Risultati di un’inchiesta condotta su atei

di Franz Buggle1, Karl Uhmann, Dorothee Bister, Gisela Nohe, Dora Pfister e Wolfgang Schneider

Atei e credenti a confronto

Durante gli ultimi anni - su riviste tedesche a gran tiratura, come Der Spiegel e su periodici divulgativi come Psychologie heute, che citano studi epidemiologici e ricerche quantitative - è stato dato grande spazio all’opinione che la fede religiosa e la partecipazione ai culti abbiano un effetto positivo sul benessere umano2. Questi articoli suggerivano anche che i credenti erano capaci di superare, nella loro vita, eventuali crisi e stress, come anche conflitti sociali e psichici in modo più facile, e che essi potevano anche sviluppare strategie più efficaci per risolvere i loro problemi; inoltre, sostenevano che la fede ha un effetto positivo sulla salute psichica e persino fisica. Numerose sono state le inchieste condotte dalla chiesa stessa, o da gruppi che ruotano intorno ad essa, sui propri membri (vedi, EMNID 1967 e 1992, Schmidtchen 1972, EDD-Studie 1974, Feige 1976, Mynarek 1983). Gli autori pensavano di poter concludere, dai risultati di tali indagini, che l’indottrinazione religiosa dei bambini può certamente provocare sensi di colpa, avvilimento e scarsità di risultati, tuttavia i praticanti più fervidi sono sostanzialmente meno depressi rispetto a coloro che hanno avuto un’educazione religiosa, i quali si siano allontanati, in qualche modo, dalla chiesa. Decisi avversari della religione e della chiesa non furono, invece, mai interrogati. Ciononostante, i propagandisti in Christo non esitavano a delineare, con riferimento agli studi menzionati, l’immagine di un ateo triste e infelice, tormentato da paure e da dubbi interiori che, già in questa vita, paga a caro prezzo la propria avversione alla religione.

Grafico dell'[ir]religiositàPossiamo anticipare che quest’immagine non è del tutto sbagliata. Se, per esempio, prendiamo in ordinata il grado inverso della depressività ed in ascissa quello della [ir]religiosità, ne viene fuori una curva a «U» o, addirittura, una curva simmetrica. Ciò significa che i cristiani credenti e gli atei convinti sono i meno depressi in assoluto, mentre gli atei tiepidi ed i semi-religiosi sono veramente «bocciati». La depressività è, per così dire, la punizione - anche se non divina - per l’incoerenza e la viltà nei confronti del ritenuto «nemico», in conformità alla frase biblica: «Ma voglio sputare sui tiepidi». L’asimmetria si forma in seguito al fatto che anche i cristiani più convinti sono mediamente ancor più depressi degli atei decisi; la falsificazione di questo risultato da parte di gruppi filo-religiosi deriva dal fatto che il numero assoluto degli atei convinti è molto basso. Logicamente, però, questo fatto non può avere alcuna importanza nell’analisi della questione iniziale, la quale non riguarda il modo in cui la religiosità e l’ateismo sono distribuiti nella popolazione totale - in questo caso si delineerebbe più probabilmente una curva di Gauss rivolta verso sinistra - ma piuttosto quali relazioni statistiche esistano fra queste due misure ed il grado di depressività. Solo la nostra analisi ha potuto fornire, su questo punto, una base di oggettività.

 

Ora, ci troviamo nella situazione, non solo di mettere in dubbio queste affermazioni, diffuse acriticamente dai mass-media e dalle pubblicazioni - persino da quelle che pretendono di essere scientifiche - ma anche di confutarle empiricamente. Il nostro questionario rende possibile, per esempio, paragoni statistici con un’indagine condotta a Friburgo nel 1984, su studenti cattolici (tutti membri di chiesa), il cui risultato era che religiosi osservanti mostrano in maniera significativa (sotto il profilo statistico) meno sintomi d’irritazione depressiva rispetto a coloro per i quali la fede religiosa ha un’importanza minore. Una delle basi di confronto, era l’inventario di depressione di Beck - un questionario in uso nella psicologia - in cui il punteggio ci permette di stabilire il grado d’irritazione. Gli autori avevano accertato un valore medio di 4.6 per tutti i membri della chiesa da loro interrogati; inoltre, essi avevano suddiviso gli esaminati in base all’intensità del loro legame con la religione e con la chiesa. Per il gruppo osservante, essi calcolavano un valore di 3.4, per il gruppo meno religioso 6.0 e per il gruppo intermedio 4.0; vale a dire, il sottogruppo meno religioso in assoluto, presentava il massimo grado d’avvilimento.

