L’eutanasia e il diritto all’autodeterminazione

di Valerio Pocar

 

La discussione sul tema dell’eutanasia è caratterizzata da molta confusione, sia presso l’opinione pubblica sia persino presso gli addetti ai lavori, addirittura per ciò che concerne l’argomento stesso del discorso. Una delle ragioni della confusione, infatti, è che con un unico termine si allude spesso a situazioni anche profondamente differenti, che debbono essere valutate alla stregua di criteri diversi. Fare d’ogni erba un fascio è un’operazione non priva d’astuzia sotto il profilo puramente dialettico da parte degli avversari dell’eutanasia, che consente di recare argomenti che possono avere qualche validità per una situazione riferendoli a tutte. È opportuno, dunque, fare chiarezza.

Riprendendo la tassonomia proposta dal noto rapporto van der Maas (1996), possiamo individuare almeno cinque situazioni relative alle decisioni concernenti l’anticipazione della fine della vita: (1) l’eutanasia propriamente detta, vale a dire la somministrazione di farmaci con l’intento di porre fine alla vita del paziente dietro sua esplicita richiesta; (2) il suicidio medicalmente assistito, vale a dire la prescrizione o la fornitura di farmaci con l’esplicito intento di rendere possibile al paziente di porre fine alla sua vita; (3) l’interruzione della vita senza richiesta esplicita, vale a dire la somministrazione di farmaci con l’intenzione esplicita di porre fine alla vita del malato senza la sua esplicita richiesta; (4) la somministrazione di farmaci (oppiacei) al fine di controllare il dolore, ma in dosi tali da abbreviare la vita; (5) la non-istituzione o la sospensione di trattamenti di sostegno vitale. Considererò solamente le prime due situazioni, che hanno a che fare col concetto di autonomia del malato, e non le altre che hanno piuttosto a che fare col rifiuto dell’accanimento terapeutico, col problema dell’intenzione e la teoria del doppio effetto, con la medicina palliativa, e via dicendo. La distinzione, insomma, è la seguente: da un lato, le pratiche eutanasiche propriamente dette, che determinano l’anticipazione della morte di una persona capace di intendere e di volere, come conseguenza dell’esercizio del diritto all’autodeterminazione della persona, comprese le scelte dettate tramite direttive anticipate (living will), che può realizzarsi secondo diverse tecniche e modalità del suicidio; dall’altro lato, i casi di anticipazione della morte in cui, più che al diritto all’autodeterminazione, si faccia riferimento ai criteri di beneficenza e di non maleficenza o di equità, al concetto di qualità o di dignità della vita, e via dicendo. Per quanto ho detto, non scorgo poi differenze di sostanza tra l’eutanasia propriamente detta (eutanasia attiva) e il suicidio assistito, vale a dire che non rilevo differenze tra il caso del malato terminale o inguaribile che, potendolo fare, si suicida, quello del malato che, rifiutando il trattamento, determina la propria morte, quello del malato che si faccia somministrare l’iniezione letale e quello del malato che per suicidarsi si faccia fornire il kit fai-da-te per l’autosomministrazione. Tutte queste scelte, infatti, sono espressione dell’autonomia dell’individuo, autonomia che, per inciso, deve essere rispettata dall’operatore sanitario, in applicazione dei criteri di beneficenza e non-maleficenza che dovrebbero informare tutte le pratiche sanitarie, criteri che si esplicano anzitutto nel rispetto della volontà e della libertà del malato. Qui potrò toccare brevemente soltanto alcune delle numerose questioni che si propongono.

