UAAR: L’identità di un’unione o l’unione di due identità?

di Carlo Tamagnone

Ho già avuto qualche occasione di intervenire sul tema dell’identità atea (argomento che mi sta piuttosto a cuore), ma in questo numero monografico mi corre l’obbligo di lasciare da parte la mia collocazione filosofica e di fare per l’occasione la parte neutra di chi esamina un problema (ammesso che ci sia) che potrebbe riguardare l’UAAR, sia dal punto di vista degli agnostici sia da quello degli atei. Il tema interrogante del titolo sottintende però una seconda domanda che potrebbe suonare così: ma è possibile determinare l’identità di un movimento senza conoscere adeguatamente la storia del pensiero che concettualmente lo fonda e senza averne prima definiti i termini e i contorni culturali? Per identità di un sodalizio sembrerebbe, infatti, che si debba intendere ciò che lo caratterizza nei suoi fondamenti ideali e filosofici; però nel nostro caso tali fondamenti partono da due punti di vista diversi, pragmaticamente in gran parte convergenti, ma per nulla identici teoreticamente. E poi: sappiamo noi (atei e agnostici), veramente, quali siano i fondamenti filosofici dell’ateismo e dell’agnosticismo ai quali ci richiamiamo, nonché l’autentica identità storica che abbiamo alle spalle? Alla domanda si potrebbe rispondere con una bella alzata di spalle, soggiungendo che noi sappiamo benissimo ciò che “unitamente” dobbiamo fare: combattere la preminenza e la prepotenza dell’istituzione religiosa in questo paese. Per fare questo i fini sono chiarissimi e ben definiti; non ci serve altro! D’altra parte l’UAAR è nata per questo, i suoi fondatori avevano in mente questi obiettivi pratici quando essa è stata costituita e tanto basti.

Voglio preliminarmente dichiarare che riconosco ai fondatori della nostra associazione (che assume in sé due punti di vista e ne produce una sintesi reale ed efficiente) lo straordinario merito di aver raccolto, sin dall’ormai relativamente lontano 1987, due atteggiamenti filosofico-pragmatici tra loro compatibili e associabili (ma non unificabili) che costituiscono le due anime di un movimento dai fini pratici indiscutibilmente unitari. Né questa mia riflessione sulle identità intende in nessun modo disconoscere la validità di questi fini, che sono insieme il nocciolo e il frutto del nostro sodalizio, ma semmai invitare a un ampliamento di prospettiva (peraltro adombrato anche nel punto B.7 delle nostre Tesi) con la proposta di riflettere sulla loro sufficienza o meno a caratterizzare un’unione la quale, oltre che movimento attivo e pragmatico, si vorrebbe porre anche come istituzione culturale caratterizzata da una base storica e da un’identità filosofica.

Lodevoli fini, ribadisco, che si propongono il ridimensionamento nel nostro paese di un’arrogante sovrapposizione dell’istituzione religiosa (che ne compromette fortemente un laicismo da troppo tempo puramente nominale); la quale istituzione porta nello stesso tempo gravi intromissioni, a vari livelli e contesti, nelle abitudini di vita dei cittadini e che, per finire, inferisce spesso un’intollerabile lesione della libertà di esprimersi e di godere di taluni beneficî civili per quegli italiani che non la riconoscono. Italiani che si pongono come una minoranza (ma quanto piccola?) all’interno di un contesto sociale dove una maggioranza cristiano-cattolica (ma quanto realmente grande?) domina lo scenario culturale, i mezzi d’informazione e la politica in generale.

