Anche l’ateismo è una fede religiosa?

Joachim Kahl. Anche l’ateismo è una fede religiosa? Riflessioni per la fondazione d’un ateismo non dogmatico

Nei dibattiti filosofico-religiosi mi si obietta immancabilmente: anche tu, col tuo ateismo, sostieni soltanto una specie peculiare del credere. Il tuo ateismo è altrettanto indimostrabile quanto la nostra fede religiosa. Non hai nessuna superiorità di conoscenza razionale. Tutte e due, credenza in dio e negazione di dio, sono parimenti indimostrate e indimostrabili. Incompatibili dal punto di vista argomentativo ma esteriormente paritarie, si fronteggiano qui una professione di fede ateistica ed una religiosa. Che cosa vi si può replicare?

Per cominciare, bisogna mettere in chiaro che, su questo, si assume subito una posizione di retroguardia di tipo storico e teoretico. In tale posizione, poco o nulla è rimasto della trascorsa presunzione per cui la propria fede - in quanto unica vera fede - era garantita in maniera convincente e assoluta da svariate rivelazioni, da sacre scritture e da innumerevoli miracoli. Solo un diabolico ottenebramento, di conseguenza, farebbe perseverare le persone nella peccaminosa e criminosa miscredenza!

La tua religione sia l’ateismo! Oramai, in tutti i casi, all’ateismo compete il medesimo status gnoseologico riconosciuto alla propria religione: quello di essere una fede indimostrabile tra le diverse possibili. In questo contesto, si preferisce rinunciare all’accusa minacciosa e anatemica della miscredenza, di modo che la religiosità appare come un’ineludibile struttura antropologica: anche tu, ateo, sei dunque un credente! La tua religione è, per l’appunto, l’ateismo.

Ecco che, di fatto, l’ateismo deve rinunziare alla pretesa di essere dimostrabile in modo assoluto. Come interpretazione filosofica globale del mondo, l’ateismo è indimostrabile né più né meno di quanto lo sia ogni altra affermazione sul mondo come un tutto. Ogni proposizione sul mondo come globalità ha lo status gnoseologico di un’ipotesi metafisica che, al disotto del piano d’una impossibile dimostrabilità, può essere sostenuta con argomenti oppure svuotata empiricamente.

Poiché il soggetto della conoscenza umana, inevitabilmente e immutabilmente, è esso stesso parte del mondo, non può mai osservare il mondo come un insieme, per così dire dall’esterno, bensì può riconoscerlo soltanto da un determinato punto di osservazione interno al mondo: in maniera quindi settoriale, relativista e prospettivistica.

In seguito, dall’intreccio concettuale di moltissime conoscenze empiristiche, si lascia quindi costruire un modello del mondo: quella ipotesi metafisica sul contesto globale, sul carattere globale del mondo. Come costruzione transempirica (vale a dire che va oltre l’esperienza) del Tutto, questo modello non è univocamente verificabile né dimostrabile empiricamente. E per la precisa ragione che la totalità infinita si sottrae naturalmente ad una analisi confermatrice da parte di un soggetto di finitezza.

E tuttavia, questa situazione conoscitiva - come è definita fin dagli albori dell’età moderna grazie a Cartesio, a Leibniz e a Kant - non contiene un salvacondotto per arbitrarie soluzioni relativistiche e agnostiche. Tra interpretazioni del mondo rivaleggianti e di tipo metafisico - poniamo tra fede in dio e ateismo - non sussiste solamente la possibilità di professioni di fede o non fede confrontative o dogmatiche.

Un mondo senza Dio. Sussiste anche, almeno da parte d’un ateismo non dogmatico, la possibilità d’un procedimento argomentativo, di raffronto, secondo prospettive di plausibilità. Si tratta cioè di trovare un’ipotesi abbastanza esplicativa per l’esistenza del mondo, per il suo essere come di fatto è, nonché di progettare un convincente modello di costruzione per il suo funzionale contesto strutturale. A questo punto, lo si può constatare spassionatamente: senza l’ipotesi dio il mondo si lascia comprendere in modo molto più convincente, con più chiarezza e più sincerità, oltreché in maniera immune da contraddizioni, ben più di quanto non avvenga con tale ipotesi!

Tutto quanto le scienze hanno scoperto sull’incommensurabilità dell’Universo, sull’evoluzione degli organismi e sul cervello dell’uomo, non si lascia conciliare - o è possibile solo in maniera forzata e artificiosa - con la credenza in un padre provvidente e giusto.