 

Gli atei, da noi interrogati (174 persone), raggiungono il valore chiaramente più basso di 3.2, cosicché, a questo punto, possiamo già evidenziare che affermazioni «solo a costo della depressione è possibile rinunciare alle convinzioni religiose» - come formulato dagli autori del nostro studio di confronto e come suggerito da tanti altri - sono del tutto strumentali e disoneste. Esse perseguono, infatti, uno scopo propagandistico facilmente riconoscibile e approfittano chiaramente della rarità statistica di atei convinti in contrasto con la frequenza relativa di religiosi convinti. Ma ciò non ha niente a che fare con la possibilità di metterli a confronto sotto il profilo della qualità. In realtà, gli atei sono chiaramente meno avviliti rispetto alla media dei membri di chiesa interrogati, differenziandosi nella maniera più evidente dal gruppo dei «poco» religiosi e persino distinguendosi positivamente dal nucleo fondamentale dei credenti, anche se in misura minore.

Valori di depressione nel confronto statistico

L’inchiesta fra i membri della chiesa, che abbiamo consultato per confronto, mostrava anche che presso i cristiani interrogati esiste una relazione fra il loro normale stato d’animo quotidiano ed i contenuti della loro educazione religiosa, vale a dire, tanto positivamente furono loro descritte le «caratteristiche» del loro dio e quelle degli uomini, tanto meglio si sentono oggi; quanto più peccaminosi furono loro presentati gli uomini e maligno il loro dio, tanto peggio si sentono oggi mediamente. Per rendere possibile un confronto tra gli studi compiuti, abbiamo ammesso alla nostra analisi soltanto i dati di quegli atei che, così come i menzionati membri della chiesa, avevano un’educazione religiosa; solo più tardi si sono staccati dalla fede in cui sono stati educati e sono quindi usciti dalla chiesa. Ora si evidenzia, presso gli avversari della chiesa da noi interrogati che, in contrasto con i membri di chiesa, il loro stato d’animo è indipendente dai contenuti specifici dell’indottrinazione religiosa alla quale erano esposti durante l’infanzia. In altre parole: i partecipanti alla nostra analisi riuscivano a liberarsi, quasi completamente, dalle limitazioni inflitte una volta dalla religione, nel loro modo di pensare e sentire.

 

Quindi possiamo trarre, dal primo paragone delle inchieste fra i membri della chiesa da una parte e gli atei dall’altra, la seguente conclusione:

 

  1. Lo stato d’animo di chi è rimasto in qualche modo religioso, dipende - a prescindere da quanto egli si senta più o meno strettamente legato alla chiesa ed alla religione in maniera soggettiva - dal tipo della sua educazione religiosa e dall’osservanza dei suoi comandamenti. Quindi, le affermazioni dei menzionati psicologi della religione sono esatte finché si riferiscono solamente ai credenti.
  2. Hanno invece torto, nel caso in cui - molto tendenziosamente - vengono fatte congetture sulla condizione psichica di atei. Perché, come dimostra la nostra analisi, colui che, dopo una socializzazione religiosa, trova il coraggio e l’intelligenza di rompere con la stessa religione e la chiesa, ha più speranze di condurre una vita felice rispetto a qualsiasi cristiano statisticamente comparabile. Ciò ha, tuttavia, come presupposto - oltre ad un approccio fondamentale illuministico ed ateistico - lo smaltimento del passato religioso.

Qui di seguito, vogliamo poi render note le nostre conoscenze relative al modo in cui gli avversari della chiesa, da noi interrogati, riuscivano a liberarsi dal loro passato religioso e quale relazione esiste fra il carattere risoluto di questa riflessione, della condizione psichica e del pensiero d’oggi.