Quel che è più grave in tale scenario frustrante è che comunque quella maggioranza, dubbia e in ogni caso piuttosto squinternata (dove soltanto il 30% osserva ormai il precetto festivo), accorpa intorno a sé, stando alle opzioni dell’Otto per Mille, larghe fasce di cittadini italiani non osservanti che ritengono opportuno continuare a foraggiare abbondantemente la Chiesa Cattolica e le attività da essa promosse. Ciò significa che, sul piano etico, un’ampia parte dei contribuenti italiani ritiene giusto e auspicabile che l’istituzione religiosa continui a fruire di tali laute prebende, in nome di una «autorità morale e spirituale» che non può essere messa in discussione. E non può (e forse anzi «non deve») essere messa in discussione perché costituisce un “valore” inalienabile e irrinunciabile della nostra cultura, anche qualora non riceva più dal punto di vista dottrinario e precettistico le adesioni del passato. Tale atteggiamento significa, all’atto pratico, il riconoscimento di un monopolio spirituale “reale”, anche su quelle coscienze laiche che apparentemente ne parrebbero liberate o almeno sganciate.

Già, ma in effetti, c’è qualche contro-istituzione che possa limitare tale monopolio? Ovvero, c’è qualche filosofia che possa fare concorrenza all’ideologia religiosa per quanto concerne il modo di concepire il mondo, l’esistenza, il senso della vita e della morte? La risposta è fin troppo facile: sembra proprio di no! Non si capisce se per timidezza, per pura insipienza o per patente incapacità, nessuno si mostri in grado di intaccare, con la forza delle idee e delle proposte, un dominio culturale-esistenziale che, se le cose continueranno così, potrebbe vedersi garantita la preminenza morale e la sopravvivenza fisica ancora per secoli.

Quanto sopra, secondo me, avviene perché molti anticristiani sono vivacissimi nel censurare (talvolta con la satira e l’irrisione) i principî e i dogmi, le sacre scritture, il passato e il presente del Cristianesimo, ma del tutto incapaci di proporre uno straccio di proposta alternativa sul piano esistenziale ed etico rispetto alla senescente (e per molti versi antistorica) ideologia trascendentalistica che ci domina da ormai 20 secoli. Se ciò si verifica non si potrà certo farne carico all’UAAR, che semmai ha avuto il grande merito di dare finalmente vita a una comunità ateo-agnostica in questo Paese e che ha fissato nel suo statuto alcuni ottimi principî ideali certamente condivisibili. Il problema che io pongo è se, proprio grazie a tale primogenitura, non sarebbe l’UAAR stessa la comunità più qualificata a prendere le redini di una ricerca sulle modalità con cui l’ateismo e l’agnosticismo potrebbero legittimamente diventare protagonisti della cultura del nostro tempo, proponendo delle concezioni del mondo “funzionali” e definite, alternative alle Weltanschauungen religiose.

Va anche aggiunto che sulle pagine di questa rivista compaiono ottimi articoli, rivelativi di intelligenze e culture individuali di prim’ordine e dalle quali ci si potrebbe aspettare molto di più in termini di contributo culturale. Purtroppo gli articoli, in quanto tali, sono dei tasselli isolati di pensiero, che soltanto da parte di una mentalità organizzatrice che li ordinasse e li connettesse potrebbero dar luogo a un mosaico concettuale significativo. Essi sono frammenti importanti, ma risultano volatili e dimenticabili in virtù del loro scollegamento; aggiungerei, purtroppo, quasi inutilizzabili ai fini della “fondazione” di una cultura caratterizzante l’associazione. In altre parole, essi, in quanto occasionali e rapsodici spezzoni di cultura, non s’inseriscono in un corso sistematico di “accumulo”, quale patrimonio comune di riferimento, utilizzabile per l’elaborazione di tesi filosofiche che possano portarci oltre la tradizionale cultura anti-teistica (piuttosto datata) in cui navighiamo.

Sorge allora, a mio parere, un’ulteriore domanda: ciò che si fa attualmente nell’UAAR può ritenersi sufficiente per intaccare “significamente” il già citato dominio culturale-esistenziale del Cristianesimo sulle coscienze della gente comune? Lascio la risposta a chi legge. Sono però anche consapevole che il problema potrebbe essere ritenuto inesistente o, almeno, irrilevante sul piano pratico, e che sarebbe possibile un’obiezione che riprenda e rafforzi quella che avevo già avanzato nel primo capoverso: ma che cosa c’entra un’alternativa filosofica con l’abbattimento dei privilegî (pecuniarî e culturali) di cui il Cristianesimo gode nel nostro Paese e che costituisce il più importante e urgente obbiettivo della più elementare laicità? Apparentemente nulla. Possiamo legittimamente sperare di arrivare un giorno a una situazione tipo quella di paesi del nord Europa o del Nord America, nei quali la religione esiste come libera opzione individuale, priva d’ogni aspetto istituzionale e sganciata (o quasi) da ogni commistione col potere politico; dove una chiesa deve la propria prosperità (o la sua sopravvivenza) alle offerte volontarie dei fedeli che vi si riconoscono.

Già, ma in un Paese dove la religione permea il background culturale del cittadino fin dalla sua nascita, dove l’istruzione religiosa entra nei piani scolastici sino alle soglie dell’Università, dove la religione è presente in ogni ganglio della cultura e dell’informazione, dove i ministri del culto possono utilizzare centri d’incontro e di acculturazione largamente diffusi sul territorio, dove nulla (per finire) sembra esserle alternativo in termini ideali ed etici, è ragionevole aspettarsi il conseguimento di tale obbiettivo in tempi non troppo lunghi e se non per autonomo “esaurimento” dell’ideologia religiosa stessa? Se questa è la conclusione (e la situazione reale a me pare c’induca ad ammetterlo) ciò significa che noi siamo quasi impotenti di fronte alla cultura cattolica poiché siamo incapaci di proporre qualcosa che possa indurre un nostro simile a riflettere sul “senso della vita” senza dover sempre fare riferimento alle vecchie vie maestre che la religione offre e propone.

Tutto sommato è soltanto una questione di strategia; se i risultati dell’UAAR in questi 16 anni di vita sono ritenuti soddisfacenti non sembrerebbe esservi nessun buon motivo per sovraccaricarla di obiettivi che potrebbero essere ritenuti un po’ astratti rispetto alle finalità più urgenti e importanti. La filosofia non è sicuramente indispensabile per raggiungere i risultati eminentemente “pratici” che l’associazione persegue. Tra una teoria fatta di concetti filosofici e d’ideali etici, faticosa, difficilmente percorribile e non priva di incertezze (anche relativamente a qualche rischio di “ideologizzazione”), forse potrebbe essere più sicuro e opportuno limitarsi a una prassi anti-cristiana, chiara, da tutti condivisa e percorribile senza perdersi in troppe riflessioni filosofiche. La domanda che però io pongo è la seguente: di fronte a un potere religioso che è ideologico e politico, certo, ma anche “spirituale”, nella misura in cui, in generale, l’adesione “intima” alla fede religiosa (per non dire alle superstizioni che le si accodano) è ancora diffusissima, forte e permeante larghi strati della popolazione italiana, dove vi sono ancora folle di fedeli che riempiono piazza San Pietro o i santuarî sparsi per la penisola, riteniamo veramente che sia sufficiente essere “contro” chi si approfitta di tutto ciò (gestendo le coscienze e tenendole legate) e non essere “per” qualcosa di alternativo alla fede e ai suoi correlati?

Oppure ne faremo (atteggiamento aristocratico e anche un po’ sciocco) una questione di “superiorità” intellettuale, ritenendo che i fedeli (qualcuno di noi li chiama sarcasticamente «credini») siano esseri inferiori che “comunque”, nella loro irrazionalità, non potrebbero fare altrimenti che adorare e pregare gli idoli della religione? A me pare che il disprezzo non sia mai stato un buon metodo per far valere le proprie ragioni e che stigmatizzare l’altrui irrazionalità non aumenta per ciò stesso la nostra credibilità. Io mi sforzo d’essere razionale e proprio per questo sarei piuttosto prudente nel definire «irrazionale» un Pascal perché riteneva che si dovesse prescindere dalla ragione per scommettere sui beneficî della fede. Le conclusioni semplificistiche sono sempre pericolose e non fanno onore proprio a quella ragione alla quale (fin troppo spesso e con uggiosa retorica) molti di noi si appellano retoricamente.

