«Fra uccidere e morire c’è una terza via, vivere»

Christa Wolf

di Marco Accorti

Se nella consuetudine confessionale le opzioni per andare all’altro loro mondo vanno “scelte”, si fa per dire, fra l’uccidere e il morire, non è detto però che non esista anche un’alternativa dignitosa per continuare a vivere consapevolmente fino all’ultimo. Ovvero vivere la propria dipartita come un momento vitale. L’eutanasia è appunto la rivendicazione del diritto all’autodeterminazione o, in altri termini, di continuare a rendersi responsabili fino alla fine e quindi di “morire da vivi”. Il tema è ostico, antipatico, percepito come jettatorio, difficile da affrontare nella quotidianità, ma riaffiora regolarmente nei momenti drammatici quando chi c’è caro viene preso dal gorgo della degenerazione psicofisica. Solo allora riusciamo a specchiarci in quella prospettiva di tragicità che il futuro ci può riservare e solo allora riusciamo a profferire un disperato quanto convinto “io no!”.

Ma poi tutto finisce. Così, placata la disperazione, scompaiono anche i nostri migliori propositi e si torna al malcostume dell’omissione e dell’ipocrisia, ovvero al confessionalismo corrente del “si fa, o si vorrebbe fare, ma non si dice”, come ad esempio con l’aborto. Piissime nonne non diverse dalla mia, madri “coniglie” solo per l’ingente quantità di prole prodotta ma non certo per il coraggio mostrato, alla domanda “Ma come hai fatto ha rallevarne tanti?”, rispondevano fra il candido e il putibondo “Per fortuna, m’ha aiutato la bara”. In questa formula era sottintesa una ridotta sopravvivenza degli infanti non solo per la frequente mortalità perinatale inizio secolo, ma spesso e volentieri per il successo di pratiche abortive in bilico fra il truculento, il magico e l’alchemico. Mia nonna, donnina di mitezza esasperante, non ricorse mai ai ferri da calza, ma vivendo sull’Amiata fruiva di pozioni a base del mercurio che là si estraeva. Per l’eutanasia non è mai stato diverso.

“Che i tabù siano indotti da una educazione credina che impedisce poi di ragionare, di capire come stanno i fatti, mi è stato ribadito quando ho sentito raccontare con rispetto ed ammirazione, da vecchi (bigotti) cattolici di un paesetto delle Dolomiti, della levatrice del luogo tra le due guerre. Costei, quando […] cominciava la parte finale del parto, imponeva a tutti di uscire […] così se il bambino era veramente e gravemente deforme o menomato si poteva accordare con la madre e decidere se soffocare il bambino e fingere che la morte fosse stata naturale. Non osavano parlare apertamente, ma ammiccando e gesticolando facevano capire quello che succedeva; tutti sapevano, tutti erano d’accordo, ma non riuscivano neanche a dirlo e sono sicuro che se si facesse un referendum voterebbero contro l’eutanasia” (Giorgio Villella 8/10/2001).

Perché dunque, visto che siamo deperibili e che abbiamo tutti una data di scadenza, peraltro illeggibile, non affrontare il problema per tempo? Nacque da queste riflessioni il tentativo di proporre il tema dell’eutanasia proprio un anno fa su queste pagine (3/2000). Chissà come l’avrebbero affrontato gli “uaariani”. Bè, solo nell’ultimo numero (3/2001) c’è stato un ritorno, ma come proposta a che si aprisse la discussione su un argomento già contenuto nelle tesi dell’UAAR. Tuttavia, all’apparente “vacanza” d’interesse dei lettori, ha fatto riscontro un notevole concorso dei frequentatori della mailing list , emanazione dell’UAAR, ma aperta anche ai non iscritti. In 12 mesi i 225 iscritti alla mailing list si sono scambiati 7380 messaggi e il tema dell’eutanasia, lanciato in rete, ne ha indotti 33, per la quasi totalità soci UAAR, ad inviarne oltre 300. In verità non tutti gli interventi sono risultati necessariamente congruenti, ma tutti in qualche modo erano collegati o derivati dallo stesso tema, e sicuramente centrati in almeno un centinaio di scambi.

