Riflessioni per un’etica atea

di Carlo Tamagnone

Seguendo le mailing list dedicate all’ateismo, ancorché frequentate anche da persone che atee non sono, periodicamente compaiono brevi thread, spesso marginali, in cui due o tre persone si scambiano le idee o contendono sull’argomento in oggetto. Così è accaduto recentemente sulla mailing list e così era accaduto circa un anno fa sulla mailing list , dove era stata addirittura tentata un bozza di etica atea all’interno di un quadro filosofico dell’ateismo. Di fatto però alla fin fine queste iniziative lasciano un po’ il tempo che trovano, perché presto si esauriscono nel silenzio. Ciò avviene un po’ per stanchezza, un po’ per la difficoltà di passare dalla fluidità delle opinioni alla solidità di tesi condivise e un po’ per un certo generale di­sin­teresse da parte della maggioranza degli altri aderenti alla list. Oltre a questo generale disinteresse c’è però anche da parte di molti il sospetto che gli atei, dandosi delle regole di condotta (e implicitamente dei valori di riferimento), corrano il rischio di conferire al movimento caratteristiche proprie delle posizioni che vengono combattute, avviandosi su un terreno se non pericoloso almeno estraneo.

Parlare di etica infatti significa quasi sempre fare riferimento alla sua relativa base ideologica (o per lo meno a un qualche coerente complesso di idee), per cui si parla di etiche cattolica o protestante in campo religioso e di etiche socialista o liberale (ma ricordiamoci che sono esistite persino un’etica fascista e una comunista) in campo socio-politico, quali derivate da una matrice ideale definita e condivisa di convivenza sociale, in grado di delineare dei criteri di comportamento univoci e condivisibili. In questo quadro, come appare in base a quei tenui e sporadici segnali di interesse a cui ho accennato, l’argomento in questione si presenta un po’ “di contrabbando” e ciò consiglia una certa prudenza nell’affrontare l’eventuale (auspicabile o meno) fondazione di un’etica atea in un contesto così debole e frammentato, dove più che l’atteggiamento ateo emergono i vari background culturali che lo determinano (e talvolta lo condizionano). In generale si può allora concludere senza essere lontani dal vero che alcuni di noi sono favorevoli alla definizione di un’etica atea, alcuni sfavorevoli e molti del tutto indifferenti.

Da quanto sopra emerge però anche subito una domanda preliminare, poiché se si ipotizza la possibilità di un’etica dell’ateismo bisognerebbe anche prima chiedersi che cosa sia veramente l’ateismo e, prima ancora, se esista un autentico ateismo. D’altra parte, che gli atei esistano è una realtà, determinata se non altro dal fatto che vi sono persone che si dichiarano tali, ma che poi dietro tali dichiarazioni (al di là di una generica negazione di Dio) ci sia un’autentica e definita corrente di pensiero e un complesso di atteggiamenti coerenti è ancora tutto da vedere, poiché le contraddizioni abbondano e dominano lo scenario.

Se la domanda viene posta più esplicitamente e ci si chiede se esista “oggi” un complesso di idee fondanti e condivise dell’ateismo la risposta non può essere che negativa. Peraltro la stessa associazione che supporta queste pagine è un’unione in comune con la categoria degli agnostici, i quali partono da premesse teoriche già piuttosto diverse dalle nostre. In altre parole: ci si trova tutti d’accordo (compresi agnostici e laici generici) nel contrastare l’arroganza sociale della religione, ma nel più completo disaccordo su quale modello esistenziale alternativo proporre. Ciò anche (e forse soprattutto) perché nello stesso campo ateo i criteri etici sono talvolta in opposizione tra loro, rispondendo ad atteggiamenti culturali (o decisamente socio-politici) opposti e inconciliabili, come ci possono essere tra un’etica della solidarietà e una della competizione. Ma tra gli oppositori di un’etica atea vi sono anche coloro che la ritengono del tutto inutile, in quanto essa si estrinseca praticamente già nell’operatività dei codici giuridici di procedura penale e civile, validi a livello interpersonale e sociale, senza bisogno di alcuna interferenza di tipo moralistico sul piano personale, per cui ognuno deve essere libero di darsi la morale che crede migliore, senza fare riferimento ad altri che non sia se stesso. Ora, questa libertà di autodeterminarsi è fuori di­scussione, ma non è questo il problema. Un’etica per sua stessa natura non può mai essere cogente, altrimenti diventa una precettistica, ma essa rappresenta invece l’oggetto logico e consequenziale di una concezione del mondo, quell’oggetto concettuale “derivato” dove una certa concezione “dell’essere e dell’esistere” da pura teoria diventa prassi di vita corrente.

Ma allora dobbiamo arrivare alla domanda cruciale che sempre emerge: «L’ateismo, come concetto definito ed unificante di una concezione del mondo e della vita, esiste oppure no?». Una panoramica storica sull’opzione atea nei tempi passati non ci aiuta molto. A parte l’ateismo antico, quasi esclusivamente filosofico, rapsodico ed elitario, è soltanto nel XVII secolo e soprattutto in quello successivo che con il libertinismo (accompagnato da casi straordinari come quello dell’abate Meslier) e con parte dei filosofi e scienziati raccolti intorno all’Encyclopédie, comincia a profilarsi un insieme di posizioni abbastanza coerenti, per lo più di carattere antireligioso (ma più spesso soltanto anticlericale), che permettono ai teisti di parlare dell’esistenza degli atei e quindi di un ateismo. Ma è soltanto verso la metà del XIX secolo che con alcuni filosofi post-hegeliani, Feuerbach in testa (ma anche con Stirner, Strauss, Engels e naturalmente Marx) vi è un arricchimento dell’atteggiamento ateo intorno a un corpus di idee abbastanza definite, le quali, variamente interpretate e coniugate con quelle illuministiche, daranno luogo alle correnti ateistiche del secolo appena trascorso.

Correnti che a me pare siano fondamentalmente tre, delle quali la più nota e importante (quella “marxista”) finirà per istituzionalizzarsi nel “socialismo reale”, mentre le altre due (quella “anarchica” e quella “liberale”) furono assai meno unitarie, probabilmente perché prive di una base ideologica. Naturalmente una ricognizione accurata rivelerebbe che in realtà le correnti sono assai più numerose, ma questa semplificazione è necessaria per non disperderci, tracciando così un quadro sufficientemente chiaro di un panorama ateistico che comunque ci concerne come atei dell’inizio del XXI secolo.

Sul piano dei background culturali io credo perciò che non siamo molto lontani dalla realtà se assumiamo che oggi il panorama dell’ateismo europeo si possa a grandi linee suddividere in atei “post-marxisti”, “filo-anarchici” e “neo-liberali”. Se questa classificazione è legittima si vede di primo acchito come i tre indirizzi siano molto diversificati, per cui è già piuttosto difficile immaginare la possibilità, non dico di fondare, ma nemmeno di delineare, un’etica atea unanimemente condivisibile, poiché (sempre procedendo per semplificazioni) la prima non riconosce l’etica del profitto, la seconda si oppone all’etica dello Stato e la terza ritiene negativa un’etica dell’eguaglianza. Allora ne emerge che in base a quelle premesse per cui, in generale, una persona si professa atea in base all’interiorizzazione di un background culturale (talvolta con i caratteri di un’ideologia) un incontro di idee su di un’etica atea rischia ogni volta di naufragare in una sterile contrapposizione di principi politico-sociologici aprioristici, che nella loro gamma e posizione rendono il territorio dell’ateismo senza veri confini e praticamente indefinibile. Ma questa indefinitezza e debolezza sono anche primarie, conseguenti al fatto che il senso di “appartenenza” alla posizione socio-politica è “forte” mentre quello relativo alla posizione atea risulta “debole”.

Da quanto sopra deriva un’immediata conseguenza, quella che (in generale) numerosi atei convinti rifiutino l’assunzione di idee o principi “forti”, temendo di finire per assomigliare ai sostenitori di ciò che combattono (l’ideologia religiosa), ma nello stesso tempo finiscono per autocondannarsi alla debolezza della loro posizione, che rimane di conseguenza vaga e indefinita sul piano propositivo. Questa debolezza impedisce la formulazione di un modello di vita o di convivenza eticamente fondati su base atea e lasciano spazio alle etiche religiose o socio-politiche esistenti, per cui in qualche caso (vedi i no-global) e peraltro del tutto legittimamente, gli atei finiscono per andare a braccetto con l’evangelismo cattolico più estremo e con esso confondersi.