Può darsi che coloro che credono in Dio pecchino in qualche misura tutti di irrazionalità, ma ciò non mi pare sufficiente per ergerci a loro giudici; e forse un po’ più di riflessione “razionale” dovrebbe indurci a una maggior prudenza nel trinciare giudizi “a effetto” a danno di chi si affida alla metafisica religiosa perché non trova alternative “funzionali” esistenzialmente utilizzabili. Personalmente ritengo questa strada non corretta né utile e in definitiva persino autolesionista, se è vero che essa ci fa passare talvolta come presuntuosi e arroganti. Io penso che noi potremo (forse) dirci superiori ai credenti (e filosoficamente competitivi) non quando riusciremo a dimostrare che la loro fede è falsa (il che è fin troppo facile), ma quando riusciremo a dimostrare che vivere da agnostici o da atei «ha più senso» che vivere da cristiani e che inoltre la nostra opzione consente di stare “meglio”, sia a livello personale sia comunitario. A me pare che ogni altro discorso rischi abbastanza spesso di finire nella pura chiacchiera, se non addirittura in un’oziosa retorica antireligiosa, appagante e autocompiacente, ma priva di alcuna consistenza.

Non pretendo ovviamente di convincere nessuno circa l’opportunità di darci una base filosofica che ci caratterizzi meglio. Opportunità che secondo me deve percorrere una strada completamente diversa da quella di chi pensa che possa essere sufficiente realizzare una cultura puramente strumentale e contestativa del Cristianesimo. Basata, ad esempio, su una lettura della Bibbia o del Vangelo finalizzata a coglierne le innumerevoli contraddizioni e assurdità, per poterle poi rinfacciare al momento opportuno al più o meno reale interlocutore cristiano. Bene inteso: io non ne contesto la validità nella contingenza: ciò è sicuramente opportuno e utile! Queste armi dialettiche possono addirittura diventare determinanti sul piano dibattimentale, possono funzionare ottimamente in un talk-show televisivo, ma a mio parere restano del tutto insufficienti qualora l’obiettivo che ci si ponga dovesse essere la definizione di un’identità culturale e filosofica definita, convincente e difendibile.

Se sono riuscito a sciogliere qualche dubbio circa l’opportunità di sviluppare una cultura storica e filosofica nella nostra associazione (che non riduca ma, anzi, integri e affini la prassi) spero che qualcuno (agnostico o ateo che sia) decida di rendersi parte proponente e diligente per la nascita di una struttura organizzata (un comitato culturale o qualcosa di simile) che promuova e coordini studi singoli e collettivi sull’ateismo e sull’agnosticismo. Ciò al fine di dotare l’UAAR di un background concettuale non soltanto formale (fatto di citazioni di pronto effetto da adoperare all’occorrenza), ma approfondito, documentato e messo a disposizione di tutti, relativo alla cultura che nei secoli ha arricchito il mondo ateo e agnostico contro il dominio della cultura religiosa e per la realizzazione di un’alternativa ad essa. Un patrimonio da cui partire per fornire (sempre che ne siamo capaci) modelli esistenziali “reali” e proponibili, alternativi alle fedi religiose in termini teoretici, esistenziali ed etici.