«La libertà costa fatica, la sua mancanza è gratuita»

Nel sentiero che dalla fede indottrinata giunge all’ateismo ha - secondo le aspettative - un’importanza centrale la scienza. Conoscenze, conseguite mediante l’osservazione e la deduzione logica, sono adatte più d’ogni altra cosa a mettere in dubbio il presupposto di ogni religione, cioè l’esistenza di un essere soprannaturale, buono e onnipotente. Il 92% dei partecipanti alla nostra analisi rispondevano di «sì» alla domanda se, durante il processo di separazione, fosse stato importante l’aumento della conoscenza scientifica; per il 76%, le scienze naturali erano al primo posto. D’altra parte, solo per il 59% le esperienze negative con le istruzioni ecclesiastiche erano determinanti all’avvio di tale processo. Dunque, per l’abbandono della religione, l’acquisizione di cognizioni sembra essere d’importanza maggiore rispetto alle esperienze negative. Queste ultime possono essere valutate in modo adeguato, quando siano sottoposte, oltre che al giudizio individuale, anche ad una classificazione nei rapporti comuni. Il 74% dei nostri interrogati nutrivano i loro primi dubbi in relazione ai cosiddetti contenuti della fede (per esempio, l’esistenza di dio) e non certo, come si potrebbe anche supporre, sul comportamento degli educatori religiosi. Da ciò si può concludere, che la rottura del tabù di pensare (vale a dire, il divieto di riflettere sul grado di probabilità delle affermazioni religiose) insieme all’aumento delle cognizioni, reca il più grave danno alla fede e difende più efficacemente l’individuo dal misticismo e dall’irrazionalità.

 

Di questo troviamo evidente conferma nelle risposte alla domanda se, dopo l’apostasia, la fede in dio riprendeva vigore in situazioni forse disperate: il 79% degli atei rispondeva di «no», vale a dire non mostrava più la tendenza a ricorrere alle promesse di conforto della propria fede religiosa d’un tempo. Il 97% degli atei, da noi interrogati, ritiene il pensiero scientifico e quello religioso inconciliabili. Inoltre, respinge la speculazione e l’irrazionalità, anche in forme non evidentemente religiose: l’81% non tiene in gran conto l’astrologia, che sostituisce il potere di dio con il potere degli astri. Il 79% aderisce all’affermazione, che «lo spirito e l’anima» esistano solo su base fisiologica, vale a dire che siano solo processi materiali; quindi anche l’83% è convinto che non esista una vita ulteriore dopo la morte. Facendo riferimento alla teoria evoluzionistica, l’84% respinge le varianti temporali del mito della creazione che, dietro la nascita di flora e fauna, presumono un progetto stabilito fin dall’inizio.

Tipologie diverse

Una piccola aggiunta può evidenziare quanto gli atei interrogati si siano allontanati dall’atmosfera «spirituale» della loro famiglia, nel corso della separazione dalla religione. Le famiglie di coloro che sono stati sottoposti alla nostra analisi erano tutte mediamente religiose, per quel che concerne l’osservanza dei rituali; in confronto alla popolazione totale, esse possedevano una cultura accademica mediamente superiore. Secondo le aspettative, in queste famiglie le persone celebri come Goethe o Federico il Grande godevano di una buona considerazione (per esempio Goethe per il 73%, Federico per il 53%). Per la cosiddetta borghesia colta, essi prendono le distanze in maniera moderatamente critica dal cristianesimo organizzato. D’altra parte, l’atteggiamento «mentale» delle loro famiglie verso noti rappresentanti dell’illuminismo e delle scienze era tendenzialmente conforme alla popolazione media. Prima del decimo anno d’età, a coloro che sono stati soggetti alla nostra prova erano totalmente sconosciuti: Galilei per il 59%, Voltaire per il 72%, Darwin per il 59%. Un ateo deciso come Marx è stato giudicato negativamente. Parimenti, secondo le aspettative, oggi le persone menzionate sono tutte note a coloro che sono stati sottoposti ad analisi e sono state in prevalenza giudicate favorevolmente: Galilei per il 95%, Voltaire per l’86%, Darwin per il 93%, Marx per il 91%.

