Giulio Cesare Vanini. A 400 anni dal «morire allegramente da filosofi»

di Franco Tommasi

 

«Vorrei una copia de “L’Ateo” per favore»
«Si, l’abbiamo. Ma prima mi dica: lei sa chi è Giulio Cesare Vanini?» 
«No»
«Allora mi dispiace, vada ad informarsi e poi torni».

Questo (o uno di segno diametralmente opposto, a seconda dei punti di vista sul marketing) potrebbe essere un dialogo tra un aspirante lettore de L’Ateo e un venditore della rivista. Sì, perché è appena concepibile che un lettore di questa rivista non conosca colui che i suoi assassini e i loro complici definirono “Principe”, “Aquila”, “Cesare”, “Apostolo”, “Patriarca” degli atei.

E voi lo conoscete? No? Non siate troppo imbarazzati, siete purtroppo in compagnia della maggioranza. Ed è un fatto che lascia sbalorditi: com’è possibile che colui che Schopenhauer considerò suo predecessore, colui al quale Hegel dedicò sette pagine della sua storia della filosofia, il personaggio al quale per secoli, a più riprese, l’Europa del libero pensiero ha guardato come il gigante, l’eroe e il martire della lotta contro le catene imposte dalla religione, sia oggi così sconosciuto proprio nel suo paese? Proveremo a spiegarlo. Ma cominciamo dall’inizio. 

Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, un paesino dell’attuale provincia di Lecce, il 19 gennaio 1585, entra nell’ordine carmelitano a 18 anni e consegue a Napoli il titolo di dottore in diritto civile e canonico nel giugno del 1606. Nel 1612 riceve un provvedimento disciplinare dal generale dell’ordine e l’anno dopo fugge in Inghilterra insieme a un confratello, con l’intenzione di abbracciare la religione anglicana. I due frati sono presi sotto protezione dall’Arcivescovo di Canterbury, colpito dalle loro doti intellettuali, ma ben presto si rendono conto di essere caduti dalla padella nella brace e cominciano a progettare un rientro in Italia. D’altra parte l’Arcivescovo si rende conto prima della riluttanza dei due a sottomettersi sinceramente all’autorità religiosa e poi dei loro tentativi di riallacciare segretamente dei contatti con il mondo cattolico. Li fa arrestare ma fuggono (forse con un aiutino dal Re Giacomo che preferisce evitare impicci). La contrattazione con i cattolici li vede diffidenti e, nel dubbio, rimangono a Genova, dove Vanini fa il precettore in casa Doria. L’arresto dell’altro frate cancella le esitazioni e Vanini fugge in Francia, dove pubblica, col suo vero nome e con tanto di imprimatur cattolico, due opere in latino, a Lione l’Amphiteatrum [1], e a Parigi il De Admirandis [2]. 

Mentre le sue opere incontrano un cospicuo quanto imprevisto successo nei circoli atei e libertini di Parigi, facendo con ciò capire ai teologi della Sorbona che gli avevano concesso l’approvazione ecclesiastica di aver commesso una grossa sciocchezza, approda a Tolosa con il falso nome di Pomponio Usciglio, convinto di cavarsela. Tuttavia la sua scarsa prudenza nel manifestare, sia pure in relazioni private, il proprio sentire, lo tradisce. Il 2 agosto 1618 viene arrestato su mandato del Parlamento di Tolosa e subisce, da parte di un tribunale civile, un processo che dura mesi perché ai giudici che cercano di incastrarlo con ogni mezzo egli oppone con grande scaltrezza la sua sterminata erudizione, protestandosi fedelissimo cattolico. Finché, non trovando altro modo, i giudici ricorrono ad una falsa testimonianza e lo accusano di ateismo (all’epoca reato di lesa maestà perché, negando Dio, si negava il fondamento del potere regio). «Certamente fu più facile bruciare Vanini che confutarlo», commenterà amaramente Schopenhauer due secoli dopo. La condanna e l’esecuzione arrivano il 9 febbraio 1619. Perduta ogni speranza di salvezza, Vanini getta la maschera e proclama con fierezza il suo ateismo. Uno dei gesuiti, suoi acerrimi nemici, riferirà di avergli sentito dire «Non esiste né un Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro, non ne farò nulla». E andando al patibolo, poco prima che gli fosse strappata con le tenaglie la lingua, pronuncia le sue ultime parole, in italiano, «Andiamo a morire allegramente da filosofi», che impressioneranno persino i suoi aguzzini e rimarranno nei secoli a ricordare la sua morte eroica.