Vorrei ancora ricordare a chi fosse scettico sulla mia proposta che esiste un “nostro” patrimonio culturale più vasto di quanto si pensi, ma da sempre occultato, denigrato e in qualche caso non più accessibile perché fatto “fisicamente” sparire dai religiosi. Ovviamente la mia incipiente canizie mi spinge a riporre le mie speranze nei giovani che mi leggono, poiché io francamente non me la sento più di frequentare biblioteche e archivî per scoprire questi celati segni della nostra identità culturale. Ma com’è possibile sperare che qualcuno dei nostri giovani decida di avviare tali studî (e magari farne oggetto di tesi di laurea) se non saremo convinti di tale utilità, se non faremo loro sentire tutto il nostro appoggio e il nostro apprezzamento per questo difficile compito e se non ci “struttureremo” adeguatamente al riguardo?

Fin qui ho posto il problema in un orizzonte unitario, ma debbo ora tornare al titolo di questo articoletto per ricordare che le culture filosofiche presenti nell’UAAR restano comunque due (al di là di ogni tentativo di unificazione) e che è difficile dire su due piedi se esse possano convergere in un’identità, oppure se sia un’identità di fatto che può contenere, connettendole, le due culture. Mi sembra però evidente che nel mio auspicio per la realizzazione di un progetto culturale comune, quale patrimonio specifico della nostra associazione, una cosa risulti fuori discussione: che ognuno dei due indirizzi debba fare la propria parte. Altrimenti potrebbe uscirne qualcosa di squilibrato, dove una componente più diligente e attiva potrebbe far pendere la bilancia dal proprio lato. Questo sarebbe bene evitarlo, ma non per questo l’impresa ne risulterebbe compromessa. L’importante è che dai risultati di due percorsi di lavoro, quali che siano per qualità e quantità, non ne risulti opposizione, ma integrazione, e che i due punti di vista convergano in una concezione del mondo e dell’esistenza forse articolata, ma sufficientemente coesa e proponibile unitariamente. D’altra parte, credo che a tutt’oggi la situazione della cultura uaarina sia ancora abbastanza fluida e quindi aperta a varie linee di sviluppo. Quello che mi sembra importante è che venga conseguito un nucleo ideale “forte”, a partire dal quale si possa tentare di fondare, con solide, chiare e definite basi, una “nostra” cultura caratterizzata e caratterizzante, sulla quale possano svilupparsi nuove tesi e nuove idee. Tutto questo lavoro potrebbe essere assai faticoso e impegnativo, durare anni, ma probabilmente ne deriverebbe un miglioramento d’immagine e forse… qualche associato in più.

Proviamo a fornire qualche accenno (un esercizio approssimativo ma che non credo inutile) di ciò che ho sopra chiamato “basi” culturali. Nel mondo antico l’ateismo si è caratterizzato più che per una sua esplicita (e in verità molto rara) ammissione della negazione della trascendenza, perlopiù con un’omissione dell’argomento religioso e in qualche caso (vedi Epicuro) con una sorta d’opportunistica emarginazione del divino (senza negarlo) in un angolo di universo estraneo al mondo umano. Né sono mancati atteggiamenti (come quello di Socrate) che appaiono come vere e proprie anticipazioni di agnosticismo, interpretato forse abusivamente come un quasi-ateismo (e da ciò la sua irrimediabile condanna). Ma la multiformità degli atteggiamenti è tutta da indagare e da scoprire, togliendola alla cultura ufficiale e accademica, spesso più incline a raffinatezze dialettiche (e autoreferenziali) piuttosto che a ricercare sfumature di contenuto che permettano di cogliere la sostanza atea o agnostica di un pensiero, al di là delle sue enunciazioni logico-formali. Scendendo i secoli le enunciazioni si fanno più chiare ed esplicite, ma bisognerà arrivare al tardo Illuminismo per trovare filosofie atee inequivocabili (come quelle di un Lamettrie o di un D’Holbach); e d’altra parte fino al 1869 nessuno aveva pronunciato chiaramente la parola «agnosticismo», allorché Th. H. Huxley ne diede quella definizione che rimane a tutt’oggi canonica.

