Lesione di diritti umani fondamentali da parte del Concordato

A proposito del caso “Lombardi Vallauri - Università Cattolica”, di Luigi Lombardi Vallauri, Firenze

1. Breve storia dei fatti

Con sentenza pubblicata il 26 ottobre 2001, il Tribunale Regionale Amministrativo (TAR) per la Lombardia, sede di Milano, ha respinto il ricorso da me presentato contro l’Università Cattolica del Sacro Cuore (UC) e ha accolto in pieno le tesi della parte avversa: dando - come vedremo - un colpo grave sia alla libertà di ricerca e di insegnamento, sia ad altri fondamentali principi giuridici, tra i quali segnatamente quelli che definiscono il giusto/corretto processo (fair hearing) o diritto naturale procedurale. Se la sentenza ha ragione, viene anche lesa dal diritto italiano - ritengo - l’essenza stessa dell’università come istituto autonomo di alta cultura. Illustro anzitutto, quasi telegraficamente, i fatti, per poi passare alle valutazioni.

Dal 1976 al 1997 ho tenuto l’insegnamento di filosofia del diritto nella Facoltà di giurisprudenza dell’UC, prima per incarico, poi a contratto, sulla base di bandi di concorso annualmente rinnovati. Conservavo, nel frattempo, la cattedra di professore ordinario della stessa materia nell’Università di Firenze, alla quale ero stato chiamato nel 1970. È chiaro che la filosofia del diritto è materia culturalmente “scottante” e problematica, avendo il diritto a che fare con tutti i maggiori dilemmi della coscienza etica e politica collettiva; dilemmi che i giuristi positivi, mantenendosi sul piano dell’interpretazione delle leggi, possono in qualche misura (mai completamente) lasciare al legislatore, mentre il filosofo deve affrontarli in prima persona.

Alcuni almeno di questi dilemmi coinvolgono anche dimensioni “ultime” sulle quali hanno preso posizione le religioni storiche. Il filosofo del diritto non può quindi non farsi in qualche misura anche teologo, se vuole capire i presupposti teorici di interventi de iure condendo così massicci e influenti come quelli della gerarchia ecclesiastica, che aprono l’increscioso vallo tra “laici” e cattolici in Italia. Nel mio caso la competenza teologica era, per motivi familiari e biografici, particolarmente sviluppata.

Fino al 1991 ho avuto il pieno gradimento dell’UC. Nel 1991 è uscito, in tedesco e in inglese, un grosso studio sulla concezione cattolica della giustizia, che ampliava la relazione sullo stesso tema da me tenuta quell’anno al congresso mondiale dell’Associazione internazionale di filosofia giuridica e sociale a Gottingen. Lo studio era estremamente critico, e il rettore Bausola vietò la pubblicazione dell’originale italiano sulla rivista Jus dell’UC. Altri miei studi successivi sul cattolicesimo (oggi raccolti nella Parte I del mio volume Nera Luce, Firenze, Le Lettere, 2001) inquietarono ulteriormente le autorità ecclesiastiche e accademiche cattoliche, finché nel 1997 il cardinale Pio Laghi (già nunzio in Argentina al tempo dei desaparecidos) invitò, in qualità di “ministro della Pubblica Istruzione” della Chiesa e con l’appoggio del card. Ruini, l’UC a spostare il corso di filosofia del diritto all’anno successivo, sebbene ci fosse già il bando e io come tutte le altre volte avessi fatto domanda. Lo spostamento doveva servire a guadagnare un anno per istituire un “processo” teologico sull’ortodossia del mio pensiero.

Durante l’anno accademico 1997/98 gli studenti dell’UC chiesero ripetutamente alle autorità accademiche che venisse organizzato un pubblico dibattito tra me e un rappresentante dell’università; ogni incontro con me fu vietato. Nel frattempo il “processo” veniva svolto da giudici ecclesiastici ignoti. Nell’autunno 1998 la “sentenza” mi fu comunicata da un ecclesiastico in un convento sul Gianicolo senza consegnarmi alcun testo scritto, senza consentirmi di prendere appunti e senza, ovviamente, che ci fosse spazio e tempo per un pubblico contraddittorio.