Strangolato e bruciato, finisce il Vanini uomo e, con la circolazione clandestina dei due testi già menzionati, gli unici sopravvissuti alla distruzione, comincia la sua leggenda, nera per alcuni, luminosa per altri, immotivata per altri ancora. Prima di ricordare chi siano gli uni e gli altri, sarà bene dire qualcosa sul contenuto di questi scritti.

Per farlo è indispensabile ricordare il clima in cui essi vengono alla luce. Siamo in uno dei periodi più cupi della Controriforma. Giordano Bruno ha subito da poco la sorte delle castagne e Galileo gode già delle attenzioni del cardinale Bellarmino e dell’Inquisizione. In Europa si uccideva da decenni per molto meno che un’apologia dell’ateismo. Per superare il muro della censura e salvare la pelle, Vanini adotta la strategia della dissimulazione e la mette in pratica con un vasto arsenale di tecniche. Fa sostenere le sue idee a dei personaggi immaginari che dichiara di aver conosciuto nel suo peregrinare per l’Europa, se ne dichiara scandalizzato o le confuta con argomentazioni così deboli da funzionare come sostegno ad esse. Oppure le esprime e poi dice che sarebbe tentato di crederci ma se ne guarda bene perché la Chiesa cattolica glielo vieta. Oppure attacca le credenze religiose dei pagani mostrando quanto siano ridicole e assurde e vantando la superiorità della religione cristiana (ma il lettore comprende subito come argomenti e sarcasmo siano ovviamente applicabili anche ad essa). E ancora (per tutto il De Admirandis) utilizzando la forma del dialogo, nella quale il personaggio ingenuo dice le cose più compromettenti e quello erudito finge di confutarle. Il tutto strizzando l’occhio agli spiriti liberi dell’epoca, in una deliziosa cornice di ironia e di humour che oggi appaiono più attuali che mai, dandoci l’impressione di essere convinto che i bigotti suoi contemporanei fossero troppo gretti e ignoranti per coglierli. E va detto che, almeno all’inizio fu proprio così, poiché, come già accennato, più che l’acume dei censori, a perderlo fu probabilmente proprio il suo successo tra i libertini.

Al lettore non dispiacerà ricevere qualche assaggio delle sue tecniche dissimulatorie [3]:

Se non fosse per la Chiesa…
(Anfiteatro – ESERCITAZIONE XXVII)

Ma il corpo non risorgerà senza l’anima; oppure, dove sarà l’anima, se non ci sarà la resurrezione della carne? Io, Cristiano di nome e Cattolico di cognome, se non fossi stato istruito dalla Chiesa, che è maestra certissima e infallibile di verità, a stento avrei potuto credere nell’immortalità della nostra anima. E non arrossisco a confessare ciò, anzi me ne vanto, perché sono in linea con l’insegnamento di S. Paolo che subordina l’intelletto al totale rispetto della fede, che in me è abbastanza tenace. Essa, infatti, si fonda su questo principio: «Così Dio ha detto». Perciò anche il santissimo padre Agostino, nel libro IV, cap. 24, del De baptismo afferma: «Non crederei al Vangelo se non mi spingesse l’autorità della Chiesa». Ma proprio nel Vangelo i Sadducei sono biasimati per aver negato l’immortalità dell’anima. Affinché non si ascriva il mio silenzio ad un vizio di ignoranza, mi proverò a patrocinare la causa dell’immortalità dell’anima con argomentazioni sottilissime, frutto delle mie meditazioni.

E prosegue con una serie di arzigogoli apparentemente inconcludenti ma che in fin dei conti vanno a corroborare la causa opposta.

