienza impone una neutralità dello Stato intesa non come indifferenza, ma come rispetto della libertà dei cittadini in una società pluralista, e che il crocefisso all’interno dell’aula di una scuola pubblica potrebbe significare una identificazione dello Stato con la religione della maggioranza, il che implicherebbe un giudizio di disvalore nei confronti delle altre religioni e delle convinzioni areligiose. Richiamandosi ad analoghi principî il Bundesverfassungsgericht, con un’elaborata sentenza del 16 maggio 1995 (ivi, p. 101 ss.), ha dichiarato incostituzionale, per violazione della libertà di coscienza e di religione, l’esposizione obbligatoria di crocifissi nelle aule scolastiche delle scuole pubbliche elementari, prescritta da un regolamento del Land della Baviera. Nella sentenza si dichiara che se lo Stato non si dimostra neutrale in tema di fede, se tende a identificarsi con comunità religiose specifiche (come accade quando colloca il simbolo della fede cristiana nelle scuole statali) mette in pericolo la pace religiosa nella società, e che il conflitto tra libertà religiosa positiva e negativa non può essere risolto in base al principio di maggioranza perché il fondamentale diritto alla libertà religiosa tende essenzialmente a tutelare le minoranze.

Ecco allora sviluppati, certo in maniera incompleta, i motivi che hanno indotto me e la mia famiglia ad agire chiedendo che venissero tolti i crocifissi dalle scuole dei miei figli. La nostra è una battaglia di civiltà tesa ad applicare un principio fondamentale della nostra Costituzione quando, all’articolo 3, recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali».