Problemi di crescita

Riflessioni per un dibattito, di Carlo Tamagnone

A circa 15 anni dalla sua fondazione l’UAAR ha preso ormai corpo come l’unica associazione italiana che rappresenti con coerenza d’intenti una lotta sistematica allo strapotere spirituale e politico della Chiesa Cattolica, la quale, quantunque mostri evidenti segni di logoramento dottrinario, continua a condizionare pesantemente, grazie ad accordi ufficiali con lo Stato italiano o attraverso canali occulti e capillari d’intervento, ogni settore della cultura e del costume. Di fronte a questo «Golia», dall’enorme potere d’influenza, in qualche caso si ha la sensazione che l’UAAR, piccolo «Davide» velleitario, tiri le sue pietre in modo un po’ anarchico e poco mirato, a causa di una latente o esplicita conflittualità interna, che rivela background culturali di tipo sociopolitico apparentemente inconciliabili. Questa è l’impressione che può ricevere colui che come primo approccio approdi sulla mailing list «ateismo» ed io ho il timore che in qualche caso questa «anticamera» dell’UAAR possa dissuadere l’ospite occasionale e non sufficientemente motivato dall’entrare nella nostra organizzazione. In realtà quest’immagine conflittuale è abbastanza sviante, poiché, sul piano pratico, l’azione dell’UAAR, volta a colpire, ove attualmente possibile, gli abusi confessionali e nel cercare di conseguire una propria visibilità sociale, agisce con gran coerenza e unitarietà, puntualmente e nelle occasioni dovute. Anche lo spazio che ci ospita, quale organo di stampa ufficiale dell’associazione, offre un’immagine abbastanza omogenea di noi. La plurivocità degli interventi non evidenzia contrasti ideologici inconciliabili ed il mosaico delle voci mostra, sia una netta convergenza d’intenti, sia un dibattito culturale pacato e costruttivo.

Dove invece è palpabile quest’impressione di disordine è nella già citata mailing list, peraltro cuore dialettico e pulsante dell’associazione, quadrivio d’incontro di taciute appartenenze e crogiolo magmatico d’idee assai interessanti, ma talvolta incompatibili. Qui, qualche volta, si ha la netta impressione di un dialogo tra sordi, il cui unico fine è ribadire, botta su botta, le proprie irrinunciabili posizioni, senza alcuna attenzione alle ragioni dell’avversario.

Vediamo ora se sia possibile analizzare lo stato delle cose, tentando di effettuare qualche aggregazione della multiformità di voci in poche classi omogenee, rendendo quindi uno schema, sia pur approssimativo, degli insiemi e sottoinsiemi in essere. Una prima suddivisione riguarda, direi quasi sul piano caratteriale, coloro che sono più portati ad occuparsi delle idee concernenti l’aspetto filosofico (dell’essere agnostici o atei) e coloro che sono viceversa spinti a privilegiare le modalità (d’azione) con le quali incidere sul corpo sociale. In realtà questa prima suddivisione potrebbe non avere molte ragioni di essere sottolineata poiché l’aspetto «teorico» e quello «movimentista» non soltanto possono convivere, ma sono anzi complementari, mirando il primo all’obbiettivo di dotare gli ateo-agnostici di un fondamento culturale di riferimento e tentando il secondo di organizzare nel modo più producente la presenza di loro nelle istituzioni e nella vita sociale del Paese. Purtroppo invece, già qui compare un primo problema di disimmetria, poiché mentre i «teorici» sembrano riferirsi ad una relativa neutralità socio-politica, i «movimentisti» pare invece che appartengano tutti o quasi ad un indirizzo politico preciso, decisamente orientato e schierato.

Ad un livello subordinato tuttavia anche il primo gruppo ha i suoi oppositori, poiché il progetto di tentare la fondazione di una filosofia, o per lo meno di un sistema d’idee condivisibili, incontra le diffidenze di coloro che temono che questo intendimento possa creare un corpusideologico condizionante, che in qualche misura potrebbe condurre ad una struttura di pensiero di tipo «congregazionario» o addirittura «para-religioso». Personalmente ritengo però questo timore piuttosto infondato, poiché i presupposti di un pensiero ateoagnostico sono opposti a quelli religiosi e sarebbe praticamente impossibile una deriva di quel tipo, ma è doveroso registrare il fenomeno per completezza d’esposizione. Questa diffidenza però nasconde ancora un altro elemento meno esplicito, quasi «sottopelle», ma chiaramente presente, attribuibile alla componente agnostica dell’UAAR, che teme il nostro spostamento su posizioni d’ateismo estremo e potenzialmente emarginanti questa loro componente. Atteggiamento peraltro giustificato dal fatto che qualcuno ritiene irrinunciabile rafforzare la «identità atea» ai fini di una più precisa collocazione culturale, anche se ciò dovesse costare la fuoruscita di qualche agnostico. Per contro è altrettanto significativa l’istanza ricorrente e abbastanza diffusa di modificare la nostra qualifica in quella assai più comoda e vaga di «laici», come se ciò rendesse più accettabile il nostro sodalizio agli occhi dei nostri interlocutori e di nostri possibili amici-alleati, resi attualmente diffidenti da un nostro supposto estremismo ateo.

Tutti questi fuocherelli di carattere teorico-nominalistico non sembrano tuttavia attentare all’unità, poiché i contrasti si stemperano ogni qual volta il pensiero ateo e quello agnosticolaico si affrontano dialogicamente, producendo un confronto d’idee raramente fazioso ed il più delle volte chiarificatore per entrambe le parti. Dove invece il contrasto non risulta componibile è quando sul piano della teoria e della prassi si scontrano una «destra» ed una «sinistra» irriducibili. La prima con un’anima liberale e tendenzialmente «competitivistica», la seconda con un’anima socialista e più spiccatamente «solidaristica». Si ripropone, pertanto, al nostro interno, ma quasi accentuato, lo stesso contrasto che caratterizza le ali estreme dei due schieramenti oggi presenti nella società italiana. Quel che purtroppo si constata è che gli appartenenti a questi due indirizzi «sentono» molto di più l’appartenenza politica che li divide piuttosto che il comune progetto ateo-agnostico che dovrebbe unirli. In altre parole, il coinvolgimento emotivo e passionale di tipo «politico» è nettamente prevalente rispetto a quello «uarriano», che passa decisamente in secondo piano. Soprattutto in uno dei due schieramenti, probabilmente di maggioranza al nostro interno, appare peraltro molto netto il desiderio di una più spiccata caratterizzazione politica dell’UAAR e la tentazione di «forzare» gli indirizzi programmatici verso un’area politica ben determinata.

I tentativi di disinnescare la bomba ad orologeria di questa «disimmetria ideale» da parte del moderatore della list sono stati resi più difficili dall’appuntamento elettorale e non resta che sperare che ci possa essere, in futuro, un’attenuazione. Tuttavia è molto probabile che il fuoco continuerà a covare sotto la cenere, pronto a riattizzarsi ad ogni occasione. A questo punto sorge la domanda: ma queste fazioni «politicizzate» riflettono veramente un conflitto esistente all’interno dell’UAAR o rappresentano una minoranza, e in questo caso, di quale entità? Vista la scarsa partecipazione alle diatribe politiche, che coinvolgono di solito non più delle solite cinque o sei persone, parrebbe trattarsi di un’esigua minoranza, ma occorre tener presente che vi è un buon 80% degli iscritti ad «ateismo» i quali non intervengono mai, quindi è estremamente difficile valutare che cosa pensino e se siano schierati coi contendenti o coi critici dei posts off-topic dedicati alla politica. Si potrebbe anche tentare di conoscere meglio come si struttura ideologicamente il collettivo della mailing list attraverso dei sondaggi, che nei gruppi Yahoo! sono peraltro predisposti, ma lascio l’esame dell’opportunità o meno di ciò alla nostra leadership.

Quel che in ogni caso appare irrinunciabile è il depotenziamento di questa mina vagante degli estremismi socio-politici, attraverso un dibattito concernente non tanto le ragioni della destra o della sinistra, quanto quelle sull’opportunità o meno di una maggior politicizzazione dell’UAAR. Alcuni di noi pensano che un progetto del genere, peraltro attualmente escluso dallo Statuto, sia del tutto inopportuno. Spostare l’asse operativo sul piano del «potere istituzionale», a scapito della «presenza culturale», potrebbe fare di noi un ulteriore gruppuscolo di pressione intento a ritagliarsi una sua piccola fetta di potere. E ciò renderebbe più difficile l’azione a tutto campo per rivendicare le nostre imprescindibili istanze, mirante a convincere la massa amorfa ed occulta degli ateo-agnostici a schierarsi con noi o almeno a sostenerci. Altri invece, più favorevoli all’aspetto socio-politico della nostra azione, preferirebbero giocare subito le nostre carte a fianco di uno schieramento politico i cui intendimenti collimino coi nostri. Altri ancora, abbastanza numerosi e sempre su questo fronte, paiono rivelare un adesione abbastanza tiepida alle ragioni dell’ateismo-agnosticismo e mantenere invece forti legami con le radici ideali di filosofie socio-politico-economiche rispettabilissime, ma uscite non proprio brillantemente dalla storia recente, che essi vorrebbero veder risorgere palingeneticamente sotto una nuova bandiera.

Io inviterei tutti questi amici a riflettere su una realtà evidente a tutti. Mentre sul piano «teorico», ovvero su quello di una maggiore caratterizzazione della nostra identità, il dialogo è aperto, si rivela produttivo e promette il raggiungimento di un corpus d’idee che può diventare unitariamente condivisibile, sul piano «etico-pratico» i modelli di riferimento sono in qualche punto così lontani e inconciliabili tra loro da rendere impossibile ogni mediazione. Un’UAAR politicamente schierata diventerebbe una cosa diversa da quel che è e da ciò che si propone di diventare. Una scelta di questo tipo appagherebbe quindi qualcuno, ma fatalmente scontenterebbe altri, che non riuscendo più a riconoscersi nel nuovo sodalizio sarebbero indotti a lasciare l’organizzazione, rendendo evidente l’effetto disgregante di tale opzione.

Il rafforzamento delle idee che hanno possibilità di diventare comuni è quindi da privilegiare rispetto a quelle che appaiono refrattarie a ciò. Nel momento in cui il movimento si fosse dato una base teorica forte e condivisa, nulla osta ad un’applicazione pratica di essa nel «sociale». Ciò è anzi auspicabile, in quanto costituirebbe la verifica della sua applicabilità in senso etico, confermandone la validità pratica. Ma allo stato attuale non si può pensare di dare applicazione a ciò che è ancora in fieri: fatalmente si mutuerebbero principi d’azione che non sono nati da noi, ma altrove, quindi non specifici del nostro movimento. Nel minestrone ideologico in cui versa il nostro Paese io ritengo, per contro, che sia fondamentale una «caratterizzazione» netta, per occupare una posizione nuova, specifica e dirompente nello scenario della cultura corrente. È quindi, ripeto, il nucleo teorico d’idee che a mio parere va rafforzato, per costruire una «casa ideale» comune in cui tutti noi ci si possa riconoscere nella diversità delle fedi politiche e ciò contro un nostro scioglimento in correnti ideologiche che finirebbero per fagocitarci. Prima di pensare alla «estensione» della nostra presenza in territori già «pascolati» da altri pensiamo alla «intensificazione» del nostro nucleo ideale.

Sul piano pratico, contro quel «Golia» che ci sbarra la strada verso la realizzazione di una società civile veramente e compiutamente laica, per operare con profitto bisogna cercare di agire sulla cultura generale del nostro Paese, favorendo quell’evoluzione costantemente frenata dalla tradizione secolare che ci sovrasta e che permea idee e comportamenti degli italiani, emblematicamente indicata nel noto saggio di Benedetto Croce, dal titolo: «Perché non possiamo non dirci cristiani!». Soltanto la fondazione di una filosofia, quale patrimonio ideale forte, può consentirci di affrontare a pieno titolo ed efficacemente un avversario che gode di un apparato culturale millenario, aggregando quelle voci isolate, parallele o coincidenti con le nostre, che però oggi esitano ad affiancarci o addirittura ci ignorano. Penso a tutti quegli intellettuali atei, da noi talvolta citati, i quali pur sapendo della nostra esistenza si guardano bene dall’entrare nell’organizzazione.