Questa impasse è superabile? Forse sì, ma a condizione che gli atei abbandonino (o almeno attenuino) i loro background culturali socio-politici e ripensino l’ateismo (in esso riconoscendosi) non già a partire dalla storia fatta dai movimenti atei del passato, ma dalla storia del pensiero filosofico autenticamente ateo (quando e dove c’è) e soprattutto inventandosi un futuro nel quale, sul piano personale, interpersonale e sociale, sia possibile immaginare che vasti strati di popolazione possano autoprogettarsi nell’assoluta “assenza di Dio”. Ma attenzione! Bisogna poi anche essere in grado di dimostrare, almeno teoricamente, che “senza Dio” si può vivere meglio e che quindi l’ateismo costituisce un progresso socio-culturale “pragmatico” dell’esistenza e non soltanto uno svelamento dell’impostura teista, il quale di per se stesso non porta proposte nuove e quindi non indica nessuna via per il superamento delle etiche esistenti, correnti o dominanti.

A questo punto però non si può evitare di chiedersi anche che cosa sia poi in fondo quella “cosa” che chiamiamo etica. Si sa che i dizionari la definiscono quella branca della filosofia che si occupa della condotta umana, dei suoi moventi e dei suoi fini. Ma è proprio qui che si scopre l’estrema complessità del concetto stesso di etica e nel contempo la sua vaghezza, poiché esso si presta a un ampio ventaglio di interpretazioni a seconda dei principi a cui fa riferimento.

Una prima grande divaricazione si ha a seconda se i “fini” o i “moventi” sono concepiti a livello individuale, parentale, sociale, nazionale o universale. Se pure si esclude il livello individuale in quanto eticamente poco significativo, rimane pur sempre da chiedersi, ad esempio, se il “fine” posto è il “bene universale”, quanto questo possa coincidere con quello nazionale, fino ad arrivare a quello di una comunità, per scendere fino ad interessare quello di un clan o di una singola famiglia. Ma ancora più difficile si presenta l’intento se ci si riferisce ai “moventi”, dove assumendo, ad esempio, la “felicità” come obbiettivo resta poi da chiedersi se essa lo sia in generale e per tutti (e quindi anche per chi viola le regole comunitarie) oppure debba valer soltanto per chi le accetta, tenuto conto che esse potrebbero non essere unanimemente condivise, ma soltanto accettate da una maggioranza costituzionalmente legittimata ad imporle.

Quello di “bene” d’altra parte è concetto assai vago e indefinibile. Quello che io considero “bene” può non esserlo per te, e ammesso che lo sia per noi due potrebbe non esserlo per un terzo o un quarto. Ma anche per “felicità” le cose non vanno molto meglio. Se il fine dell’etica è la realizzazione della “maggior felicità possibile per il maggior numero possibile di persone” come sostenevano Hutcheson e Beccaria, si deve poi constatare come il concetto di felicità sia diverso da individuo a individuo che calchi questa valle di lacrime, nella quale tutti ad essa aspirano, ma dove ognuno se l’immagina in modo diverso.

Tuttavia, per entrare nel vivo del nostro problema bisogna ancora anche chiedersi in che cosa le aspirazioni di un ateo possano differire da quelle di un agnostico o di un laico. E da questa deriva un’altra domanda: può un’etica atea avere dei fini specifici o soltanto generali? Aboliti i concetti di “bene” e di “male” metafisici diventa difficile immaginarne altri altrettanto significativi. E quali potrebbero essere i moventi a cui riferirsi? Se la realizzazione del regno di Dio sulla terra in vista dell’aldilà è il fine di un’etica teista e se quella di una società “giusta”, senza classi e senza proprietà privata, è il fine di un’etica marxista, quale può essere l’obbiettivo ateo? Una risposta ovvia, immediata e semplicistica, potrebbe suonare così: “l’abolizione di ogni religione”. Ma anche questo obbiettivo è in fondo abbastanza vago, inoltre è già stato raggiunto con la forza e la sopraffazione l’ultima volta circa settant’anni fa senza che quell’etica antireligiosa abbia dato luogo a quella società “giusta” che si sperava.