Dunque un argomento ben accetto che ha permesso un facile dialogo? Bè, questo è un altro discorso. Decontestualizzando, ignorando la sequenza temporale, cercando comunque di non tradire il pensiero dei partecipanti, peraltro non tutti qui presenti anche per ragioni di spazio, cercherò di ricostruire un anno di “chiacchiere”. Per la verità anche sulla mailing list, almeno all’inizio, c’è voluto del “bello e del buono” per far uscire allo scoperto i vari interlocutori. Infatti, alla lagnanza per la mancanza di risposte al mio primo messaggio c’è stato chi ha espresso rassegnata fiducia “Credo che il tema eutanasia stia crescendo in tutti, ma senza aver ancora superato la soglia di emergenza […] Diamo tempo al tempo” (Giancarlo Sensalari 30/11/00), o remore profonde “Alcuni temi […] cerchiamo di rimuoverli per paura […] paura sempre procurata dall’educazione ricevuta. Il terrore della morte, l’eventuale incognita del dopo, il dolore, l’anima o qualcosa di simile che molti ritengono di avere, l’eredità (la casa a chi la lascio?), chi darà da mangiare al mio gatto, e così via, fanno della nostra vita e della nostra morte solo un gran dramma” (Baldo Conti 1/12/2000).

altri, forse la maggioranza, si sono adeguati al costume corrente delle mailing list, per cui usualmente si interviene solo in caso di dissenso o di distinguo, altrimenti vige una sorta di “silenzio assenso”. “Ti faccio presente che non è obbligatorio rispondere a nessuno su una ML” (Rossano Casagli 15/12/2000).

Ma il mancato pronunciamento può nascondere la difficoltà a sviluppare ulteriormente il tema “Se non riprendiamo i tuoi messaggi sul tema dell’Eutanasia, è solo perché abbiamo ben poco da aggiungere a ciò che scrivi e soprattutto, probabilmente quasi nessuno ha proprio niente da criticare” (Prometheus 9/10/01), oppure un ridotto interesse “Non hai ricevuto risposta ad un tuo intervento? […] non potrebbe essere semplicemente che tutti sono (a) abbastanza d’accordo con te (b) non gliene importa molto, le due cose potendo essere entrambe vere?” (Boris Marcone 30/11/00). In realtà, come accade sempre sulle liste (e nella vita), esiste anche una terza realtà: il silenzio. Un silenzio che non è né assenso, né disinteresse, né dissenso, ma dissimulazione, riflessione, attenzione, pudore e, non ultimo, voyeurismo. Comunque tutti coloro che si sono espressi hanno rivendicato il diritto all’autodeterminazione e l’eutanasia non è mai stata messa in discussione.

“Pensare si deve su tutto, anche sulla morte. Ma, se si vuol essere ragionevoli, bisogna farlo con cautela e senso critico” (Fresco 17/2/01). E la cautela non è mai mancata a nessuno come del resto il senso critico da cui sono scaturiti “distinguo” e “differenze” per il modo di interpretare e di collocare la scelta di andarsene in modo consapevole. Ad una lucida accettazione del tema impostata sulla rivendicazione della propria individualità “Ben venga il dibattito sul diritto a non essere ostacolati dallo stato se si vuole uscire in punta di piedi” (Fresco 17/12/00), o sul piano del rispetto degli altri “Ho sempre pensato che l’eutanasia sia una questione di civiltà, esattamente come l’abolizione della pena di morte (Sabrina Zucca 30/11/00), come anche “Sono completamente a favore della legalizzazione dell’eutanasia, anche ‘attiva’ […] e considero la decisione olandese come un (ennesimo) segno di civiltà” (Giuseppe Murante 30/11/00), sono però seguite anche adesioni più o meno viscerali “Ritengo che l’eutanasia sia un atto d’amore” (Domi 11/12/00), o eticamente problematiche “Prima del diritto ad un exitus decoroso dovremmo pretendere il diritto ad una vita decorosa” (Piero Speziali 16/10/01). nessuno, comunque, che rifiutasse l’eutanasia.

“Credo che prima si debba essere tutti d’accordo sul principio […] sul come garantirla, se ne discute poi […] prima si fissano gli obiettivi, poi si vede come raggiungerli” (B. Marcone 1/12/00) e l’obiettivo prioritario è l’autodeterminazione. Per tutti. Per cui la scelta dell’eutanasia “La ritengo sacrosanta in quanto considero inviolabile il diritto alla autodeterminazione dell’individuo, o quantomeno non violabile da parte dei “diritto” della societa’ ad imporre le proprie scelte sulle scelte ultime del singolo” (R. Casagli 9/12/00), ma viene anche percepito come un obiettivo “politico”, nonché “filosofico” “Visto che noi AAR sappiamo che questa vita, per scarsa che sia, è l’unica che abbiamo, […] dovremmo proprio essere noi a portare questa tematica all’ordine del giorno […] come ariete per far penetrare il concetto di qualità della vita nella mentalità collettiva […] la desacralizzazione della vita dovrebbe essere una nostra meta (Luca Bergamasco 16/10/2001).

