La «laicità» (?) dell’ordinamento italiano davanti alla sfida del neo-giurisdizionalismo

di Carlo Fusaro, professore straordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico e Diritto Pubblico Comparato all’Università di Firenze.

Articolo tratto dal Forum della rivista Quaderni costituzionali, Mulino, Bologna

Ai numerosi amici che tanto (e giustamente) si sono appassionati al tema della presenza del crocifisso nei locali pubblici (solo la riforma del titolo V ha suscitato altrettanta partecipazione!) vorrei segnalare, perché facciano conoscere alla comunità di questo Forum la loro opinione, un’altra questione, a mio avviso destinata a mettere di nuovo a dura prova l’incerta e il più delle volte ambiguamente affermata laicità (c.d. pluralista) del nostro ordinamento.

Accade dunque che, mentre disputiamo dei simboli, altri operano su piani, come dire, più materialmente concreti: da un lato procede alla Camera (Comm. XII Affari sociali) l’esame in comitato ristretto dell’AC 388 (Volonté, Ccd/Cdu), volto a riconoscere la funzione sociale degli oratori parrocchiali (onde “restituire ad essi la funzione storica di presidio della sanità morale della nostra gioventù contro la disgregazione sociale e morale di questi tempi”, R. Buttiglione, v. relazione al progetto), dall’altro non meno alacremente la XI Comm. Lavoro pubblico e privato esamina una vera batteria di nove progetti di legge nove (uno del governo, l’AC 2480; tre di An; 2 della Margherita; uno a testa di Ds e Fi; uno, infine, della maggioranza An, Ccd/Cdu, Fi), tutti uniti nella lotta per istituire “il ruolo degli insegnanti di religione cattolica degli istituti e delle scuole di ogni ordine e grado” (spesa circa ¤ 20 milioni).

L’idea non è nuova. Ci sono stati precedenti, senza esito, nella XIII legi­slatura: del resto non c’è da sorprendersi, ché il cocktail sindacalismo corporativo con cupidigia di servilismo clericale produce un micidiale afflato bi-partisan, cui resistere non sarebbe facile neppure per i più determinati difensori del glorioso separatismo ottocentesco riassunto nel celebre principio “libera Chiesa in libero Stato” (chi ha mai detto che le idee di oggi sono più progressiste di quelle di ieri?): figuriamoci se non solo non si intende affatto resistere, bensì anzi assecondare, maggioranza e opposizione finalmente insieme!

Ma stiamo ai fatti. Dunque: secondo il Governo (AC 2480), i nostri 20 milioni di euro dovrebbero finanziare l’istituzione in ogni regione di due distinti ruoli emblematicamente “articolati per ambiti territoriali corrispondenti alle diocesi” (sic: del resto, siamo pratici!, è il vescovo che assume …); l’organico è fissato con decreto del Miur nella misura del 70% dei posti “complessivamente funzionanti”; sono previsti concorsi triennali su base regionale e i titoli di qualificazione professionale sono quelli stabiliti dall’Intesa Mpi-CEI resa esecutiva dal Dpr 16 dicembre 1985, n. 751 e successive modificazioni (in particolare il Dpr 23 giugno 1990, n. 202); ovviamente, i candidati devono anche essere in possesso del “riconoscimento di idoneità … rilasciato dall’ordinario diocesano competente per territorio …”; il concorso non si concluderebbe con una graduatoria, bensì con un elenco sulla base del quale “il dirigente regionale, d’intesa con l’ordinario diocesano competente per territorio” provvederebbe all’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato; una volta inserito nei ruoli [attenzione: a) in quanto vincitori di un concorso, fò per dire, cui si accede in quanto idonei per il vescovo; b) in quanto assunti d’intesa col medesimo vescovo di santa madre Chiesa], gli insegnanti così immessi potrebbero usufruire di tutte le norme in materia di mobilità professionale che l’ordinamento e i contratti collettivi prevedono, nonché delle procedure di mobilità collettiva (fuori del comparto scuola) ex art. 33 del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