Allora se ne deduce che bisogna lasciar perdere le esperienze del passato e pensare ad orizzonti nuovi e in ogni caso mai violenti. Molto probabilmente un’etica atea non potrebbe mai essere una “etica dei fini”. Infatti, perché ci siano dei “fini” è necessario che vengano posti del “valori” e l’ateismo nella sua già abbastanza lunga storia ha sempre cercato di mettere in mora ogni valore tradizionale, come falso feticcio ideologico di cui disfarsi. Allora i “nostri” valori, quelli che rimangono dopo il setaccio della ragione, non possono poi essere tanto diversi da quelli più generali del cosiddetto “laicismo” generico, il quale auspica, se non l’abolizione, almeno l’attenuazione dell’influenza religiosa sulla società civile. Oppure invece ha un senso particolare parlare di etica atea; e in questo caso: quale specificità può concernerla e giustificarne la formulazione e l’elaborazione?

Ciò che distingue l’ateismo in modo netto dall’agnosticismo e ancor più dal laicismo (che peraltro ammette la fede in Dio) è la radicale “negazione di Dio”, senza alcuna possibilità di revoca. Allora è da questo livello basilare che bisogna partire per chiedersi se l’ipotesi, e ancor più la formulazione di un’etica atea, abbiano un senso e vadano perseguite. Ora, che un senso ce l’abbiano sul piano individuale è fuori discussione, poiché la libertà totale da ogni ipostasi metafisica conferisce sul piano esistenziale un taglio antropologico di indubbia rilevanza per ogni singola persona. Ma passando al livello interpersonale e sociale, che cosa può significare la condivisione e la realizzazione di un’etica atea? Non è certamente l’abolizione della religione di per se stessa, visti i risultati abbastanza disastrosi in termini generali e specifici di tutti i regimi che hanno voluto realizzarla. Il punto di partenza, in una società multiideologica nella quale viga la reciproca tolleranza e nella quale ognuno possa realizzare se stesso ed i propri ideali senza compromettere quelli degli altri, quale può essere?

Nel contesto generale dell’ateismo, diciamo pure “in termini politici”, diverse spinte ideali alternative e talvolta opposte si confrontano e si scontrano e appare problematica e anche piuttosto disdicevole la realizzazione di una sintesi compromissoria, nella quale semmai finirebbe per prevalere il più forte, sia pure in termini “democratici” di maggioranza. Ma poi, data una maggioranza, perché una minoranza dovrebbe accettare dei principi che non condivide? In tale scenario contraddittorio un’etica atea può dire “la sua” soltanto automotivandosi in quanto “rifiuto dell’idea di Dio”, ponendo quindi il suo punto di vista con pari legittimità di quelli tradizionali e dominanti in termini che la possano “specificamente” concernere, che a mio parere sono esclusivamente quelli derivanti dalla “libertà metafisica”.

Su questa base e nel senso sopra esposto l’ateismo può rivendicare una specificità che probabilmente né il laicismo né l’agnosticismo possono vantare. Quello della libertà assoluta e totale, poiché la libertà metafisica deve essere considerata la madre di tutte le libertà. Allora sulla base di tale specificità un ateismo proprio e autentico può emergere solo nel riconoscimento in termini forti e teorici della “libertà”, con la massima ampiezza e al massimo livello possibile, partendo dal principio che ogni espressione ed esercizio di libertà da parte di un individuo non deve mai essere fonte di limitazione per la libertà degli altri. In altre parole: una comunità democratica e libertaria deve consentire ad ogni individuo di potersi autodeterminare nella vita e nella morte come meglio ritiene, purché ciò non risulti mai lesivo del diritto altrui di fare altrettanto o di realizzare se stesso in modo opposto.