Subito prima dell’inizio dell’anno accademico 1998/99, il rettore comunicò al preside della Facoltà di giurisprudenza (cito dal verbale del Consiglio di facoltà) che la Congregazione vaticana presieduta da Laghi “dopo avere rilevato che alcune posizioni del Lombardi Vallauri sono in netto contrasto con la dottrina Cattolica” riteneva che “per il rispetto della verità, il bene degli studenti e della stessa Università Cattolica del Sacro Cuore, il prof. Luigi Lombardi Vallauri non debba continuare a insegnare nella Università”.

Nel Consiglio di facoltà un professore propose che venisse chiesto alla Congregazione “di voler indicare le ragioni del provvedimento assunto nei confronti del prof. Lombardi Vallauri”. Dopo discussione, la proposta fu messa ai voti con i seguenti risultati: favorevoli 10, contrari 12, astenuto 1. Così, di stretta misura, fu accettato da una illustre Facoltà giuridica italiana un provvedimento preso in base a un “processo” invisibile e privo di motivazione (tale non può certo essere l’addebito genericissimo del “contrasto con la dottrina Cattolica”: sarebbe come condannare qualcuno per un comportamento “in netto contrasto con il codice penale”).

La Facoltà esprimeva unanime rammarico per l’obbligata rinuncia, dopo venti anni, al mio insegnamento, dando pubblicamente atto della sua qualità didattica, scientifica e culturale.

2. I valori in gioco. Giustizia procedurale, scientificità, libertà

Dal punto di vista giuridico positivo, il provvedimento dell’UC appare estremamente discutibile. Come ho già accennato, i principi più gravemente lesi sono quelli della libertà di ricerca e di insegnamento e quelli del giusto/corretto processo. La libertà di pensiero e di manifestazione del pensiero è uno dei diritti fondamentali della persona umana, il cui pieno sviluppo è il fine supremo dell’organizzazione politica e giuridica (Costituzione italiana, art. 3, 2° comma). Da questo diritto fondamentale discende la libertà di insegnamento, specificamente sancita dall’art. 33 della Costituzione. Sembrerebbe ovvio, a prima vista, che soggetti della libertà di pensiero fossero i cittadini pensanti e soggetti della libertà di insegnamento gli insegnanti. Vedremo che le cose non sono così semplici. Il giusto/corretto processo è un altro dei diritti fondamentali della persona umana. È solennemente affermato - e determinato nei dettagli - da norme quali gli artt. 24 e 25 della Costituzione italiana, il grande art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, l’altrettanto completo e impegnativo art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: tutti testi che fanno parte a pieno titolo, e con status di prevalenza sulle leggi ordinarie difformi, del diritto italiano positivo giurisdizionalmente vincolante. Manca lo spazio per citarli; basterà dire che una procedura come quella che ha portato al ritiro del cosiddetto gradimento da parte della Santa Sede, e conseguentemente alla mia esclusione dal concorso del 1998, è un simulacro di processo, che non rispetta nemmeno uno dei principi sanciti dai testi sopra menzionati. Lo stesso vale di tutti i “processi” in base ai quali viene ritirato dal vescovo locale il nulla osta a uno dei circa ventimila insegnanti di religione cattolica nelle scuole pubbliche pagati dallo Stato italiano.