Eutanasia e inviolabilità del diritto alla vita. Non è corretto dire che l’eutanasia si ponga in contraddizione con l’inviolabilità del diritto alla vita, che rappresenta un diritto fondamentale agli occhi di tutti, anche di chi sostiene la liceità dell’eutanasia, e del resto è affermato dalle disposizioni costituzionali e dalle convenzioni internazionali sui diritti umani. La questione è, però, se il diritto all’inviolabilità della vita comporti anche il dovere di vivere a tutti i costi e se si tratti dell’inviolabilità della vita altrui o anche della propria. Ritengo, da un lato, che nessuno possa disporre della vita altrui, ciò che comporta il rifiuto delle guerre, della pena di morte e via dicendo, e anche il rispetto della vita di soggetti senzienti non appartenenti alla specie umana, e anzitutto degli animali, questioni sulle quali gli oppositori dell’eutanasia non hanno saputo assumere posizioni altrettanto chiare, sicché sarebbe inviolabile soltanto la vita dei malati terminali o inguaribili (ma i martiri?), ma affermo anche, dall’altro lato, che ciascun individuo ha il diritto di disporre della propria vita. Il contrasto, dunque, riguarda il riconoscimento del diritto a disporre della propria vita, cioè, a ben guardare, proprio il riconoscimento di un diritto di libertà. È normale e anzi fisiologico che, nelle grandi come nelle piccole questioni etiche, si prospettino posizioni anche inconciliabili, tutte però legittime, ma non si può accettare che taluno, seguendo un modello di pensiero integralistico e pensando di essere l’unico depositario di un’unica verità, si senta autorizzato ad imporla. Seguendo un modello di pensiero laico, ispirato al principio della tolleranza, è invece da ritenere che le idee e i convincimenti degli individui possano essere diversi e che la coscienza di ciascuno debba essere rispettata senza imposizioni. Il pluralismo etico, nella nostra società, non rappresenta più un auspicio, ma costituisce un fatto concreto, che è tanto opportuno quanto doveroso rispettare. Proprio al fine di rispettare la coscienza e i valori di ciascuno dovrebbero preferirsi, anche per quanto concerne l’eutanasia, soluzioni di tipo pragmatico che non pretendano di risolvere il problema etico in nome di convergenze generali e offrano una regolazione che consenta agli individui, liberi di ispirare le proprie scelte ai valori che condividono, di non cadere in contraddizione con se stessi. Del resto uno scopo delle leggi dovrebbe essere, fra gli altri, quello di mantenere la pace sociale creando spazi per le libertà di tutti e non quello di imporre comportamenti che conducano in paradiso.

Esiste un diritto a morire? Se non v’è dubbio che esiste un diritto a vivere, non v’è neppure il dubbio che, almeno nel nostro ordinamento, esiste il diritto a morire. Anticipare o determinare la propria morte tramite il rifiuto delle cure, secondo quanto è disposto dall’art. 13 e dall’art. 32 secondo comma della nostra Costituzione, è lecito così come lo è suicidarsi. Ora, poiché nel caso dell’eutanasia occorre l’intervento di un terzo, dobbiamo però chiederci se questo intervento sia moralmente lecito. Negarne la liceità rappresenta un’evidente discriminazione tra coloro che sono in condizione di anticipare la propria morte col suicidio o il rifiuto delle cure e coloro che, per le particolari condizioni di malattia nella quale si trovano, dunque per una loro specifica debolezza, non sono in condizioni di farlo o di farlo in modo dignitoso e senza un maggior carico di sofferenza. Appare evidente che le norme del codice penale che puniscono l’omicidio del consenziente (art. 579, pena da sei a quindici anni di reclusione) e l’aiuto al suicidio (art. 580, pena da cinque a dodici anni) sono censurabili di incostituzionalità per violazione dei principi di eguaglianza e di libertà, almeno per ciò che concerne i malati terminali o inguaribili.

Come regolare l’eutanasia? Contrariamente a ciò che molti pensano, l’eutanasia nel nostro ordinamento è già regolata, nel senso, appunto, che essa è vietata e punita severamente. Dall’esistenza del divieto, la discussione sulla liceità morale dell’eutanasia e del diritto a morire viene affrontata secondo un atteggiamento di pregiudizio, quasi che spetti ai sostenitori della liceità dell’eutanasia di dimostrare tale liceità e tale diritto. Un pregiudizio, poiché in linea di principio spetta piuttosto a coloro che negano la liceità di un comportamento e ne fanno scaturire un divieto, di giustificare la loro posizione e, dunque, spetta a coloro che contrastano l’eutanasia di motivare la liceità morale dell’imposizione del dovere di vivere anche in situazioni estreme di insostenibili sofferenze e di totale mancanza di dignità e di qualità della vita e spetta sempre a loro di dimostrare il danno che la legalizzazione dell’eutanasia comporterebbe e quali vantaggi ha sinora comportato il suo divieto. Ci sembra arduo individuare l’interesse particolare o collettivo che sarebbe posto a rischio dall’anticipazione della morte su richiesta di un malato terminale o inguaribile e l’interesse che sarebbe prevalente su quello dell’individuo a una morte che lo liberi da insostenibili sofferenze o da una vita, priva di senso e di dignità, stimata immeritevole di essere continuata. Il divieto appare, anche sotto questo profilo, di dubbia costituzionalità per violazione del principio di libertà, giacché l’autonomia dell’individuo per ciò che concerne la propria salute e il proprio corpo è sancita come diritto dalla nostra Costituzione all’art. 32 comma secondo e davvero non si comprende perché mai tale diritto, riconosciuto a tutti, dovrebbe essere sospeso proprio nel momento più decisivo e delicato, vale a dire nelle fasi finali della malattia e quindi della vita, anche se l’esercizio del diritto all’autodeterminazione comporti l’anticipazione della morte. La richiesta eutanasica, a ben guardare, non è altro che l’estensione e il compimento del diritto, ormai da tutti riconosciuto, di autodeterminazione del malato.

