Editoriale

di Luciano Franceschetti

Con tutti i crismi. Ma c’è differenza tra religione e superstizione? Eccome!, assicurano teologi e prelati, spalleggiati da opinionisti e presentatori, spiegando seriosamente al popolo - perlopiù televisivo e radiofonico - come e qualmente la zuppa differisca dal pan bagnato. Prendete una setta, più o meno satanica, un pochino stravagante (o sinistramente cupa) già nella denominazione, piccolina (non più di qualche centinaio di adepti) - insomma… piccola brutta e cattiva! - associatela nella memoria a clamorosi episodi di plagî comunitari, di suicidio-omicidio collettivo: e otterrete subito l’effetto di siderale distanza tra una superstizione minima (frammenti nella fascia di asteroidi) ed una setta massima e massiccia (una religione «pianeta»), definita «religione di Stato»: provvista, manco a dirlo, di tutti i crismi dell’ufficialità. Che tale rimane ancora a tutti gli effetti, anche per la Costituzione e lo Stato, il quale allora ci può siglare intese e accordi. Non appena lo Stato riconoscerà la qualifica DOC di «religione» alla nuova denominazione (per esempio Scientology), ogni benpensante potrà devolverle tranquillamente il suo bravo otto per mille. Per prenotarsi un posto sulle nuvole, accanto al Grande Vecchio dalla candida barba.

Orgoglio ateo. C’è chi va fiero della propria bravura al bigliardo, chi si gloria d’una sua perizia in cose più stravaganti. Esistono certamente cause ben più «nobili» (seppure poco raccomandabili, come la fierezza nazionalistica, per esempio), ma perché noi non dovremmo essere orgogliosi di abbracciare un pensiero «forte» quale l’ateismo, fieri di aver scelto quella visione del mondo che, a certi livelli di consapevolezza, resta la madre di tutte le libertà e di tutte le diversità? Siamo obiettivi; pur non condividendo personalmente la scelta (spesso coatta) delle persone omosessuali, i non credenti guardano con simpatia al baldanzoso e ormai celebre Gay «pride» che - nella seconda metà del ventesimo secolo - ha fatto uscire dalla clandestinità, almeno nelle società più evolute, milioni di uomini e donne fino allora vergognosi della propria condizione, atterriti da persecuzioni e repressioni secolari. Non diremmo, no, che gli atei debbano ispirarsi ad un modello analogo; tuttavia, per gli aspetti concernenti l’affrancamento e l’accettazione sociale della «categoria», mette conto di riflettere sull’efficacia vincente dello slogan e dell’azione di questi «diversi» per antonomasia. Non dissimilmente, anche gli atei - una minoranza di persone «diverse» quant’altre mai - sentono oggi di dover uscire allo scoperto, di riconoscersi senza anacronistiche reticenze né sciocchi «pudori», per far valere i propri diritti e dichiararsi serenamente in tutte le sedi opportune; di camminare, insomma, a testa alta. E allora, chi ha paura di questa specie di orgoglio?

Incendiari o pompieri? Quel loro pacifismo di maniera, ipocrita e predicatorio, i cattolici lo proclamano da sempre. Ne hanno fatto strumento di propaganda nel 1991 (guerra del Golfo), e lo strombazzano oggi più che mai per i Balcani. Certo che i «fedeli» la condannano, la guerra, abominevole sì, ma solo fino a quando non ci sia da salvare l’eterna civiltà cristiana - minacciata ieri da esecrate «orde» barbariche, musulmane, ateocomuniste, oggi da capitalismi, da globalizzazioni e da consimili «grandesatana» - perché allora si può star sicuri che ogni guerra diventerà giusta e sacrosanta: basterà dire «crociata». Come per incanto, trombe e campane suoneranno allora per la soluzione finale più «sublime»: pulizia etnica e religiosa, un tutt’uno. Non è forse vero che tra i nuovi nazionalismi (chiamati oggi etnie, o identità etniche), il ruolo catalizzatore lo esercitano in ultima analisi le confessioni religiose? Cristiane o no, poco importa. Conta invece il riarmo degli spiriti, serve l’eccitazione delle menti pervertite dalle fedi, quella verbosa e funesta componente «spirituale». Ben venga dunque la stessa pasqua ortodossa! L’abbiamo visto ora a Belgrado. Ciò che conta è suscitare e alimentare nei popoli accoliti le fiamme dell’odio e del fanatismo, per poi riproporsi a spegnerle, a consolare gli afflitti, in questa perenne ambivalenza di ruoli: di servi e padroni, di avvelenatori e di medici, di predicatori e combattenti. Da missionari perfetti: armati di fedi incendiarie e pompieristiche insieme. Cristiani, attenti all’Islam! Umanità, attenta alle «civiltà» religiose! Altro che ecumenismo, altro che costruttori di pace.

Fede come droga. Di questa, è evidente che fedeli integralisti e fondamentalisti ne assumono in overdose massiccia. Ovvio altresì che i fedeli «moderati», ossia la stragrande massa degli osservanti (seguaci in realtà ignari e indifferenti), non possano non considerare fanatici e criminali quei loro correligionari, senza tuttavia rendersi conto di costituirne essi - di fatto - la legittimazione e la riserva inesauribile. Pensate alle comuni patologie tossicologiche o comportamentali (alcolismo, tabagismo, anoressia e bulimia, droghe e simili) per le quali è largamente riconosciuta l’efficacia dell’aiuto, spesso anonimo, soprattutto da parte di chi è uscito dal tunnel di quei morbi, di origine perlopiù psichica. Analoghe anomalie psichiche sono certamente insite nel virus fideista, quasi dappertutto trasmesso e inoculato nei loro pargoletti (in perfetta «buona fede» naturalmente) da genitori candidamente ligî alle tradizioni avite. Una fede «genetica», una trasmissione geopolitica, una droga «familiare». Vi sembra blasfema, la cosa? Meditate, gente, meditate seriamente sulle responsabilità di questo irreversibile contagio infantile, sulla penosa insania della pedagogia catechistica, che si radica inestirpabile nell’età scolare. O almeno, cari genitori, accettate di discuterne. È tempo di ripensare secolari inerzie mentali, inveterate usanze «etniche». E di farlo serenamente, con animo consapevole di educatori.a