 

Oltre che alle scienze, anche alla sessualità spetta un ruolo centrale nel processo di separazione dalla religione. Il 66% degli interrogati dichiarava, come principale punto di critica alla religione, «la repressione dell’autodeterminazione sessuale, generale e quella di una vita felice». Allo stesso modo il 66% dichiarava che, ad essi, era stata trasmessa l’idea che la sessualità fosse un peccato, sporca e negativa, cosicché più della metà degli interrogati aveva sofferto di gravi sensi di colpa derivati da fantasie ed attività sessuali. Sulla scia del superamento delle convinzioni religiose, il 46% è riuscito (sempre secondo le loro dichiarazioni) a risolvere il problema, il 32% a vincere in parte i sensi di colpa sessuali basati sulla religione. Tutto ciò ha un ruolo determinante sul fatto che il 90% degli atei possa costatare un aumento delle possibilità di vivere e di essere felici rispetto al tempo in cui era ancora religioso. L’incremento dell’autodeterminazione sessuale trova la sua corrispondenza nell’aumento dell’autonomia in generale (dichiarata dall’87%) e dell’autocoscienza (dall’87%). In questo contesto hanno notevole importanza anche alcune asserzioni socio-statistiche: fra gli atei, il livello culturale e la formazione professionale sono straordinariamente alti se confrontati ai corrispondenti gruppi d’età nell’ambito della popolazione totale: il 39% ha portato a termine un corso di studi ed il 37% ha sostenuto l’esame di maturità. L’attitudine all’indipendenza personale si dimostra, per esempio, nel fatto che il 60% dei partecipanti all’analisi non è sposato (in Germania, in tutta la popolazione, lo è solo il 40%) ed il restante 13% è divorziato.

 

Inoltre l’analisi mostrava anche differenze presso la popolazione atea riguardo al grado d’autodeterminazione ed alla tendenza alla depressione. Nel corso dell’elaborazione dei dati, abbiamo potuto determinare le cause che provocano le differenze, interpretabili statisticamente, fra le persone saggiate. Bisogna rilevare, che il confronto statistico dei valori di depressione degli uomini e delle donne non presenta differenze; questo risultato è quindi degno di nota, perché le donne mediamente soffrono molto più spesso di depressione. L’analisi dei nostri questionari mostrava che le donne, in confronto agli uomini, avevano subìto danni ulteriori nell’ambito della loro educazione religiosa. Il 31% degli uomini, ma neanche una donna, indica dei vantaggi; il 67% delle donne indica invece dei danni a causa del sesso nell’ambito dell’educazione religiosa. Questa differenza specificamente sessuale, nell’ambito dell’educazione religiosa, è di grande rilevanza statistica (chi quadro = 31.94; alfa = 0.000). Possiamo documentare che la maggior parte delle nostre partecipanti all’analisi, le quali - a confronto di altre - erano esposte a pregiudizi più grandi, riuscivano ad appianarli con sforzi maggiori, durante la separazione dalla religione, e per questo non presentano attualmente dei valori di depressione più alti degli uomini. In base ad un’analisi di varianza, non si mostrava un valore F significativo fra essi. Un piccolo gruppo di donne, dichiara però di non aver lottato contro le aspettative legate al ruolo specifico del proprio sesso, trasmesse per il tramite dell’educazione religiosa; queste donne raggiungevano i valori di depressione più alti, statisticamente significativi, confermando in tal modo la nostra supposizione, che il grado di smaltimento del passato religioso determina in misura considerevole la capacità di essere felici nel presente.

 

Nella grande maggioranza dei casi, i partecipanti all’analisi si definiscono atei combattivi (74%); solo pochi sono più esitanti ed indecisi nella loro opposizione alla chiesa (6%). Abbiamo quindi verificato se esiste una relazione fra questa posizione più conciliante verso la chiesa e la tendenza delle persone in questione a far ricorso a cosiddette strategie coping religiose, vale a dire alle promesse di conforto della chiesa. Mentre il 74% degli atei combattivi non ricordano situazioni in cui avrebbero pregato più d’ogni altra cosa, questo vale solo per il 61% degli atei non-combattivi. Il risultato è statisticamente significativo (chi quadro = 10.66, alfa = 0.03). Con ciò abbiamo trovato oltre al grado di smaltimento del passato religioso, un secondo criterio per la previsione statistica della condizione psichica degli atei: la fermezza della loro opposizione alla religione ed alle chiese.