un obiettivo indiscusso incentrato sulla riappropriazione del “sé” e teso a rivendicare il valore della “qualità della vita”, peraltro contestato solo sul piano esistenziale “Non vedo la mia morte come uno dei momenti della mia vita ma […] come la fine di tutto quello che rappresenta la mia vita per me e per chi mi vuol bene […] che importa la quando è morte” (P. Speziali 16/10/01). “Distinguo” meno sfumati compaiono quando la discussione affronta il “come” raggiungere gli obiettivi prefissati “Perché un cittadino dovrebbe chiedere ai suoi governanti di fargli una legge per e non invece pretendere una tutela vera della ?” (P. Speziali 13/10/01). Per prima cosa perché no? “Innanzitutto, una cosa non esclude l’altra; secondo: per vivere una […] è importante avere la possibilità di vivere anche una ” (Giovanni Soriano 14/10/01). In secondo luogo perché mai dovremmo aspirare ad una regolamentazione? “Ciò che oggi proibisce l’eutanasia sono proprio le leggi dello Stato: se vogliamo dunque che l’eutanasia sia ammessa, dobbiamo cambiare le leggi dello Stato” (Luca Bergamasco 16/10/2001).

Ma come cambiarle?

“Per me ci possono essere due vie complementari percorribili: una è quella della depenalizzazione […] (l’altra) un po’ come per l’aborto, lo si consente per certi motivi e in un determinato lasso di tempo ecc.” (Adriano Pacifici 17/10/01). E per quanto si possa rivendicare un principio d’assoluta privatezza dell’atto “Io penso […] che un agnostico e/o ateo possa accettare una legge sulla eutanasia solo se […] reciti: ” (P. Speziali 30/11/00) è anche evidente che “Ci vogliono leggi che regolamentino l’eutanasia, così come la libertà di morire deve inserirsi in un sistema legislativo che nel comprenderla la connetta a tutte le altre” (Carlo Tamagnone 19/10/01). Ma ritorna un problema più volte emerso lungo tutto il dibattito. Come uscirne? Con quali modalità? Qui riemergono due diverse obiezioni di fondo. Da un lato l’assimilazione o meno dell’eutanasia ad una forma di vero e proprio suicidio (e qui si pone il problema di come collocare l’atto), dall’altro il ricorso a modalità pratiche ed a adeguati “strumenti tecnici”. Con un “fai da te”? Aiutati o meglio tutelati da “altri”? E chi dovrebbero o potrebbero essere questi “altri”? Dunque un problema squisitamente etico ed uno apparentemente pratico, ma non certo privo di risvolti etici.

Veniamo dunque al primo punto e, tornando sui nostri passi, completiamo l’enunciazione da cui siamo partiti. Ricordate? “Ben venga il dibattito sul diritto a non essere ostacolati dallo Stato se si = Eutanasia, Suicidio e Suicidio Assistito per chi lo voglia e sia impossibilitato a farlo” (Fresco 17/12/00). Qui sarebbe necessario entrare in merito alla specifica dei termini, perché eutanasia e suicidio, pur con varie aggettivazioni, tornano fin troppo spesso in un coacervo di confuse interpretazioni, anche se da tutti ritenute scelte individuali e quindi avulse da una qualsiasi forma di “controllo” esterno “Io non voglio che i governanti s’impiccino dei miei problemi privati, io voglio solo che rispettino la mia libertà di vivere e di morire” (C. Tamagnone 15/10/01), ma basta un po’ di senso della realtà per rendersi conto della necessità di un intervento legislativo “Resto nel dubbio sulla opportunità di mettere sullo stesso piano il suicidio ed il perché veramente non credo che ci potrà mai essere una maggioranza parlamentare che approvi una legge che regolamenti il suicidio mentre mi auguro che gli sforzi degli amici di Exit possano produrre un qualche risultato” (P. Speziali 19/12/2000).

Tuttavia oggi l’ostacolo maggiore deriva dalla normativa che se non punisce il suicida (ovviamente) persegue però chi lo aiuta e quindi da più parti si punta alla depenalizzazione “Indubbiamente, anche per aggirare l’attuale normativa del concorso in omicidio, credo che la strada battuta sarebbe questa” (R. Casagli 12/12/00) e non a caso questo aspetto è presente sia nella bozza di legge redatta da Exit-Italia, sia nel documento della Consulta di Bioetica. Ma qui si torna alla seconda obiezione di fondo: il ruolo del medico. Infatti, come in tutte le legislazioni mondiali, è previsto il coinvolgimento del medico, anzi di più medici quali attuatori o comunque responsabili a vario livello: dalla prescrizione del farmaco fino alla sua somministrazione.