Ma quale demonio!
(I Meravigliosi Segreti – DIALOGO LIVGLI INDEMONIATI)

Volendo sostenere che gli indemoniati non siano posseduti dal demonio ma che in realtà soffrano solo di problemi psicologici (“umori melanconici”:

Alessandro: Ma tu come giudichi i frenetici volgarmente detti indemoniati?

Giulio Cesare: Mi sottometto alla Sacrosanta Chiesa Romana. D’altra parte, so che molti (la religione vieta di dire tutti) di coloro che sono ritenuti pervasi dal demone sono solo tormentati dagli umori melanconici. Ed infatti, curata la melanconia con appropriate medicine, essi guariscono.

Uno sketch degno dei Monty Python
(Anfiteatro – ESERCITAZIONE VIII)

Alcuni atei rammolliti non hanno alcun pudore di mettere in dubbio la certezza dei miracoli, perché essi dicono di non averne mai visto alcuno ed anzi di aver anche interrogato i più anziani per sapere da essi se potessero dare sicura testimonianza di qualche miracolo. Tutti rispondevano di non aver mai visto niente con i propri occhi, ma solo di averne sentito parlare. Le vecchiette, poi, affermano di essere state testimoni oculari anche di miracoli di lieve entità che si possono comodamente ricondurre ad una causa naturale. Ma che cosa vanno blaterando costoro simili a pecore più che a uomini, dal momento che la sacrosanta Chiesa Cattolica non dichiara nessuno santo se non quando molti testimoni, sul cui conto non si può sollevare nessuna eccezione, attestino con certezza infallibile che egli abbia compiuto moltissimi miracoli. Personalmente ho assistito ad un fatto che senza dubbio fu un grandissimo miracolo: si tratta di un cieco che riebbe la vista ad opera della B. Vergine. Permettetemi di darne un resoconto. Nella Puglia, che un tempo era chiamata Magna Grecia, si trova una cittadina che risponde al nome di Presicce, poco distante dalla nostra patria. Nel suburbio di quella cittadina fu trovata l’immagine della Vergine Madre di Dio, che, secondo la solita consuetudine, tutti veneravano con grande onore e con profondissimo senso religioso. Ne sentì parlare un tale, cieco dalla nascita, il quale, fattosi condurre da un fanciullo o da una cagna, si affrettò a visitare il tempio della Vergine, si inginocchiò in atto di adorazione e, pregando liberamente, si addormentò. Quando finalmente si svegliò, si accorse di vedere, ma alzandosi si rese conto d’esser diventato zoppo.

Vespasiano era un truffatore, i cristiani invece…
(I Meravigliosi Segreti – DIALOGO IVLA GUARIGIONE DELLE MALATTIE CAPITATA MIRACOLOSAMENTE AD ALCUNI AL TEMPO DELLA RELIGIONE PAGANA)

Giulio Cesare: Vespasiano, comprendendo che con la religione si conservano e si accrescono i domini, venuto a conoscenza soprattutto dell’esempio di Numa Pompilio e di Romolo, per essere tenuto in più grande venerazione da parte dei sudditi, osò far credere di essere munito di potere divino. Perciò io sospetto che egli abbia supplicato, ed anzi abbia costretto con denaro, due suoi sudditi («A che cosa non costringi i petti umani, o maledetta sete dell’oro!») affinché uno si fingesse cieco e l’altro zoppo e affinché si avvicinassero all’imperatore davanti al tutto il popolo, implorando la guarigione e poi si dichiarassero guariti.

Alessandro: Guai ad essi che ebbero anima venale!

Giulio Cesare: Guai ad essi (dice Machiavelli) perché indubbiamente l’imperatore darà a qualcuno l’incarico di ucciderli con il veleno per allontanare dal suo animo ogni preoccupazione che la frode possa essere scoperta.

Alle accuse di mendacia dei miracoli dei pagani nessuno dei suoi censori oserebbe replicare, ma per mettere in chiaro cosa ne pensi davvero, nella pagina precedente si è premurato di citare un inattaccabile verso evangelico («Gesù non poteva fare miracoli a causa della loro incredulità», Mt 13:58), lasciando intendere, velatamente ma non troppo, che anche Gesù avesse bisogno della credulità popolare per procedere.