Al lettore avvertito non ho bisogno di aggiungere che, of course, il primo concorso sarebbe riservato agli insegnanti di religione cattolica che abbiano avuto incarichi negli ultimi 4 anni (il programma “è volto unicamente all’accertamento della conoscenza dell’ordinamento scolastico, degli orientamenti didattici e pedagogici relativi agli ordini e ai gradi di scuola ai quali si riferisce il concorso e degli elementi essenziali della legislazione scolastica”). Né spenderò molto spazio per aggiungere pure che ciò, per alcuni, non basta: per coloro che sono già in servizio (sic), il descritto concorso pare pretesa eccessiva, e si chiede un semplice c.d. corso abilitante (v. il relatore, deputato Taglialatela, An).

Si deve sapere che da battistrada ha fatto (in un quadro giuridico parzialmente diverso per via del numero 5, lettera c. del Protocollo addizionale all’Accordo di revisione del Concordato, reso esecutivo dalla legge 25 marzo 1985, n. 121), la cattolicissima provincia autonoma di Trento con la sua L.P. 9 aprile 2001, n. 5. Questo testo si riconduce alla medesima ispirazione di quello governativo sopra descritto, con alcune differenze che lo rendono (è possibile!), ancora più criticabile: non vi è un tetto ai posti del nuovo ruolo organico; la commissione di concorso per la metà dei suoi componenti è a sua volta nominata d’intesa con l’Ordinario diocesano; anche i programmi delle prove concorsuali sono stabilite d’intesa con la medesima autorità ecclesiastica; e l’insegnante cui sono conferite funzioni ispettive è necessariamente scelto fra i docenti di religione cattolica, in quanto “ritenuto idoneo dall’Ordinario diocesano di Trento” per le relative mansioni; per coloro che hanno avuto incarichi di insegnamento della religione cattolica, l’inquadramento segue il solito concorso riservato, ma per soli titoli. Tutto il resto, disposizioni sulla mobilità incluse, è stato ripreso puntualmente dall’AC 2480 del Governo, già illustrato. A Trento, dunque, il vescovo concorre a fare le commissioni di concorso; concorre a stabilire il contenuto delle prove concorsuali; concorre a scegliere fra i vincitori di tali concorsi chi specificamente il sovrintendente scolastico deve assumere vuoi a tempo indeterminato, vuoi, come prima, a tempo determinato (per i posti non coperti); concorre, infine, a decidere a quale, s’intende fra i docenti in tal modo selezionati, affidabilissimo fra gli affidabili, il solerte sovrintendente dovrà affidare compiti ispettivi (estesi dalla legge, en passant, anche ai corsi della formazione professionale).

Di fronte a tendenze neogiurisdizionaliste così forti, segnalo che qualcuno, pur con totale disinteresse personale, sta cercando di apprestare una linea di resistenza: otto docenti dei ruoli della provincia di Trento, guidati da Vincenzo Bonmassar (segretario della Uil-scuola di Trento), hanno fatto domanda per il primo concorso della provincia per insegnanti di religione cattolica, pur privi, anzi: nella dichiarata consapevolezza di essere privi, dei requisiti previsti. Ne sono stati conseguentemente esclusi ed hanno ora presentato ricorso al Tar sez. Trento, al fine di sollevare eccezione di costituzionalità contro la L.P. n. 5/2001 di cui s’è detto.

Vedremo cosa farà il giudice amministrativo e se la difesa degli otto, affidata al fiorentino Corrado Mauceri, riuscirà a far sì che almeno uno dei vari profili in discussione possa essere ritenuto rilevante (sulla non manifesta infondatezza non vi dovrebbero essere incertezze, oso pensare) e quindi gli atti siano rinviati alla Corte, che avrà un’ennesima occasione per tornare sulle delicatissime questioni che coinvolgono gli irrisolti (e per certi versi, è mia ferma opinione, irresolubili) rapporti fra Stato e Chiesa (nella vigenza dell’art. 7 Cost. e del Concordato, per quanto consensualmente modificato: non poteva e non può essere solo questione di “foglie morte” di cui registrare la caduta …, per usare le parole di A.C. Jemolo, se mi si perdona l’impertinenza).