Dunque, i medici. Ma la cosa non è “indolore”. Fra “desiderata” “La soluzione dovrebbe/potrebbe consistere […] non tanto e non solo nella depenalizzazione del ma nel consentire all’individuo interessato di eseguirlo permettendogli l’accesso ai mezzi idonei allo scopo, secondo la sua insindacabile scelta, lasciando in secondo piano giudici e medici” (P. Speziali 9/12/00) e “distinguo” “Sì all’eutanasia ma con responsabilità personali, e non delegate forzatamente o per legge ai medici e al personale sanitario” (Domi 11/12/00), c’è però anche chi va giù in modo viscerale e meno mediato “Indigna la pretesa di delegare a noi medici ed infermieri un’azione traumatizzante che solo l’amore e non il dovere professionale può sublimare” (Mario Ruffin 11/12/00) da cui discende la mancanza di concretezza della proposta “Laureate all’uopo dei missionari (ed i neo dottori in “scienze” infermieristiche) specializzati operatori di suicidi ma lasciate stare i medici a mirare alla salute e basta” (M. Ruffin 8/12/00). Infatti, un medico, ammesso e non concesso fosse disponibile, dovrebbe sempre fare i conti anche con il codice deontologico “Riducendo al privato più segreto questa estrema e fatale decisione, si eviterebbero anche ai tecnici della salute atteggiamenti e scelte contrarie al giuramento professionale” (P. Speziali 30/11/00), per cui si rende indispensabile ricorrere ad una legge che comunque lascerebbe sempre spazio all’obiezione di coscienza “Una legalizzazione […] scavalcherebbe […] il codice deontologico dei medici [ma] vi saranno sempre medici che si rifiuteranno per scelta etica di appoggiare l’eutanasia” (R. Casagli 7/12/2000).

Infine una legge sarebbe la prima garanzia contro “La possibilità di ” (Giuseppe Murante 30/11/00). Ma l’eutanasia interessa solo gli “uaariani”? Bé la chiesa valdese così si è espressa “Il medico che si rende disponibile al suicidio assistito o all’eutanasia non commette un crimine, non viola alcuna legge divina, compie un gesto umano, di profondo rispetto, a difesa di quella vita che ha un nome e una storia di relazioni” (S. Zucca 30/11/00). E i cattolici? “A proposito d’eutanasia […] una delle maggiori obiezioni della chiesa […] tratta di un atto che interferisce con la naturale fine della vita, così come l’aborto interferisce con l’inizio, e che in tale modo si ostacola la volontà di dio” (Luisa Bonifacio 30/11/00). Dunque assoluta preclusione. Non a caso, appena si presenta l’occasione, i chierici si mobilitano, anche in occasioni sostanzialmente futili come durante un recente sondaggio sull’eutanasia promosso in rete dal Corriere della Sera “Ho dato un’occhiata a tutti i siti cattolici […] si sono scatenati con appelli continui da un gruppo all’altro per far votare in questo sondaggio” (Valceg. 21/12/2000), ma il risultato non premia tanto zelo: Favorevoli 55% - Contrari 44% (Claudio Tullii 22/12/00).

La rete, come del resto la società, è meno “credina” di quanto sembri. E se non la si può certamente definire “laica”, sicuramente pragmatica lo è. Per la cronaca anche sondaggi “casalinghi”, condotti in occasione di incontri conviviali, danno risultati analoghi “Molti dicono di essere credenti, ma a domande specifiche risultano essere: alcuni favorevoli all’aborto, altri all’eutanasia, altri alla pena di morte” (Claudio Valgimigli 13/10/01) e non si creda che siano balle. Se, infatti, ci affacciamo a chi i sondaggi li fa seriamente, si ha la piena conferma di quanto questa “facezia” sia solo apparente.

Nel 1988 la SWG ne condusse uno da cui si deduceva che “… Il 53% degli italiani era contrario al cosiddetto , e 6 intervistati su 10 ritenevano che una decisione individuale, in circostanze estreme, potesse essere una soluzione accettabile”. Nel 2000 Altroconsumo rende pubblica un’indagine a livello europeo: “Se includiamo le risposte incerte (“probabilmente sì”), vediamo che la percentuale degli italiani che si dicono a favore (55%) è decisamente più alta di quella che si registra tra i medici […] Il 31% [dei quali] si dichiara favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia attiva”. Dunque delle due: o l’Italia è un paese “uaariano” al 55%, e questo non ci potrebbe che far piacere, oppure, più realisticamente, ancor una volta si dimostra che con la discussione si può incrinare anche l’integralismo più gretto. Del resto non sarebbe una novità “Quando […] passò la legge sull’aborto, i clericali fecero fare un referendum abrogativo […] sapevano di essere in larga maggioranza, ma non sapevano che le discussioni accese durante la campagna elettorale, avrebbero aperto gli occhi a tante persone!” (G. Villella 8/10/01). Ecco l’importanza di discutere i problemi per farli riaffiorare dal rimosso collettivo. Insomma, siamo alle solite: “Conoscere per deliberare”. Perché scegliere, anche scegliere di morire, rende più liberi di vivere.