Io ateo? Non sia mai?
(I Meravigliosi Segreti – DIALOGO LX – I SOGNI)

Giulio Cesare: Suvvia, andiamo! Perché il giorno volge ormai alla fine e la disputa si è protratta fino a sera. E vogliamo che ognuna delle parole che abbiamo detto sia soggetta al divino responso della Chiesa Romana della quale fu nominato dallo spirito Santo interprete infallibile Paolo V, figlio della chiarissima casa Borghese. E se le cose dette non si accordano alla perfezione con i precetti ecclesiastici – ciò che stenterei a credere – siano considerate come non dette.

Come si vede, sia pure con le cautele imposte da un contesto rischiosissimo e rivelatesi insufficienti, Vanini non risparmia ironia e frecciate verso i suoi avversari. Rivive in lui dopo un millennio e mezzo lo spirito di Luciano di Samosata, che egli peraltro menziona più volte con evidente ammirazione. Solo che Luciano, in quell’impero Romano del quale calunniosamente la tradizione cristiana ama rappresentare l’intolleranza religiosa, poteva liberamente beffarsi delle “imposture dei sacerdoti” di ogni religione, mentre Vanini, in uno Stato cristiano, pagò le critiche alla religione cattolica con una morte atroce.

Se al lettore attento non può sfuggire il geniale e caustico umorismo di cui sono intrise le pagine del Salentino, meno facile è cogliere in esse, nel profluvio di erudizione, nel divertito affastellare di miti, leggende, opinioni, gli aspetti innovativi e le rotture con la tradizione filosofica ricevuta. Per farlo occorrono lo sguardo e i saperi di uno specialista. Ci contenteremo qui di citare poche righe di Francesco Paolo Raimondi, uno dei maggiori protagonisti contemporanei della rinascita degli studi vaniniani, lasciando il grosso del compito al suo stesso seguente articolo.

Scrive Raimondi: «[…] il De admirandis, che pretende di essere in qualche modo il breviario o l’introduzione alla scienza moderna. Ben inteso: Vanini non ha le necessarie attrezzature culturali e scientifiche per la costruzione di un progetto di così alto livello; egli è, come Bacone, l’araldo, il buccinator della nuova scienza, della quale si limita a tracciare tutt’al più la cornice teorica, senza riuscire a riempirla di positivi contenuti. Con tutti i suoi limiti e le sue incertezze e con la sua spasmodica ricerca di ipotesi, non sempre felici e anzi talvolta anche inconcludenti, ma sempre riconducibili all’interno dei meccanismi della natura, il De admirandis è uno splendido esempio di un’intuizione pressoché aurorale del mondo moderno e della scienza nuova».

E ancora: «L’intuizione più rimarchevole e più profonda di Vanini è che l’autonomia della ragione umana e quella della natura sono i capisaldi della fondazione della scienza moderna: tutto il suo impegno scientifico si consuma nella demolizione delle sovrastrutture del sapere di matrice scolastica e teologica che contrastano con tale processo o che comunque lo ostacolano. E di ciò egli ebbe forse più degli stessi artefici della scienza moderna una consapevolezza piena e senza tentennamenti di sorta, con in più l’apertura ad estendere l’indagine scientifica dai fenomeni della natura a quelli sociali e culturali».

Ma proprio il titolo della conferenza del prof. Raimondi riportata in queste pagine, ci richiama ad un altro bene, forse il più prezioso tra quelli che Vanini è riuscito a trasmetterci, nonostante le mille difficoltà di una vita spesa a errare, perseguitato, nell’Europa del primo ‘600: l’incontenibile anelito verso la libertà del pensiero e della ricerca, pur nella consapevolezza del rischio tremendo comportato dal tentativo di spezzare le catene ad essi imposte dalla tradizione, dall’autorità, dalla religione.