Il ricorso da me presentato contro il provvedimento dell’UC metteva in primo piano proprio gli aspetti di ingiustizia/scorrettezza procedurale (non-pubblicità, mancanza della difesa e del contraddittorio, assenza di motivazione), aspetti che potevano, con qualche semplificazione, riassumersi nel concetto di abuso di potere. Giuridicamente sono aspetti rilevantissimi. Ma io non intendo qui entrare nei dettagli. Dico solo che il fatto che la scorrettezza riguardi l’atto di un ordinamento straniero, non esime la magistratura italiana dal sindacarlo quando la scorrettezza comporti la lesione di diritti umani fondamentali. Se è così, recepire nel nostro ordinamento, con effetti lesivi di interessi di un cittadino italiano, un simile atto, come ha fatto il Consiglio di facoltà dell’UC, configura un comportamento non sottratto alla giurisdizione della magistratura italiana. Il fatto che, in base al Concordato, il rapporto lavorativo di migliaia di cittadini italiani (e segnatamente dei docenti delle università cattoliche) dipenda da atti di un ordinamento straniero proceduralmente lesivi di diritti umani fondamentali, è uno dei punti dolenti che esigono una revisione del Concordato.

Ancora più rilevanti dal punto di vista culturale generale sono gli aspetti concernenti la libertà di ricerca e di insegnamento. Su di essi è già intervenuto benissimo Mario Jori con un articolo del Sole 24 Ore (17.1.1999) apparso anche, in forma ampliata, in Politeia 52, 1998, intervento che mi sembra, sul suo piano, inconfutabile e definitivo. Chi voglia documentarsi maggiormente può ricorrere anche al numero 53 di Politeia (1999) che contiene una serie importante di interventi Sulla libertà di insegnamento in Italia curata da Emilio D’Orazio. Per quanto riguarda più da vicino l’istituzione universitaria, il mio parere è semplice. Almeno nell’università come istituto autonomo di ricerca e di alta cultura, le idee vanno affrontate con idee e non con misure amministrative. Io avevo offerto all’UC di pubblicare i miei scritti corredati di interventi critici di teologi; io avrei replicato brevemente; alla controreplica dei teologi sarebbe rimasta l’ultima parola. Se l’offerta fosse stata accettata, mi sarei dichiarato soddisfatto. Ma la discussione è stata sostituita dal provvedimento unilaterale ben noto. Immaginiamo tuttavia che il confronto di idee fosse stato accettato e che i miei scritti fossero risultati effettivamente in contrasto con punti precisi della dottrina cattolica. Era, in questa ipotesi, conforme alla libertà di ricerca e di insegnamento e all’essenza stessa dell’istituzione universitaria “espellermi”? Io penso di no.

Infatti - prima sottoipotesi - poteva darsi che le mie critiche colpissero punti della dottrina cattolica chiaramente insostenibili, ma “in qualche modo” rinunciabili. Questo è successo decine di volte nella storia e appartiene al progresso teologico. La Chiesa organismo ha dovuto e “saputo” - con falsificazioni e acrobazie interpretative, con abili silenzi e altri marchingegni - rimangiarsi, cripticamente, decine se non centinaia di affermazioni dottrinali solenni di papi e di concili: per fare un solo esempio, quella che tutti i non cattolici vanno all’inferno. La teologia è una storia di dogmi irrinunciabili che diventano rinunciabili. In questa prima sottoipotesi, le mie critiche dovevano essere acquisite alla dottrina cattolica revisionata; non c’era motivo di togliermi l’insegnamento, anzi accumulavo meriti “cattolici” (neo-cattolici) ulteriori.

Ma se invece - seconda sottoipotesi - io avessi criticato dogmi ritenuti tuttora cattolicamente irrinunciabili? Per quanto possa sembrare strano, nemmeno in questo caso il licenziamento era indiscutibile. Si poteva infatti pensare che io avessi ragione, perché è pensabile - i noncattolici seri lo pensano attendibilmente - che il cattolicesimo sia, anche nel proprio centro, insostenibile o incomprensibile. Anche per i cattolici amicus il cattolicesimo, sed magis amica veritas.

