La religione spiegata? Quasi. Conversazione con Pascal Boyer

di Stefano Bigliardi

 

Con il libro Religion Explained (2001) [1] Pascal Boyer ha apportato un contributo fondamentale e innovativo alla comprensione del fenomeno religioso. In questo libro, scorrevole, ma denso, analitico e acuto, pubblicato in traduzione italiana solo nel 2010 [2], Boyer affronta la religione secondo la prospettiva dell’antropologo cognitivo, cercando cioè di comprendere quali caratteristiche dei concetti e dei racconti religiosi siano comuni a tutte le religioni e quali siano i meccanismi mentali sottostanti a quegli stessi concetti e racconti.

Attraverso una serie di nozioni e di esempi tratti dalla psicologia cognitiva, dall’antropologia, dalla linguistica e dalla biologia evoluzionistica, Boyer ci guida a scoprire che la religione non è solo, o tanto, il “sonno della ragione”, una spiegazione ingenua dei fenomeni naturali, una fonte di consolazione rispetto agli orrori dell’esistenza, o una copertura e giustificazione per strutture di potere e di dominio. Per di più, sottolinea Boyer, non c’è modo di verificare alcuna ipotesi storica sulla nascita della religione, visto che, banalmente, non possiamo tornare indietro e osservare che cosa è davvero accaduto in un remoto passato.

Dobbiamo invece partire da un’osservazione del funzionamento dei concetti religiosi, secondo Boyer, concentrandoci sulle loro somiglianze nonostante le differenze culturali. La stessa struttura cognitiva, osserva Boyer, si ritrova sotto le narrazioni delle religioni più diverse: per esempio la credenza in agenti soprannaturali che interagiscono con gli umani pur sottraendosi alla percezione sensibile ordinaria, com’è il caso di geni e spiritelli che si ritrovano a tutte le latitudini, che “ci sono” anche se non li vediamo come vediamo le persone attorno a noi. Inoltre, fa notare Boyer, le credenze religiose sono “strampalate” solo fino a un certo punto. In nessuna religione, per esempio, si crede che Dio sappia tutto ma lo dimentichi immediatamente o che cessi di esistere una volta a settimana. I concetti religiosi, secondo Boyer, sono un “sottoprodotto”, un effetto secondario, di come funziona la nostra mente e sono per questo, in un certo senso, perfettamente “ragionevoli”: sono strani abbastanza da catturare l’attenzione e da favorire la memorizzazione, ma non bizzarri al punto da non consentire di usarli in modo creativo e narrativo. Per continuare con il primo esempio citato: gli spiritelli di tante tradizioni sono spesso descritti come invisibili, ma esiste anche tutta una serie di tecniche e di azioni che consentono di dedurne la presenza, di placarli, di tenerli a distanza, proprio come si fa con agenti non invisibili come esseri umani o animali. Mentre di un Dio che dimentica tutto, o che si astiene dall’esistere il mercoledì, non sappiamo, letteralmente, che cosa farcene (al massimo può essere il soggetto di un racconto molto sofisticato, ma non di un tipo che si possa diffondere oralmente a un grandissimo numero di persone).

E ancora, consideriamo l’“irragionevole” credenza in un’anima che sopravvive alla morte: potremmo pensare, a tutta prima, che sia soprattutto fonte di consolazione rispetto alla morte stessa (la propria o quella di una persona cara); ma, a riflettere bene, in certe tradizioni, l’anima, anche di un parente, è fonte di minaccia per chi rimane, o comunque di numerosi e tediosi obblighi. La credenza nell’immortalità dell’anima, suggerisce Boyer, scaturisce piuttosto da una esperienza che si ripete dalla notte dei tempi, e che è tanto inevitabile quanto cognitivamente contraddittoria: il trovarsi in presenza di un cadavere, oggetto che se pure, di fatto, non interagisce più con noi, al tempo stesso, con il suo mero aspetto, continua comunque a far scattare in noi tutte le associazioni concettuali legate all’attività di un essere vivente («se gli parlo ascolta, capisce, reagisce…»).