Come accolse la cultura europea il lascito del filosofo? Accennando alla vasta e diversa fortuna di Vanini, dicevamo più sopra che i primi a cogliere il senso e il valore della sua opera furono gli ambienti libertini. Li seguirono i gesuiti, che compresero immediatamente la portata devastante dei suoi scritti e si affrettarono a demonizzarli insieme al loro autore, come bene dettaglia la conferenza del prof. Cavaillé qui pubblicata. V’è persino chi ha sostenuto (Schweling nel 1690) che il gesuita Mersenne spinse Cartesio a scrivere le sue Meditationes, per «reprimere il veleno nocivo dell’ateismo che Vanini aveva sparso per tutta la Francia».

E fin qui nulla di particolarmente sorprendente. Quello che lascia di stucco è invece il trattamento riservato a Vanini dagli illuministi. Nel Dizionario Filosofico, Voltaire insulta apertamente Vanini e denigra le sue idee. E non si limita a questo ma mette anche in discussione il suo ateismo, dichiarandolo falso e ponendosi in pratica sullo stesso piano intellettivo dei bigotti ai quali erano rivolti i beffardi proclami di cattolicità del Salentino. Non è ironico e insieme amaro che i carnefici di Vanini abbiano compreso perfettamente dove i testi di Vanini andassero a parare e che Voltaire, principe dei lumi e immortale maestro di ironia, non se ne sia reso conto? Ma è davvero così? Si fatica a crederlo. Tanto da essere spinti a cercare spiegazioni alternative.

Intanto è strano che Voltaire dedichi a quello che definisce «un povero prete napoletano», «un pedante forestiero privo di meriti [che] non era affatto un ateo», tanto spazio nella sua opera. Poi ci ricordiamo che Voltaire non era nuovo a simili stramberie. Poco prima aveva pubblicato Extrait des sentiments de Jean Meslier nel quale le virulente memorie anticristiane che il curato di Étrépigny aveva fatto scoprire dopo la sua morte, erano state private dei passi più esplicitamente atei. E allora ci viene da pensare che il deista Voltaire abbia preferito censurare l’ateo Vanini, visto che, tra l’altro, essere atei significava automaticamente essere contro la corona, una posizione dalla quale, almeno fino a un certo punto, l’illuminismo si tenne distante. E del resto un’altra simile stravaganza, sospettiamo dettata dalla stessa causa, fa mostra di sé nell’Encyclopédie. Ci credereste? Il monumento letterario dell’Illuminismo, dedica una lunga, bizzarra e incredibile voce a Taurisano, uno sperduto paesino del Salento (luogo di nascita del nostro nonché una sorta di Timbuctù visto da Parigi), per evitare di dare rilievo alla figura del filosofo, troppo noto per essere passato del tutto sotto silenzio. E naturalmente la voce è esclusivamente dedicata ad una pesante demolizione del Salentino.

La fortuna vaniniana procede nei secoli tra alti e bassi. Della venerazione a lui riservata dalla filosofia e dalla cultura tedesca dell’800 abbiamo detto, Hölderlin gli dedicò persino una struggente poesia. Per l’Italia anticlericale di fine ‘800 poi Vanini divenne una bandiera, trovando posto in un medaglione incastonato nella base del monumento a Giordano Bruno in Campo dei Fiori. Speculare, prevedibile, e ancora oggi carica di effetti, la damnatio memoriae a lui riservata dalla cultura cattolica. Imprevedibile quanto sciagurato, invece, il colpo basso tiratogli da un suo conterraneo, Luigi Corvaglia, intorno alla metà del ‘900. Il Corvaglia si rende conto di quante delle tesi e delle osservazioni di Vanini siano riprese da Pomponazzi, Cardano, Scaligero e, peccando oltremisura di quello che giustamente Raimondi definisce “iperfilologismo”, non comprende in che misura il riciclo di idee altrui operato dal filosofo sia prima di tutto una strategia difensiva e quanto l’originalità di Vanini non vada cercata tanto in singole affermazioni innovative, che pure non mancano, ma nel modo di riorganizzare idee già espresse al suo tempo dando all’insieme un nuovo senso, nella sua visione complessiva. Per cogliere il senso e la portata del suo erculeo lavoro di scardinamento dei ceppi posti dalla teologia all’ampliamento della conoscenza e alla libera evoluzione del pensiero, occorreva voler liberare i concetti dalla coltre dissimulatoria che li ricopriva, non fermarsi alla lettera e dimostrare una capacità di sintesi come quella che hanno saputo mettere in campo non solo gli studiosi più recenti ma, sembra incredibile, anche i suoi contemporanei. E parliamo dei suoi estimatori, libertini e liberi pensatori, ma, ahimé, anche dei suoi più mortali nemici, i gesuiti come Garasse e Mersenne. Purtroppo, il giudizio di questo studioso, sommato ad altri poco lusinghieri del passato, fu strumentalizzato da chi, per motivi che non è difficile intuire, aveva tutto l’interesse a distruggere la figura di Vanini e produsse conseguenze che non è stato facile contrastare.