Qualcuno dirà: tu pretendi l’assurdo. In fondo sostieni che l’UC, se un suo insegnante dimostrasse che il cattolicesimo non regge, dovrebbe dargli ragione e quindi chiudere in quanto “cattolica”; continuando se mai a esistere come università senza aggettivi, puramente tecnica. Lungi dall’essere licenziato, quell’insegnante dovrebbe essere ringraziato e stimato. Ebbene sì, paradossalmente lo sostengo. Del resto, dietro la facciata, è largamente così che l’UC continua a esistere. Ma il punto cruciale è un altro. Veri o falsi, sostenibili o non sostenibili che siano ismi come il cattolicesimo, l’islamismo, il marxismo, il fascismo, il nazismo, il maoismo, resta che non c’è libertà di ricerca e di insegnamento se non c’è libertà di critica anche radicale anche interna. Un’istituzione che esclude al proprio interno la critica anche radicale è un’istituzione ideologica, ossia un’istituzione che fa prevalere la propria sopravvivenza sulla ricerca della verità. Questa istituzione, se è un’università, non merita più il nome di università; se è una Chiesa, non merita più il nome di luogo della verità; se è un regime politico, non merita più il nome di libero nel senso che danno alla parola i testi costituzionali e internazionali vigenti sui diritti dell’uomo.

“Ma allora i nostri ragazzi, che iscriviamo all’UC perché abbiano un insegnamento cattolico, devono sentirsi raccontare, anche in UC, cose anticattoliche?”. Ebbene sì. Lo esige la pretesa del cattolicesimo di essere la verità, lo esige il principio, scientifico e costituzionale, della libertà di ricerca e di insegnamento, lo esige l’essenza stessa dell’istituzione universitaria. Del resto anche una scuola elementare o media (cattolica, islamica, marxista …) governata secondo i criteri della Santa Sede sarebbe, come l’UC, antiscientifica e anticostituzionale.

3. Altri valori in gioco. Tradizione, comunità, identità

Come si spiega, allora, che la Corte costituzionale con la famosa sentenza del 1972 sul caso Cordero (Cordero, mio predecessore nell’insegnamento della filosofia del diritto, è un altro degli “espulsi” dall’UC per eterodossia, come il filosofo teoretico Severino) e il TAR di Milano con la sentenza del 2001 sul caso Lombardi Vallauri abbiano giudicato l’espulsione di docenti “eterodossi” non lesiva della libertà di ricerca e di insegnamento? Si potrebbe rispondere, sbrigativamente e realisticamente, che in Italia la Chiesa cattolica è potentissima. Ma trovo più interessante mettersi nel punto di vista avversario, cercando di rendere il più forte possibile la tesi che la libertà di insegnamento riguarda non gli insegnanti, ma gli istituti di insegnamento. È una tesi altamente anti-intuitiva. Come argomentarla?

Bisogna partire ancora una volta dall’art. 33, ma nella parte in cui dice che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”. Combinandolo con l’art. 19 sulla libertà di professare la propria fede religiosa e di farne propaganda, si ottiene che tutte le confessioni religiose (come anche tutte le ideologie) hanno il diritto di istituire scuole che professino la loro visione del mondo e ne facciano propaganda. La libertà dell’ente prevale allora sulla libertà nell’ente: perché se nell’ente gli insegnanti avessero la libertà di contraddire la visione del mondo professata dall’ente, verrebbe meno la libertà dell’ente di professarla e propagandarla.

L’argomento non è futile. Per corroborarlo ancora si potrebbe aggiungere (è il nucleo razionale dei tradizionalismi) che la ragione di un singolo può presumersi più limitata e fallibile di una ragione collettiva, tanto più quando è la ragione di un’agenzia ideologica colossale e millenaria come il cattolicesimo. Su un piano diverso, si potrebbe osservare con i comunitaristi che l’umanità dell’uomo non si forma in un ambiente di pensiero assoluto, ma necessariamente all’interno di una specifica comunità culturale. E che la pluralità delle culture va vista in parte certo come frutto di errori e carenze, ma in parte anche come ricchezza di prospettive originali da salvare. Tradizione (autorevole), comunità (umanizzante), identità (meritevole di interesse) sarebbero allora valori bilanciabili con la libertà di ricerca e di insegnamento.