È impossibile ricostruire in poche righe un testo come Religion Explained, che invito caldamente a leggere chi ancora non lo conosca [3]. Magari contestualizzando e approfondendo le ipotesi di Boyer attraverso gli altri libri che lui stesso consiglia in appendice. Si tratta però di una pietra miliare nella comprensione critica della religione, e ho deciso non solo di consigliarlo ai lettori nonostante i quasi due decenni trascorsi dalla sua pubblicazione, ma anche di raggiungere (virtualmente) Pascal Boyer, attualmente Henry Luce Professor of Collective and Individual Memory presso la Washington University in St. Louis [4] per fare il punto della teoria esposta in Religion Explained e per incalzarlo con qualche domanda [5].

Stefano Bigliardi SB. Caro professore, Religion Explained è un libro altamente interdisciplinare. Quali sono le esperienze di ricerca che contribuirono alla sua stesura? Ci fu qualcosa di paragonabile alla leggendaria “mela di Newton”? Si trattò di un processo lineare o qualche volta si accorse di essere fuori strada?

Pascal Boyer PB. Non mi paragonerei a Newton… Quanto al percorso che ha portato a Religion Explained, è stato caratterizzato da una grande continuità. Dopo il dottorato andai a Cambridge per lavorare con Jack Goody [6], che aveva svolto moltissimo lavoro all’intersezione tra psicologia e antropologia. Era particolarmente interessato al modo in cui le persone trasmettono conoscenze culturali nelle società caratterizzate dall’oralità: nelle società, cioè, in cui non si ricordano le cose mettendole per iscritto. Questo dunque fu lo stesso punto su cui mi misi a lavorare io, cercando di comprendere quali meccanismi cognitivi usasse la “mia” tribù in Camerun per trasmettere opere letterarie molto lunghe.

Questo mi indirizzò verso una domanda più generale: quali sono i meccanismi psicologici che ci permettono di trasmettere le tradizioni? Lavorandoci, arrivai gradualmente alla conclusione per cui non aveva senso pensare alle culture umane senza prendere in considerazione l’evoluzione. Ci siamo evoluti fino ad avere particolari capacità e disposizioni, ed è per questo che le culture umane sono come sono.

Decisi dunque di indagare il nesso tra le facoltà cognitive evolute e la trasmissione culturale nel campo dei concetti religiosi. Scelsi questo tema non solo a causa della sua ovvia importanza storica e sociale, ma anche perché è una sfida che si pone a qualunque modello antropologico basato su ipotesi evoluzionistico-psicologiche. I concetti e i comportamenti religiosi si annoverano, almeno all’apparenza, tra le costruzioni culturali più variabili e, a differenza di altri tipi di rappresentazione, non subiscono forti limitazioni da parte della realtà.

SB. Quali spiegazioni della religione competono con il Suo modello? Secondo Lei, la Sua spiegazione rimpiazza le altre, o le integra?

PB. La maggior parte degli studiosi che si occupano degli aspetti cognitivi della religione considerano, come me, i concetti religiosi come un effetto secondario [by-product] del modo in cui funzionano le nostre menti. In altre parole, non siamo stati plasmati dall’evoluzione perché avessimo concetti religiosi, ma l’evoluzione ci ha plasmati in un modo tale che possiamo acquisire una religione, proprio come possiamo sviluppare il gusto per la musica o per la narrativa.

Altri studiosi pongono l’accento sul fatto che le religioni hanno un impatto sulla coesione sociale. Secondo il loro punto di vista, le religioni tendono a rendere le persone più cooperative, il che poi consente di costruire società su vasta scala.

Queste prospettive potrebbero integrarsi a vicenda. C’è ancora molta ricerca da fare prima di capire quanto uno dei due modelli spiega (o quanto entrambi spiegano) le diversità e le analogie dei sistemi religiosi.

SB. Il libro Religion Explained è stato pubblicato quasi vent’anni fa. Nel frattempo, ha raffinato degli elementi della Sua teoria, o ne ha scartati? Se sì, quali?