Aggiungo a questo rapportino, che vuol essere prima di tutto una segnalazione con conseguente appello a studiare e discutere la materia, alcune osservazioni, previo il consueto invito a uno sforzo di crociana distinzione fra ciò che attiene alla politica delle istituzioni e ciò che attiene, invece, al diritto costituzionale.

Sotto il primo profilo, che riguarda l’opportunità di una certa disciplina dello stato giuridico degli insegnanti di religione cattolica (dato e, naturalmente, non concesso che la religione cattolica debba essere insegnata nelle scuole della Repubblica e da insegnanti scelti con il concorso determinante delle autorità della Chiesa; in altre parole, facendo conto di mettere da parte la normativa di derivazione bilaterale), il legislatore, a me pare, può ben decidere fra la soluzione degli incarichi annuali e quella degli incarichi a tempo indeterminato: sin qui è stata preferita la prima soluzione che parrebbe la più razionale in quanto più conforme al principio di piena facoltatività dell’insegnamento di cui si tratta. Ogni anno famiglie e giovani possono liberamente scegliere “se avvalersi o no”: e l’esperienza insegna che da un anno all’altro, da una classe all’altra, da una città all’altra vi sono differenze clamorose nelle scelte che vengono compiute. Se dunque esiste nell’intera scuola italiana dalle materne alle superiori un insegnamento che sarebbe opportuno rimanesse affidato a incaricati annuali, è proprio questo: del resto anche nel comparto scuola i rapporti di lavoro a tempo determinato non sono più l’eccezione (v. art. 36 comma 4 D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 e gli stessi CCNL successivi). Ciò tanto più dal momento che le norme bilaterali di cui s’è detto prevedono la facoltà da parte delle autorità della Chiesa di “revocare l’idoneità”. Per cui la situazione è questa: da un lato nessuno sa, se non a iscrizioni concluse, quanti e dove sono i discenti, dall’altro nessuno sa quali sono i docenti! Irrigidire la prestazione di questo tipo di insegnamento nei vincoli di rapporti a tempo indeterminato appare un evidente errore e una contraddizione (che potrebbero assumere rilevanza anche giuridica ex art. 97 Cost.).

Sotto il secondo profilo, quello strettamente giuridico, le problematiche che emergono a fronte dell’intenzione di optare per la soluzione del tempo determinato (ovvero del ruolo organico, anche se i contratti a ruolo non fanno più riferimento) sono una serie. Mi limito a rapidi cenni:

  1. date le modalità di selezione, di assunzione ed anche di (teorica) risoluzione del rapporto di lavoro, un’assoluta identità di status fra gli insegnanti dell’eventuale ruolo degli insegnanti di religione e degli altri semplicemente non è possibile; l’insegnamento della religione cattolica ha, comunque, caratteristiche oggettivamente e soggettivamente atipiche; e infatti la Corte costituzionale ha già detto che uno status differenziato non può ritenersi né arbitrario né palesemente irragionevole (sent. 390/1999);
  2. ciò significa che, come la Corte costituzionale ha stabilito nella stessa sentenza, nessuna norma costituzionale può essere invocata per sostenere un obbligo a garantire il medesimo stato giuridico degli altri agli insegnanti di religione cattolica;
  3. l’invocato e citatissimo riferimento contenuto nell’Intesa del 1985, il quale affermava “l’intento dello Stato di dare una nuova disciplina dello stato giuridico degli insegnanti di religione”, non comporta in alcun modo un impegno o un’implicita promessa, appunto, al medesimo stato giuridico degli altri insegnanti;
  4. è dubbio, per dire poco, che, posto che si voglia comunque battere la strada dell’immissione in ruolo, ciò possa essere subordinato al possesso di requisiti in diretto contrasto col principio di laicità dello Stato e anche col principio di libertà dell’insegnamento (anche se si possono immaginare requisiti in parte diversi rispetto a quelli degli altri insegnanti, per le ragioni già dette);
  5. soprattutto, la previsione di un ruolo specifico appare difficilmente conciliabile con l’applicazione delle norme vigenti in materia di mobilità professionale e di mobilità collettiva all’intero della scuola e delle pubbliche amministrazioni. È questo sotto il profilo giuridico, a me pare, uno dei punti cruciali. Infatti se si ammette (ed anzi si prevede) che l’insegnante di religione cattolica, selezionato ed assunto secondo le modalità del tutto peculiari e di per sé di dubbia legittimità di cui s’è detto, possa transitare ad altra funzione dentro e fuori della scuola, ecco che si finisce col configurare una discriminazione nell’accesso al pubblico impiego per motivi di religione che non sembra facilmente compatibile con l’art. 3 Cost. Si pensi al caso della revoca dell’idoneità: se questa comporta il passaggio ad altri insegnamenti ecco che si introduce surrettiziamente un canale di reclutamento per tutti gli insegnamenti cui possono accedere coloro che insegnanti a tempo indeterminato sono divenuti anche, e necessariamente, in ragione del beneplacito delle autorità ecclesiastiche: il che non possono fare tutti gli altri insegnanti che accedono al ruolo solo con le forme di reclutamento “ordinarie”;
  6. per chiudere, non si vede come sia possibile, per dirla volgarmente, avere legittimamente botte piena e coniuge ubriaco: come sia possibile, cioè, assumere nei ruoli pubblici per volontà della Chiesa cattolica (altro non vuol dire il meccanismo dell’idoneità, per di più revocabile, + intesa) e al tempo stesso pretendere di salvaguardare il principio in base al quale l’appartenenza ad una confessione religiosa non può determinare situazioni di vantaggio o di svantaggio nei rapporti con la pubblica amministrazione.

Segnalo in ultimo che la deriva giurisdizionalista rischia di non incontrare, a ben vedere, neppure il favore delle autorità ecclesiastiche (il che mi fa pensare che, nel caso di cui discutiamo, la motivazione corporativa faccia aggio su quella clericale): può costituire, infatti, un’arma a doppio taglio. Lo dimostra la sent. 16 novembre 2000, n. 6133 della sez. VI del Consiglio di Stato che sembra trarre le conseguenze ultime di quella deriva della quale dicevo. Avendo infatti il Tar Abruzzo sez. Pescara annullato la mancata conferma di un’insegnante di religione a seguito della revoca dell’idoneità da parte della Curia vescovile, in quanto tale revoca sarebbe stata “contraddittoria e, comunque, immotivata”, il supremo giudice amministrativo ha ritenuto di confermare la decisione di primo grado, definendo il conferimento (e la revoca) dell’idoneità da parte del vescovo “atto endoprocedimentale finalizzato all’emissione dell’atto di nomina”: onde per cui, l’«esercizio del potere di emettere il giudizio di idoneità da parte dell’Autorità ecclesiastica e del correlativo potere di revoca non può essere sottratto … ad un riscontro del corretto esercizio del potere secondo criteri di ‘ragionevolezza e non arbitrarietà’». Dunque, le nostre corti non paghe di bloccare l’aviazione militare, promettono di occuparsi ed anzi, hanno cominciato ad occuparsi, degli straripamenti di potere delle autorità ecclesiastiche (rebus sic stantibus) cattoliche. Conclusione ineccepibile, per certi aspetti, visto la confusione fra amministrazione e Chiesa: ma quanta nostalgia per il principio cavourriano e il saggio separatismo di 150 anni fa (che tornerebbe comodo, oltretutto, oggi più di ieri: ma di questo potremo riparlare).