4. In che direzione bilanciare i valori?

Gli esperti avranno facilmente riconosciuto, nelle contrapposte tavole di valori descritte ai paragrafi 2 e 3, rispettivamente il liberalismo dei diritti umani (individuali, personali) e il comunitarismo. In caso di conflitto tra i diritti fondamentali della persona e la meritevolezza di tutela di una delle sue comunità di appartenenza, chi deve tendenzialmente prevalere? Fornisco alcuni argomenti a favore della prevalenza dei diritti della persona. Sul piano giuridico positivo, si può affermare che dopo l’era novecentesca dei totalitarismi le Costituzioni nazionali e il diritto internazionale hanno scelto decisamente per la persona. Non l’uomo è per il Volk, per lo Stato, per la classe, per l’ideologia, per il partito, per la casta o per qualsiasi altra formazione sociale intermedia, per il credo religioso, per la Chiesa, ma tutte queste entità sono per l’uomo: lo si desume dal principio giuridico-positivo supremo della dignità della persona, dignità riconosciuta ugualitariamente a ogni uomo senza rilevanza alcuna delle distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di appartenenza nazionale o di altro genere.

Sul piano filosofico, pur dovendosi riconoscere che le comunità sono indispensabili allo sviluppo della persona, resta fermo che appunto questo sviluppo è il fine e il criterio ultimo di valutazione delle comunità. La persona umana, come unico sistema fisico dotato di soggettività spirituale, è ontologicamente superiore a ogni altro sistema naturale o culturale. Ora, dalla superiorità ontologica deriva una superiorità assiologica, per cui le persone possono sacrificarsi alle comunità solo in vista di un bene più grande di un numero più grande di persone, e comunque liberamente accettato dalle persone stesse chiamate a sacrificarsi.

Per tornare al nostro problema specifico, la libertà di ricerca e di insegnamento sembra essere un diritto fondamentale degli insegnanti prima che degli istituti o delle comunità, perché essi, e non gli istituti o le comunità, sono persone umane. Se poi si devono bilanciare l’interesse degli studenti a conoscere il vero pensiero del docente e il loro interesse a ricevere dal docente un insegnamento obbligatoriamente precostituito, direi che il primo interesse non può non essere, filosoficamente, il più forte, perché solo attraverso convincimenti personali autentici progredisce realmente il sapere. Un altro argomento a favore della prevalenza dei diritti della persona sugli interessi delle comunità è che solo tutelando la persona si tutela realmente la scienza. E dunque è anche interesse prevalente dell’istituto, e suo inalienabile diritto, conoscere il risultato autentico della ricerca del docente e non una verità che l’istituto stesso gli abbia imposto. L’ente “di tendenza”, come l’UC, può forse selezionare i suoi docenti anche in base alla loro ortodossia religiosa; ma se uno dei docenti così selezionati viene a formulare critiche anche radicali al credo o all’ideologia professata dall’ente, è interesse vitale dell’ente stesso, se cerca la verità, che quelle critiche abbiano tutto lo spazio per manifestarsi, ed è interesse e dovere scientifico dell’ente affrontare le idee con idee e non con misure amministrative, che sul piano scientifico sono misure di pura violenza.

In aggiunta a questo argomento, che resta fondamentale, si può far notare l’indesiderabilità delle conseguenze alle quali la tesi del prevalere della libertà degli enti e delle comunità sulla libertà al loro interno non potrebbe non portare. Se in una data società tutte le scuole, in una logica puramente privatistica, fossero scuole di tendenza, il prevalere della libertà degli istituti porterebbe a un paesaggio di “torri” senza finestre simile a medievali San Gimignani, torri preoccupate ciascuna, approfittando della “libertà” scolastica, solo di clonare cattolici, musulmani, marxisti, aspiranti capitalisti, tra loro non comunicanti. La libertà dell’insegnante si ridurrebbe alla libertà di scegliere tra scuole tutte ugualmente libere di imporgli obbligatoriamente il loro pensiero.