Legalizzare l’eutanasia può recare vantaggi? Occorre fare due premesse. Da un lato, l’eutanasia non può rappresentare l’unica soluzione del problema dei malati terminali e inguaribili, ma deve costituire piuttosto una scelta in un quadro di umanizzazione della medicina e di sviluppo della medicina palliativa come offerta sanitaria che non sia appannaggio di uno sparuto nucleo di medici ben intenzionati, com’è ancora la situazione del nostro paese, ma alla quale partecipi il sistema sanitario nel suo complesso e i medici di famiglia in primo luogo. Dall’altro lato, tuttavia, anche le cure palliative non possono essere imposte (per non cadere nel paradosso di un «accanimento palliativo»), sicché al malato terminale o inguaribile deve essere lasciata la possibilità di scegliere ed eventualmente di preferire, ai trattamenti palliativi, la soluzione anticipata di una condizione di vita segnata da un eccesso di sofferenza o comunque tale da non essere valutata come dignitosa. Fatte queste premesse, sembra più opportuno, seguendo l’impostazione sopra esposta, soffermarsi a porre in luce, tra le molte, alcune positive conseguenze della legalizzazione dell’eutanasia, lasciando ai contrari di chiarire le eventuali conseguenze negative.

Anzitutto, come in parte ho già detto, se si ritiene che la tolleranza sia un valore e che l’autonomia degli individui sia per sé un bene, se ci si pone cioè in un’ottica autenticamente liberale e quindi laica e pluralistica, ogni riconoscimento della libera volontà degli individui, beninteso quando esso non torni di danno per altri, rappresenta un passo del progresso civile. Consentire la scelta eutanasica rappresenterebbe un’affermazione della libertà e dell’etica della tolleranza, importante sotto il profilo sia etico sia pedagogico.

Si renderebbe, inoltre, possibile un più accurato controllo sociale. Si sa che l’eutanasia, negata dal punto di vista giuridico e di principio quasi dappertutto, è dappertutto di fatto praticata, anche se la gravità delle pene fa sì che tali pratiche siano tenute rigorosamente segrete, senza alcuna possibilità di controllo. Rendere lecita l’eutanasia comporterebbe una precisa assunzione di responsabilità tanto del medico quanto del paziente stesso e la possibilità del controllo tanto da parte della sfera pubblica quanto da parte dei cittadini.

Ancora, rendere lecita l’eutanasia porterebbe a un rafforzamento del rapporto di fiducia tra il paziente e il medico, nel quale il malato terminale o inguaribile potrebbe vedere il soggetto in grado di recargli aiuto anche nell’emergenza di una scelta estrema. Non è privo di significato che nei Paesi Bassi - il paese, com’è noto, nel quale l’eutanasia, ora anche formalmente consentita, è da tempo depenalizzata, sicché si è reso possibile uno studio non astratto delle conseguenze della depenalizzazione - il 40% dei decessi sia avvenuto al di fuori delle istituzioni, con il paziente affidato al medico di famiglia, e che il 70% dei casi di eutanasia attiva (il 97% dei casi di suicidio assistito) cada sotto la responsabilità di questi medici (rapporto van der Maas 1996).

Riconoscere la liceità dell’eutanasia comporterebbe, poi, la fine di una discriminazione particolarmente odiosa. La facoltà di porre fine alla vita, che già non è negata al malato terminale in grado di compiere materialmente il gesto, sarebbe estesa al malato che, per via delle sue condizioni fisiche o a cagione della sua particolare malattia, non fosse in grado di recare ad effetto la medesima scelta.

