Prova fisica e biologica della apersonalità di Dio

di Carmelo R. Viola

L’antica diatriba attorno all’esistenza di Dio è priva di fondamento scientifico. L’oggetto del contendere, tanto per cominciare, non è… Dio - una realtà da definire - ma uno o più concetti di Dio, che i contendenti hanno già nella propria testa ancor prima di affermarne l’esistenza o di negarla. In altre parole, Dio esiste o meno a seconda della definizione che se ne dà: definire Dio equivale a stabilirne o meno l’esistenza.

Non ha senso chiedersi e chiedere se si creda o meno in Dio. La domanda giusta è «che cosa s’intenda per Dio in cui si dice di credere». La definizione afferma o nega Dio a seconda che la stessa sia compatibile o meno con la logica della realtà - o soltanto con la realtà.

Definire Dio un ente personale equivale a negarlo, mentre affermare che Dio non esiste equivale a ritenere tutto Dio. Infatti, Dio è una parola-maschera, dietro cui si nasconde - nascondiamo - la realtà e, più precisamente, la vita, anzi il mistero della vita. Visto che la vita è inspiegabile, «inventiamo» Dio per spiegarcela. Poiché Dio - presunta spiegazione della vita - è necessariamente posto fuori della vita, proprio per questo nega sé stesso come causa della vita stessa.

Una semplice esercitazione mentale, condotta senza preclusioni e senza riserve, ovvero con assoluta sincerità intellettuale, ci dice quello che invano chiediamo a una letteratura sconfinata di parole tanto inutili quanto spesso oscure ed equivoche. Anzitutto, cerchiamo Dio perché temiamo l’ignoto del mondo e del nostro destino, insomma perché ne abbiamo bisogno. Il che toglie ogni merito all’eventuale «fede» e a quanto si fa per esserne degni. Se potessimo difenderci dall’ambiente circostante senza rischio e conservarci indefinitamente nel tempo, non ne avremmo bisogno - ciascuno di noi sarebbe un Dio!

 

Giustifichiamo la ricerca di Dio dicendo - bugiardamente - che lo amiamo, mentre amiamo solo noi stessi ed eventualmente coloro con cui possiamo mutuare la sicurezza contro l’ignoto. È impossibile amare «qualcuno» con cui non abbiamo nulla da mutuare. Dio non può volere alcunché da noi. Amiamo Dio come amiamo un «parto» della nostra mente. E, dal momento che siamo noi stessi a «creare» l’idea-immagine di Dio, tanto vale farcela su misura (per l’appunto a nostra somiglianza) dandogli una personalità (cioè umanità), che è la proiezione del nostro stesso «io». È un Dio di soccorso e di servizio. In questo modo, abbiamo trovato Dio prima di cercarlo per il solo fatto di averne bisogno (e di volerlo), e tutti i ragionamenti, che noi facciamo per giustificarne la ricerca e per affermarne l’esistenza, sono predeterminati dal nostro stesso inconscio. Apriorismi viscerali, che cadono alle prove più elementari.

Prova fisica. Se è vero che il creatore dev’essere esterno e superiore alla creatura, Dio, creatore del mondo, dovrebbe essere fuori dello spazio, il quale, essendo necessariamente infinito, non lascia alcunché fuori di sé. Dio, come altro-dal-mondo, è una contraddizione in termini.

Controprova. Un ipotetico Dio, distinto dal mondo - cioè antropomorfo, alias personale, non potrebbe fare essere la più piccola parte del mondo senza identificarsi con questa stessa. Il creatore dev’essere presente nella creatura fino a contenerla. Ergo, Dio è la vita stessa nelle sue varie manifestazioni nel tempo e nello spazio, e quindi è apersonale.

 

Prova biologica. Se Dio fosse persona, e quindi (umanamente) sensibile al dolore delle sue Creature, per es. dei bambini (simbolo di innocenza totale), il dolore non esisterebbe. Ma il dolore è solo il momento negativo del panta-rei biologico. Se Dio fosse onnipotente, e quindi capace di prevenire il dolore del mondo, cioè di ridurre la biologicità al solo polo-valore positivo (piacere), egli contravverrebbe alle leggi, biologiche, da lui stesso create: sarebbe stato più logico non crearle. Sarebbe eccezione a sé stesso, il che è evidentemente assurdo. Il miracolo, come eccezione alla necessità biologica, non esiste.

Conclusione. L’unico concetto biocompatibile di Dio, anzi della divinità, è quello che lo assimila alla vita, anzi alla Vita. Semmai fosse ipotizzabile una distinzione fra la creatura - o creato - e il creatore, essa sarebbe possibile solo assimilando la prima al cosmo, il secondo alla potenzialità biòfila del caos (da cui sarebbe venuto - verrebbe ciclicamente - il secondo), ovvero a due momenti alternativi e complementari, agenti all’interno di un tutto, che ci riporta all’infinito e all’impossibilità di contenerlo concettualmente, proprio perchè infinito.

Quello del Dio personale è un falso problema. Perché Dio non può essere altro dalla Vita, che, in fondo, siamo noi stessi, condannati ad accettarci come vapori di un liquido biologico in eterna ebollizione, ma incapaci di farlo proprio perché la coscienza della nostra precarietà è parte di un’onnipotenza che appartiene solo al Tutto. Che è apersonale.