Certamente non è questa la libertà prefigurata dalla Costituzione e voluta dall’ontologia della persona umana. La ratio per cui la Costituzione garantisce il pluralismo scolastico (come pluralismo degli enti) è che la Costituzione vuole salvaguardare, contro le tentazioni totalitarie, il pluralismo culturale. Vuole evitare, per la grande casa comune che è la Repubblica italiana, il pensiero unico. Ma quello che vale per la grande casa comune deve valere anche per la piccola casa comune che è ogni scuola degna di questo nome. La casa piccola deve essere a immagine e somiglianza della grande casa. Altrimenti la Costituzione si arresterebbe sulla soglia degli istituti scolastici, i quali godrebbero di una ingiustificabile e indesiderabile “extraterritorialità” costituzionale. Quello che vale nella Repubblica italiana, vale, ancora più fortemente, nella grande casa comune Europa, per carisma storicamente conquistato Patria delle differenze. Ho detto molte volte che l’importante non è se la scuola è pubblica o privata, perché le scuole pubbliche di Stalin, con il loro ateismo obbligatorio, non erano meno illiberali di scuole cattoliche come l’UC di Milano; l’importante è che la scuola - pubblica o privata - sia costituzionale: cioè alberghi in sé la libertà di ricerca e di insegnamento che la Costituzione vuole per la grande casa comune. Oggi in Italia è pienamente costituzionale, sotto questo profilo, solo la scuola pubblica. Il Concordato, sotto l’aspetto per cui recepisce una visione internamente illiberale e totalitaria degli istituti di istruzione cattolici, deve ritenersi incostituzionale per lesione del principio della libertà di ricerca e di insegnamento.

È illusionistico parlare di “libere” università, di “libere” scuole solo perché queste università e queste scuole sono, grazie alla Costituzione, liberamente fondate da privati. La sola libertà seria è la libertà di fondare scuole libere, non la libertà di fondare scuole totalitarie o settarie. Che senso non assurdo hanno intitolazioni come “Libera Università Maria Santissima Assunta” se in simili università è vietato chiedersi cosa significhi realmente, realisticamente il nome dell’istituto per un uomo di oggi, dotato di quel training scientifico che ogni università dovrebbe - in ogni campo disciplinare, promuovere? Non sono superossimoriche università nelle quali, a meno di tacere, si deve obbligatoriamente asserire - pena l’espulsione da parte di un prelato vaticano - la “assunzione” “in cielo” del “corpo” della “Madonna”?

Indipendentemente e in aggiunta al profilo di incostituzionalità concernente la libertà di ricerca e di insegnamento, c’è l’altro che sopra ho chiamato di ingiustizia/scorrettezza procedurale. Anche ammesso, infatti, (e non concesso) che negli enti di tendenza fosse legittimo reprimere la libertà di ricerca e d’insegnamento, resterebbe che questa repressione dovrebbe attuarsi rispettando i requisiti del giusto processo, cioè i diritti umani procedurali. Non c’è nulla nel concetto di ritiro del gradimento che ne implichi l’assoluta, insindacabile discrezionalità. Il modo di procedere dell’autorità ecclesiastica nel conferire e nel togliere agli insegnanti il famoso gradimento, ledendo la giustizia/correttezza procedurale, lede diritti umani fondamentali pienamente riconosciuti, come abbiamo visto, dal diritto positivo vigente. In quanto recepisce la doppia violazione della libertà di ricerca e d’insegnamento e dei principi del giusto processo perpetrata negli istituti di istruzione cattolici dalla gerarchia ecclesiastica, il Concordato deve - se finora abbiamo ragionato bene - ritenersi doppiamente incostituzionale.