Se poi lo vorremo fare (ma non vorrei adombrare ambizioni eccessive) potremo addirittura chiederci se gli atei e gli agnostici godano di una loro reale “specificità” antropica. Ovvero, quanta e quale sia la differenza sul piano antropologico tra un pensare e vivere “senza Dio”, nella più assoluta e totale libertà metafisica, e un pensare e vivere “nell’impossibilità di decidere circa l’inesistenza di Dio”. Forse la seconda opzione è addirittura più razionale della prima, nella misura in cui si astiene su una questione che ritiene “oggettivamente” indecidibile, mentre l’ateo salta il fosso del dubbio e si porta sulla sponda di una certezza-al-contrario, che potrebbe contenere qualche elemento di volontarietà acritica. Ma queste sono solo anticipazioni dell’abbozzo di una partita che è aperta (o almeno io auspico che si apra) e tutta da giocare. Una partita nella quale l’UAAR si potrebbe configurare non soltanto come movimento di “protesta”, ma anche come struttura culturale di “proposta”.

Sempre ovviamente che la si voglia giocare tale partita; altrimenti… come non detto. Io comunque, in quanto ateo, se pure nell’ambito UAAR questa mia proposta non venisse giudicata interessante (per ragioni che a priori voglio riconoscere come del tutto valide) mi piacerebbe non rimanere con le mani in mano. È da tempo che ho, infatti, in animo la costituzione di un gruppo di studio sulla filosofia atea, un qualcosa che potrebbe chiamarsi: Gruppo di Ricerche e Studi sull’Ateismo. Nei miei intendimenti esso dovrebbe raccogliere non soltanto persone atee interessate alla filosofia, ma anche chi si occupi di ogni altra disciplina, umanistica o scientifica, che presenti aspetti utili all’elaborazione di ipotesi o tesi in termini di filosofia atea. Ma si badi: io penso a una filosofia “per tutti” e non già specialistica e intellettualistica. Una filosofia che deve soprattutto uscire dalle secche dell’Idealismo (in qualsiasi sua forma esplicita o implicita) a cui, più o meno inconsapevolmente, molti continuano a rimanere legati, se non nei contenuti certamente nel linguaggio ricercato e nei procedimenti dialettici, oziosamente ingessati su una speculazione fine a sé stessa e perlopiù autoreferenziale, nonché completamente estranea ai problemi reali dell’esistenza.

Occorre ritrovare, a mio avviso, i modi e i termini della filosofia illuministica (in Italia completamente trascurata) che possedeva un linguaggio e un tipo di ragionamento lontani dai bizantinismi filosofici classici; quindi una filosofia semplice, chiara e comprensibile a tutti. I frequentatori della mailing list Materialismo Aperto, che mi conoscono ormai da qualche anno, sanno che questo è il fine primario che io perseguo da tempo e che mi piacerebbe trasferire in un’impresa culturale più importante, la quale potesse produrre del materiale filosofico degno di diventare patrimonio comune dell’ateismo in generale. Approfitto allora (spero legittimamente) di questa occasione per invitare chiunque fosse interessato a questo mio progetto, ancora tutto da definire nei suoi dettagli, di contattarmi, esponendomi i suoi interessi, le sue conoscenze (anche delle lingue straniere), eventualmente anche il suo luogo di residenza e le sue possibilità di studio o di frequentazione di biblioteche e archivî (ciò, ovviamente, compatibilmente coi suoi impegni professionali e familiari). Più saremo e più sarà facile far nascere e decollare un’impresa culturale “dal basso” che risulterebbe del tutto nuova, almeno per il nostro Paese.

Con l’auspicio che in qualche modo “ce la faremo”, permettetemi di chiudere il mio messaggio parafrasando le ottimistiche parole del Poeta: «Poca favilla (se la sapremo accendere) gran fiamma seconda… (se l’alimenteremo col nostro entusiasmo e col nostro impegno)». Sennò, pazienza, ci penseranno i posteri a farlo.