Vi è ancora un ultimo aspetto da considerare ed è quello dei «tempi». Qualcuno dichiara che occorre aver pazienza e lavorare sui tempi lunghi, altri vorrebbero risultati più rapidi. Indubbiamente una discesa nell’agone politico potrebbe darci immediata evidenza e accreditarci un consenso impensabile in quella sorta di ghetto a cui siamo ancora costretti dalla pubblica indifferenza. Si tratta di vedere se questa fuga in avanti, che nei tempi brevi potrebbe regalarci un’anticipata, ma probabilmente effimera, visibilità, non sfoci poi in seguito nel nostro dissolvimento, attraverso i cento meandri oscuri del compromesso politico.

D’altra parte, effettivamente, un’elaborazione culturale delle nostre premesse, richiede tempi prolungati, e se ne sta accorgendo chi sta tentando (in una mailing list parallela) di impostare la fondazione di una filosofia atea «a più voci», che possa strutturarsi come l’espressione di una comunità e non di un singolarità. Eppure, malgrado i tempi lunghi, l’apporto alla nostra aggregazione di una qualche base filosofica, anche ad opera di non-filosofi di professione, potrebbe testimoniare la serietà dei fini che c’inducono a presentarci, al di là del puro anti-clericalismo di protesta che per lo più oggi ci caratterizza, come proponenti di modelli esistenziali ed etici nuovi. Ciò dovrebbe anche rendere più facile attirare nei nostri paraggi qualche personaggio ateo di spicco, culturalmente visibile, rappresentante un punto di riferimento di carattere pubblico, il ché conferirebbero sicuramente miglior immagine e maggior forza alla nostra azione.

Ricapitolando, parrebbe di poter cogliere al nostro interno due categorie principali di aderenti: (1) i «teorici» e (2) i «movimentisti». All’interno della prima vi sono: (a1) quelli che sono favorevoli ad una caratterizzazione decisamente «atea», (b1) quelli che rivendicano il ruolo della componente «agnostica» a pari titolo di quella atea, (c1) quelli che preferirebbero un indirizzo genericamente «laico», (d1) quelli che auspicano il recepimento dei principi etici della tradizione socialista, (e1) quelli che temono una deriva troppo «ideologica» della nostra filosofia. All’interno della seconda si possono identificare: (a2) i sostenitori dell’attuale linea dell’UAAR, impegnata in interventi di carattere specificamente antireligioso, (b2) quelli che auspicano la cooptazione d’esponenti della cultura per migliorare la nostra immagine pubblica, (c2) i favorevoli a un maggior impegno sociale, politicamente neutro, nel «no profit», (d2) i fautori di un’immediata discesa nell’agone politico a fianco della sinistra istituzionale.

Concludo sottolineando che quanto sopra esposto intende solo suggerire alcune linee guida per un’auspicabile analisi preliminare degli umori e degli orientamenti degli iscritti all’UAAR. Essa dovrebbe consentire il raggiungimento di alcune indicazioni strategiche circa il modo più proficuo di trasformare le differenze d’opinione in diversificazioni qualificanti e non in opposizioni disgreganti. Ciò dovrebbe anche consentire di pianificare gli indirizzi da assumere per il futuro, onde evitare che, di fronte ad un’auspicabile ulteriore e continua crescita del numero degli iscritti, un nostro contesto associativo un po’ confuso possa dissuadere alcuni dall’aderire ed in altri la tentazione di introdurre ulteriori differenziazioni indesiderate. Ogni fase di crescita di una qualsiasi organizzazione richiede un adeguamento continuo alle nuove situazioni che vengono a determinarsi: tale adeguamento è indispensabile per evitare eventuali «spiazzamenti». Ad un’accresciuta «domanda», relativa alle esigenze dei nuovi iscritti, occorre adeguare una nuova «offerta», che qualora necessario ridisegni forma e struttura dell’organizzazione stessa, in funzione delle sue nuove dimensioni e dell’inevitabile aumento di complessità che ciò comporta.