Contro queste ragioni, che non sono le sole, non vale evocare, come insistentemente fanno gli oppositori, il rischio del cosiddetto slippery slope, che cioè la legalizzazione dell’eutanasia volontaria, giustificata dall’autonomia degli individui, aprirebbe le porte all’eliminazione involontaria di soggetti deboli, privi di protezione, la cui assistenza sia di peso alla famiglia o alla società, disincentivando l’impegno per il sostegno della vita. Anche se non deve essere sottovalutato il rischio che nei confronti del malato terminale o inguaribile si potrebbe determinare, a pena di esclusione sociale, l’aspettativa di una scelta di tipo eutanasico, ritenuta socialmente o peggio economicamente preferibile, il richiamo allo slippery slope suscita tuttavia molta perplessità. Questo rischio, infatti, viene puntualmente richiamato, e sempre con un significato d’intolleranza, ogni qual volta si tratti d’introdurre innovazioni concernenti questioni moralmente controverse che coinvolgono situazioni di difficoltà delle persone. Così è avvenuto, non senza toni drammatici, per il divorzio o la depenalizzazione dell’aborto, ma in entrambi i casi i fatti sono stati la miglior smentita degli allarmi. Per quanto poi attiene all’eutanasia, bisogna dire, ancora riferendoci all’esperienza olandese, che le richieste di pratiche eutanasiche sono sì aumentate tra il 1990 e il 1995 rispetto al precedente quinquennio di osservazione, ma hanno trovato accoglimento in misura alquanto minore, in meno di un terzo dei casi. Ancora, rispetto al precedente periodo di osservazione, risulta che l’anticipazione della morte mediante tali pratiche si è ridotta ed è risultata di modestissima misura, nel 33% dei casi inferiore alle ventiquattro ore e nel 58% inferiore alla settimana. È dunque ben chiaro che a tali pratiche si è fatto ricorso solamente nella estrema fase terminale della malattia, senza trascurare che il mezzo impiegato per interrompere la vita sia stato di regola la morfina ad alte dosi, pratica che accosta l’eutanasia al controllo del dolore, sicché sembra possibile concludere che, almeno nel caso olandese, vale a dire nell’unico caso studiato, il timore di slittamento verso pratiche scorrette e irrispettose della vita dei malati, come conseguenza della depenalizzazione dell’eutanasia, non trovi conforto nell’esperienza. Dobbiamo naturalmente chiederci se, al di là delle diverse possibili valutazioni etiche, l’esperienza olandese sia trasferibile in altri contesti sociali, diversi per cultura, per struttura assistenziale e forse anche per la sensibilità etica degli operatori medici e sanitari.

La legalizzazione dell’eutanasia è una prospettiva credibile? Proprio sulla base di queste considerazioni, che riconoscono l’autodeterminazione degli individui e le necessità dell’ordine sociale, l’idea della legalizzazione dell’eutanasia volontaria e del suicidio assistito va prendendo piede. Alla legge olandese ha fatto recentemente seguito la legge belga, in tutto simile. Il suicidio assistito, ammesso dalle corti degli Stati di Washington e di New York, è stato respinto da decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti che non lo ha tuttavia ritenuto contrastante con i principi costituzionali, tant’è che nello Stato dell’Oregon esso è ammesso all’esito di un referendum popolare. Prima di essere abrogata dal parlamento federale, una legge del North Territory dell’Australia aveva legalizzato il suicidio assistito. L’esperienza svizzera, recentissima, ha ancora carattere sperimentale. La Corte Costituzionale della Colombia, ritenuta legittima la tenuità delle pene per il reato di omicidio pietoso, si è pronunciata per la legittimità costituzionale del suicidio assistito. Il dibattito, dunque, è ormai molto aperto e la situazione del nostro paese appare, per ragioni che non ho bisogno di rendere esplicite, di retroguardia. Ma anche nel nostro paese qualcosa si muove e mi piace ricordare qui che la Consulta di Bioetica, un’associazione che si è data il compito di promuovere il dibattito laico sui problemi bioetici, ha formulato una proposta di legge per rendere legale, sotto condizioni molto rigorose, l’assistenza al suicidio e ha presentato tale proposta in un pubblico convegno tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano nel dicembre 2000.

 


Valerio Pocar, Università degli Studi di Milano-Bicocca, Dipartimento dei Sistemi Giuridici ed Economici, presidente della Consulta di Bioetica.