Fortunatamente dagli anni 70 del ‘900 si assiste a una progressiva e perdurante rivalutazione dell’opera del Salentino che comincia oggi ad essere restituito alla sua reale statura. Dalla sistematica omissione della menzione del filosofo in precedenti manuali scolastici si è passati alla dedica di più pagine in testi di prestigio, come la Storia della Filosofia curata da Umberto Eco.

Vivida testimonianza dell’interesse per la riscoperta dell’opera del filosofo e della sua vicenda eroica è stata la straboccante partecipazione di pubblico al convegno organizzato esattamente a quattro secoli dal suo martirio a Lecce e Taurisano, dal quale sono tratte le due belle relazioni qui riportate.

Per concludere, diamo qualche breve indicazione bibliografica per chi voglia approfondire la conoscenza del Salentino.

Cominciamo con due piacevoli letture introduttive di cui è autore il giovane studioso salentino Mario Carparelli: Morire allegramente da filosofi, Piccolo catechismo per atei, Il Prato 2011, una gustosa raccolta di passi estratti dalle due opere vaniniane, e Il più bello e il più maligno spirito che abbia mai conosciuto, Giulio Cesare Vanini nei documenti e nelle testimonianze, Il Prato 2013.

Segnaliamo poi il profondo e completo volume di Francesco Paolo Raimondi, Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento, 2a ed., Aracne 2015.

Infine, il testo più importante: Giulio Cesare Vanini, Tutte le opere, a cura di Francesco Paolo Raimondi e Mario Carparelli, Bompiani 2010, l’edizione completa delle opere di Vanini nella prestigiosa collana Il Pensiero Occidentale, una scorrevole traduzione con testo a fronte, corredata da una corposa introduzione dello stesso Raimondi e da un imponente apparato critico.

 

Note

[1] Amphitheatrum Aeternae Providentiae – Divino-Magicum, Christiano-Physicum, Nec Non Astrologo-Catholicum. Adversus Veteres Philosophos, Atheos, Epicureos, Peripateticos, & Stoicos (Anfiteatro dell’Eterna Provvidenza – Divino-Magico, Cristiano- Fisico, nonché Astrologico-Cattolico contro gli antichi filosofi atei, epicurei, peripatetici e stoici), Lione 1615.

[2] De Admirandis Naturae Reginae Deaeque Mortalium Arcanis (I Meravigliosi Segreti della Natura, Regina e Dea dei Mortali), Parigi 1616.

[3] Tutte le traduzioni sono tratte da: Giulio Cesare Vanini, Tutte le opere, a cura di Francesco Paolo Raimondi e Mario Carparelli, Il Pensiero Occidentale, Bompiani 2010.

 

Franco Tommasi è nato a Calimera (Lecce) nel 1957. È professore associato di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Innovazione dell’Università del Salento. Cultore di storia delle origini del cristianesimo, ha conseguito un diploma di master in Studi storico-religiosi presso L’Orientale di Napoli. È autore del volume Non c’è Cristo che tenga. Silenzi, invenzioni e imbarazzi alle origini del Cristianesimo. Qual è il Gesù storico più credibile? (Manni 2014).

Da L’ATEO 4/2019