PB. Sì, e non solo io. In molti hanno svolto ricerche sulla trasmissione dei concetti religiosi mostrando che l’immagine che ne fornisco nel libro forse è troppo semplice, anche se valida nel complesso. Inoltre, dei ricercatori hanno indagato il nesso tra i rituali religiosi e la psicologia delle minacce e della cautela. L’idea, in altre parole, è che determinati rituali possano far scattare dei pensieri su dei potenziali pericoli e sulle precauzioni appropriate da prendere. Questo spiega molti elementi dei rituali. È un tema che ho indagato insieme a Pierre Liénard [7].

Infine, molti più ricercatori stanno attualmente lavorando su modelli formali e studi empirici della trasmissione culturale. Per esempio, molti si concentrano su come si propagano le dicerie, e su come la comunicazione attraverso Internet supporti la diffusione di varie idee. Tutte ricerche che contribuiscono a precisare ulteriormente la nostra comprensione di come si diffondono le religioni.

SB. In generale, Lei suggerisce che la religione sia un sottoprodotto della mente umana, cioè del bagaglio cognitivo di cui è dotata, e che lo possiamo comprendere ancor meglio se lo paragoniamo a quello di altre specie. Questo, genericamente parlando, apparenta il Suo lavoro all’ateismo filosofico, visto che si tratta di ridurre la religione a un processo naturale. Ma c’è un nesso anche con l’ateismo inteso come impegno sociale per l’ateismo e la laicità? Una volta che si siano compresi i meccanismi mentali che stanno dietro alla religione, rimane spazio per intervenire (cioè per “ridurre” la religione, per così dire)? E in che misura? E, se è possibile, è anche consigliabile? Senza religione staremmo meglio?

PB. Spiegare la religione come un effetto secondario del modo in cui è fatta la nostra mente non significa automaticamente affrontare questioni metafisiche. Uno può pensare che questo tipo di spiegazione ci porti allo scetticismo. Ma altri possono pensare che invece proprio una simile spiegazione mostri la verità di una religione: Dio (o gli dèi) hanno creato le nostre menti in modo tale che scoprissimo la verità della religione… Quanto alla seconda domanda: secondo me la creazione di regimi autoritari, la limitazione della libertà di pensiero e di espressione, il fanatismo e la violenza sono tutti aspetti socialmente negativi delle religioni che però possono essere creati, e anzi sono stati creati, in molti tempi e luoghi, senza ricorso a temi religiosi. Quindi avere meno religione, posto che sia possibile, non è una garanzia di una società migliore.

SB Mi lasci giocare per un secondo all’avvocato del diavolo (o se preferisce di Dio). In primo luogo, una persona religiosa potrebbe leggere il Suo libro e dire: «Beh, questa è la spiegazione dell’ovvio. Ci dice come la mente umana tratta i concetti religiosi, ma la mente umana è appunto quello che abbiamo. Non c’è modo di effettuare uno studio comparativo con, poniamo, un’altra umanità con lo stesso tipo di mente ma priva di religione. E nemmeno le persone religiose negano che la religione sia umana: gli animali mica pregano!». In secondo luogo, sempre l’avvocato del diavolo (o di Dio) potrebbe dire: «Spiegare come la mente pensa i concetti religiosi non esclude l’esistenza reale di Dio, di esseri soprannaturali, o dell’aldilà, insomma di tutte quelle entità care alle persone religiose!». Lei come risponde?

PB. Rispondo che si tratta di commenti ragionevoli e infatti uno dei commenti dell’“avvocato del diavolo” l’ho anticipato io rispondendo a una delle domande precedenti. Però aggiungerei una considerazione: spiegare come le menti umane acquisiscono la religione è tutto tranne che ovvio. Anzi: abbiamo appena cominciato a capire quali sono gli specifici processi mentali che tale acquisizione coinvolge!

SB. Tanto la “religione” quanto la “scienza” sono in realtà insiemi di fenomeni diversi che per comodità etichettiamo con un’unica parola. Ed entrambi gli insiemi di fenomeni sono prodotti del nostro bagaglio cognitivo. Considerata la loro origine comune, Lei si sente comunque di favorire, o di attribuire maggiore importanza o oggettività, a una comprensione scientifica del mondo? L’oggettività esiste?