È credibile e ragionevole voler vedere, nei moti di fuga delle galassie e nel gioco fortuito di mutazione e selezione, un senso più profondo e più alto, o addirittura il volto amorevole di un creatore personale? Di quale e quanta assurdità ci crede capaci il mito cristiano del redentore: che Dio si sia incarnato in un essere umano su un minuscolo pianeta d’una stella rotante nel braccio d’una qualsiasi galassia! Ne esistono miliardi, di queste galassie. La pretesa di redenzione del crocifisso sul Golgota da un lato, la nostra conoscenza della struttura del cosmo dall’altro, non ce la fanno proprio a stare insieme.

Credenza in dio e ateismo poggiano entrambe sul medesimo terreno gnoseologico, nella misura in cui - come espressioni sul tutto della realtà - si sottraggono ad una rigorosa dimostrabilità. Ma nella stessa misura in cui entrambe esprimono altresì qualcosa su aspetti vissuti della realtà, esse si espongono inevitabilmente alla controllabilità empirica, vale a dire alla confutabilità.

All’ateismo, questa delimitazione della pretesa reca la salutare correzione d’una auto-equivocità fondamentalistica. Quanto alla fede in Dio, ne derivano conseguenze catastrofiche. Perché il richiamo ad una superiore saggezza, in conseguenza d’un privilegiato acquisto di conoscenza grazie a rivelazione, Spirito santo e scritture sacre, viene così implicitamente abbandonato. Oltre a ciò, la superstite fede in dio sopravvive con danni crescenti alla prova di durezza da parte della realtà quotidiana.

Prendiamo, quale esempio incontestabile di autentica fede in Dio, il Salmo 23 che, nella traduzione d Martin Lutero, suona così:

«L’Eterno è il mio pastore, nulla mi mancherà.
Egli mi fa giacere in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l’anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
E quand’anche camminassi in una valle oscura
io non temerei male alcuno, perché tu sei meco;
il tuo bastone e la tua verga son quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa
al cospetto dei miei nemici.
Tu ungi il mio capo con olio; e ricolmi il mio calice.
Beni e benignità mi accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del Signore
per lunghi giorni».

La si potrà girare e rigirare a piacimento, si potrà fare l’esegesi storico-critica del testo, o interpretarlo allegoricamente: le nude e crude vicissitudini storiche di Ebrei e Cristiani - gli uni con gli altri, o gli uni contro gli altri, in questo secolo come in tutte le epoche precedenti - smascherano questa classica testimonianza di ingenua fiducia in dio come illusione e autoinganno. La tradizionale, antica metamorfosi dell’orante che s’identifica nella pecora mi strappa, a seconda dello stato d’animo, un sentimento di pietà o un ghigno di sarcasmo.

In maniera selettiva, nell’analisi, il testo biblico manifesta la differenza sostanziale tra credenza religiosa e ateismo scettico, non dogmatico.

La fede religiosa è certezza di salvazione, fede speranzosa e candida speranza nella forza protettiva, conservatrice, redentrice dell’intervento divino - qui e ora - e per tutti tempi: in ogni circostanza, in tutte le traversie dell’esistere.

L’ateismo scettico, non dogmatico, non conosce alcuna certezza di salvazione, è vero, ma in compenso respinge qualsiasi certezza di condanna e perdizione, progettando invece - con animo disincantato e fedele alla terra - una vita umanamente degna, al di qua di cielo e inferno. Anziché starsene a sperare eternamente una chimerica redenzione, gli atei cooperano soltanto alla liberazione. La condizione suprema che conoscono è quella di essere felici nell’infelicità, di cui conviene essere consapevoli con dignità e umorismo.

L’Autore

Joachim Kahl, conseguito il dottorato di teologia nel 1966, abbandonò presto il mondo ecclesiastico, pubblicando nel 1968 il fondamentale saggio storico La miseria del cristianesimo, un classico della storiografia critica (una sintesi dell’opera si può leggere in questo sito nella sezione «Diamo le Opere»); del medesimo autore abbiamo pubblicato Non esiste alcun dio (L’Ateo n. 2/1997) e Punti cardinali d’un umanismo ateo (L’Ateo n. 1/1999). L’articolo presente, dal titolo originale Ist Atheismus auch nur ein religiöser Glaube? è tratto da Diesseits n. 49, Rivista di Umanismo e Illuminismo, organo del HVD (Unione Umanistica di Germania), edito a Berlino, ed è tradotto in italiano da Luciano Franceschetti.