Ne deriva che, ad esempio l’eutanasia, nella prospettiva dell’etica atea può diventare non solo un diritto del cittadino, ma un elemento di civiltà rispondente a un concetto di libertà incondizionata in uno scenario di tolleranza, dove ognuno è libero di credere a ipostasi metafisiche moralmente vincolanti, ma che deve consentire a chi le rifiuta, e ciò proprio per ragioni etiche, di poter contare sull’assistenza della struttura sociale nell’esercizio di un suo diritto, in un contesto libertario e democratico che ammetta ogni punto di vista e ogni suo contrario. In tale contesto penso anche alle coppie omosessuali che non dovrebbero subire nessun tipo di discriminazione nei confronti di quelle eterosessuali, e pertanto dovrebbero essere ammesse all’adozione di bambini orfani, qualora presentino sufficienti garanzie di offrire al minore un ambiente confacente ed armonico. Ed è ancora in una prospettiva pluralistica che l’ateismo potrebbe far sentire la propria voce relativamente a quel vero tabù ideologico che genera un ipocrita silenzio intorno all’argomento dei disastri umani e sociali provocati dall’incremento demografico in molte parti del pianeta. Poiché è evidente che (semplificando molto) se due poveri fanno otto figli i poveri quintuplicano in una generazione e che se di otto ne muoiono la metà (per fame e malattie) i poveri “comunque” triplicano in quello stesso tempo. Questo massacro permanente che i seguaci della lettera evangelica imputano ai soliti ricchi “cattivi ed egoisti” andrebbe forse razionalmente analizzato con pochi ed elementari criteri di laica aritmetica. In altre parole, senza forzare nessuno a farsi sterilizzare, deve essere però legittimo informare la gente con tutti i mezzi su tale possibilità, senza correre il rischio di venire tacciati di nazismo o condannati per vilipendio della religione.

Mi sono limitato a citare tre casi in cui un’etica specificamente atea, in un paese moderno e democratico, possa proporre dei modelli di condotta censurabili da parte di morali parziali e ideologiche, ma plausibili e accettabili da parte di una morale libertaria universale. Ritengo anche, per contro, che nella misura in cui la tolleranza deve essere, a mio parere, un elemento basilare dell’etica atea, vada evidenziato proprio da parte della comunità atea stessa quello sciocco e intollerante atteggiamento di alcuni atei, ancora legati ad un modo superato di testimoniare l’ateismo, che si abbandonano a comportamenti basati sull’intolleranza, sul disprezzo dei credenti, sull’irridenza e sulla stizza nei confronti di chi ha una fede. In tal caso questi atei mostrano di non essere diversi da coloro che disprezzano e irridono, rivelando un’intolleranza profondamente ottusa e in netto contrasto con quello stesso principio di libertà di “essere” e di “vivere” che l’ateismo dovrebbe promuovere per realizzare se stesso. In altre parole: va combattuta decisamente l’arroganza e il condizionamento sociale operato dalle strutture istituzionalizzate della religione, ma va rispettata la fede del credente quando i suoi comportamenti siano improntati a tolleranza e accettazione del diverso.

Se queste premesse sono valide allora un’etica atea può essere solo un’etica assolutamente “libertaria” e questa deve essere la doverosa premessa da porre alla base di ogni elaborazione e formulazione di essa. Soltanto in tali termini possiamo ritenerci autorizzati a censurare l’illiberalità della religione, ammettendo però anche che la millantata e “falsa” etica atea di un ateismo ideologico e totalitario ha potuto distruggere i suoi luoghi di culto e deportare molti suoi ministri in nome di un ateismo che ha negato se stesso nei termini della sua autenticità. L’ateismo è nato sulla libertà da ogni vincolo metafisico e si può realizzare soltanto nella libertà totale, esclusa soltanto quella di delinquere.

Allora bisogna che noi atei abbiamo il coraggio di rileggere il passato fino in fondo, togliendo i nostri scheletri dagli armadi e tagliando i ponti con esso ogni qual volta un’ideologia para-ateistica ha potuto generare le aberrazioni di un ateismo mistificato. Dobbiamo pertanto reinventarci un nuovo “modo d’essere” atei, tollerante e libertario, e proiettarci verso un futuro senza religione, ma anche senza ideologie antireligiose. L’ateismo o sarà in grado di elaborare e proporre una “sua” concezione del mondo o finirà ancora una volta emarginato in una sterile opposizione a ciò che da sempre (facendo il suo mestiere) “pre-fabbrica” le concezioni del mondo. E in questo processo verso un nuovo orizzonte, per il raggiungimento del quale l’ateismo può contare ereditariamente sul poco o sul nulla, se ci sono principi a cui riferirsi e a cui rispondere io ritengo che in prima fila si debbano porre quelli della tolleranza e della libertà.