PB. Questa è una domanda per un filosofo della scienza. Penso che la risposta standard sia che le proposizioni della scienza possono essere sottoposte a test, a cui di fatto molte di queste proposizioni sono sottoposte, passando il test stesso. Senza dimenticare che su quelle proposizioni si basa una tecnologia funzionante… Quanto all’oggettività, è come la nozione chimica di purezza. Nessuna sostanza chimica è interamente e totalmente priva di impurità o di tracce di altre sostanze. Ma c’è una bella differenza tra l’acqua di una pozzanghera fangosa e l’acqua imbottigliata, ed è proprio quella differenza che conta.

SB. Si parla spesso di “religione opposta alla scienza”, o di “integrazione” tra le due. Io stesso insegno corsi sul tema… Da un punto di vista pragmatico, io trovo che abbia comunque senso continuare a usare quelle due etichette. E non solo perché ne dipende il mio lavoro: dopotutto, quando ci si inoltra in un nuovo territorio, prima di esplorare gli anfratti occorre orientarsi con mappe generali… Inoltre, di fatto, è nel nome “della scienza” e “della religione” che spesso le persone agiscono e pensano. Ma, come abbiamo già detto, ciascuna delle due corrisponde in realtà a tutta una varietà di fenomeni cognitivi. Se le comprendiamo in questo modo, non possiamo anche comprendere perché esistano persone perfettamente funzionali che si identificano come scientifiche e come religiose al tempo stesso?

PB. Sì, sono del tutto d’accordo. In realtà tutta la questione del “conflitto tra religione e scienza” si è ridotta drasticamente, se si considera la realtà delle cose. Nessuna persona seria pensa che il Corano o la Bibbia forniscano conoscenze, mettiamo, astronomiche o biologiche, più di quanto non faccia un ordinario manuale delle scuole superiori. È una lotta superata. Le persone che hanno una mente sia scientifica sia religiosa in realtà non mescolano scienza e religione, anche se possono essere convinte che si tratti di due ambiti che finiranno per confluire, in un qualche momento nel futuro.

SB. Il Suo modo di comprendere le cose non induce, in fin dei conti, a una visione un po’ pessimistica? Se Lei ha ragione, noi, come umanità, abbiamo sempre orientato le nostre azioni e progettato le nostre istituzioni secondo un modello sbagliato o, nel migliore dei casi, troppo semplificato, di come funziona la nostra mente, cioè di come funzioniamo noi; e continuiamo a farlo! Come considera Pascal Boyer le società umane, quando le guarda attraverso la lente del suo modo di comprendere la mente umana?

PB. No, non penso che sia una visione pessimistica. Il punto è che siamo inclini a certi tipi di idea a causa del modo in cui la nostra mente è costruita. Non c’è niente di intrinsecamente buono o cattivo al riguardo: così è la nostra natura, la natura umana. E della natura umana fanno parte anche la capacità di creare narrativa, musica, e arti visive.

 

Note

[1] Religion Explained. The Human Instincts that Fashion Gods, Spirits and Ancestors, New York, Basic Books, 2001 (io ho però letto l’edizione londinese di Vintage Books, del 2002).

[2] E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione, Bologna, Odoya, 2010.

[3] Vedere anche la recensione di Raffaele Carcano per L’Ateo (https://www.uaar.it/libri/uomo-creo-dei-come-spiegare-religione/) e la recente intervista, di Francesco Suman, per MicroMega: “In che dio credevano i nostri antenati evolutivi? Intervista a Pascal Boyer” (http://lameladinewton-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/0…).

[4] Vedere la pagina ufficiale (https://artsci.wustl.edu/faculty-staff/pascal-boyer) e quella personale (http://www.pascalboyer.net/).

[5] La conversazione si è svolta via mail tra il 27 gennaio e il 1° febbraio 2019. La traduzione dall’inglese è mia. Il testo originale è a disposizione di chi sia interessato. Ringrazio il professor Boyer per la disponibilità e la pazienza.

[6] Sir John Rankine Goody (1919-2015), antropologo britannico, attivo a Cambridge.

[7] Vedere la pagina ufficiale (https://www.unlv.edu/people/pierre-li%C3%A9nard).

Da L’ATEO 2/2019