 

Solitamente, viene propagata l’immagine di un ateo infelice ed afflitto, perseguitato da dubbi interiori e da paure che, già in questa vita, paga cara la propria opposizione alla religione. Quest’immagine non è sempre sbagliata, ma è certamente sbagliata - come abbiamo potuto provare nella nostra analisi - se atei, educati religiosamente, sono riusciti in seguito a riconquistare tutti i campi da noi descritti che, in precedenza, erano occupati dalla chiesa.

 

In conclusione, possiamo rilevare, in modo conciso, i risultati dell’inchiesta (l’originale dell’analisi supera le 500 pagine e siamo a disposizione per ulteriori informazioni), quelli più importanti: in contrasto all’asserzione tendenziosa stabilita da numerosi studi religiosi e psicologici, che approfittano solo della rarità statistica di atei convinti, in contrapposizione alla frequenza relativa di religiosi convinti, gli atei sono meno depressi dei religiosi. Essi si distinguono in modo considerevole da coloro che, con evidenti sensi di colpa, non osservano più i comandamenti ecclesiastici e che non si sono mai occupati seriamente della propria educazione e convinzione religiosa che, evidentemente, continuano a sussistere segretamente. Gli atei si distinguono, meno chiaramente, dai credenti osservanti che non accettano compromessi nei comandamenti religiosi e sono quindi meno afflitti dai sensi di colpa rispetto ai cristiani «poco convinti». Ma gli atei si differenziano - anche se in misura minore - in modo positivo anche dal nucleo fondamentalista dei credenti, per quel che riguarda i loro valori di depressione.

 

L’analisi che abbiamo qui brevemente esposto è, a quanto ne sappiamo, l’unica inchiesta al mondo che abbia messo a confronto un gruppo d’atei decisi con un gruppo di credenti, utilizzando un metodo di misurazione standardizzata. Senza dubbio, sono necessarie ulteriori ricerche in questo campo, anche in confronto a studi internazionali ed interculturali. Ma per tali progetti non ci si deve aspettare fondi pubblici, investiti piuttosto per la propaganda religiosa. Tuttavia speriamo che la nostra analisi sia d’incoraggiamento per ulteriori approfondimenti.

Note

  1. Il Professor Franz Buggle è docente in pensione del Dipartimento di Psicologia Clinica dell’Università Albert Ludwig di Freiburg/Breisgau (Belfortstrasse 18, 79098 Freiburg I. Breisgau, Germania); è autore di molti libri, tra i quali Empirische Untersuchung über die weltanschauliche Einstellung heutiger deutscher Universitätsstudenten, Meisenheim 1962, Denn sie wissen nicht, was sie glauben. Oder warum man redlicherweise nicht mehr Christ sein kann. Eine Streitschrift (Perché non sanno quello che credono. Ovvero: perché non si può più essere cristiani sinceramente), Reinbek, seconda edizione 1997.
  2. Inchiesta condotta da Der Spiegel (46, n. 25, 1992: 36-52) su: «Was glauben die Deutschen?» («Che cosa credono i tedeschi?»), basata su un’inchiesta dell’Istituto EMNID, «Sind Gläubige gesünder? Die positiven Wirkungen der Religion» («Sono i credenti più sani? Gli effetti positivi della religione»), in Psychologie heute 24, n. 6, 1997, basata sull’inchiesta menzionata.

La Redazione de L’Ateo ringrazia Dora Pfister del Bund gegen Anpassung (Postfach 254, D-79002 Freiburg, Germania) che, dopo aver preso contatto con noi, in Campo de’ Fiori a Roma, in occasione delle manifestazioni per il 400° anniversario del rogo di Giordano Bruno, ci ha fatto pervenire questa sintesi delle ricerche compiute.