Gli abusi sessuali del clero cattolico: un puzzle senza soluzione

di Marco Marzano

 

Sulla questione degli abusi sessuali del suo clero la chiesa cattolica rischia moltissimo. Per molto tempo le gerarchie cattoliche hanno sottovalutato o ignorato del tutto la questione, ma da una quindicina d’anni a questa parte, dall’esplosione del caso Spotlight in poi, e in misura crescente, la strategia della minimizzazione e dell’insabbiamento si è rivelata non più percorribile. Troppo profonde sono state le ondate di indignazione che ad ogni latitudine si sono levate contro Roma, troppo numerose le inchieste governative, i processi, gli scandali mediatici che hanno riguardato questo tema perché alla grande istituzione religiosa sia consentito di continuare a far finta di nulla.

Il vero dramma per la chiesa cattolica è che la questione non è davvero risolvibile senza rimettere radicalmente in discussione l’intero impianto organizzativo del cattolicesimo. Provo a spiegarmi. L’attenzione dell’opinione pubblica si è in tutti questi anni concentrata soprattutto sulla questione diciamo delle “coperture”, degli “insabbiamenti”, dei mancati interventi sanzionatori dei dirigenti ecclesiastici, in particolare dei vescovi, cioè dei responsabili a livello territoriale del comportamento del clero cattolico. Su questo punto la gerarchia ecclesiastica e i pontefici possono fare molto e hanno già fatto qualcosa. Già oggi è infatti divenuto estremamente rischioso per un vescovo che non voglia rischiare la propria poltrona proteggere disinvoltamente un prete abusatore. Il punto è però che, se tutto questo aumenta le possibilità che i colpevoli vengano individuati e perlomeno messi in condizione di non nuocere quando non denunciati alle autorità civili (negli Stati in cui ciò è obbligatorio), non diminuisce significativamente la possibilità che i crimini vengano commessi. Da questo punto di vista, lo sguardo va spostato dai vescovi alle strutture formative e alle procedure di reclutamento del nuovo clero. In altre parole, dobbiamo chiederci chi entri oggi nei seminari per iniziare la carriera ecclesiastica e che tipo di identità gli venga cucita addosso.

I seminaristi sono spesso, per ammissione di molti degli stessi loro formatori, giovani assai insicuri, timorosi di non sopravvivere in una società dove la competizione è spietata, desiderosi sopra ogni cosa della protezione e della sicurezza garantita da un’istituzione che detta loro istruzioni vincolanti per ogni aspetto della vita quotidiana; giovani in cerca di un “abito” dietro il quale nascondere la propria estrema fragilità (proprio quella che poi stigmatizzeranno dagli altari una volta “consacrati”). Assai di frequente questi ragazzi provengono dalle ridotte fila, sempre più esigue in società che si secolarizzano, della militanza parrocchiale, da famiglie che sognano il figlio prete o dai gruppi ecclesiali (Comunione e Liberazione, Neocatecumenali, Legionari di Cristo, eccetera) nei quali sono stati rigidamente addestrati e intruppati sin dall’infanzia. Molto spesso a motivare la decisione di entrare in seminario c’è anche il desiderio di non fare i conti con la questione della sessualità, c’è, ad esempio, la paura di un rapporto paritario e maturo con una donna o il sospetto (vissuto malissimo in famiglie dove l’omofobia è la regola) di essere attratti da persone dello stesso sesso, quando non la consapevolezza che, visto l’ambiente sociale nel quale si è cresciuti e si è costretti a vivere, per poter condurre, da omosessuali, una vita affettiva e sessuale decente diventare prete è l’unica alternativa praticabile all’emigrazione. Soprattutto per i primi due gruppi di ragazzi il problema principale è quello della tragica immaturità affettiva, della sublimazione negli orpelli del sacro di una sessualità totalmente rimossa.

Il seminario non può, per sua natura, aiutare questi giovani a risolvere il problema. Non può perché, malgrado l’intervento sempre più frequente di équipe di psicologi esterni all’istituzione, è centrato su un altro genere di attività, sulla formazione teologica, sull’astrattezza filosofica, sulla costruzione dell’identità del funzionario di Dio come creatura speciale, a metà tra il cielo e la terra. La vita sentimentale e sessuale nei seminari (pure intensa ovviamente, come in tutti i luoghi popolati di esseri umani) non può che assumere perciò una forma clandestina, essere relegata agli anfratti più oscuri e coperta dall’ipocrisia. I padri spirituali incaricati di seguire la formazione dei giovani, stante il vincolo del celibato obbligatorio, non possono ragionevolmente far altro che invitare i seminaristi che seguono ad apprendere i valori della rinuncia e dell’autocontrollo. Non esiste insomma uno sbocco felice per i drammi della sessualità e dell’affettività dei giovani seminaristi. Una volta divenuti preti, essi sostituiscono spesso la fonte della sublimazione: dal regime militaresco del seminario passano alla frenesia della vita parrocchiale, ai mille impegni, al contatto con migliaia di persone, alla gestione dei casi umani, ai problemi di ogni genere che gravano sulle loro spalle. Quella nuova vita non riesce comunque ad assopire del tutto, se non in casi rarissimi, la necessità di rapporti affettivi e sessuali. Con tutto quello che ne consegue, con la nascita di relazioni clandestine o con il passaggio ad una sessualità compulsiva. E talvolta con gli abusi, su grandi e piccini.

Insomma, per affrontare davvero la questione degli abusi commessi dai suoi funzionari la chiesa cattolica dovrebbe rimettere in discussione l’intero suo impianto culturale, politico e organizzativo. È molto improbabile che ciò avvenga. Ma di questo parleremo un’altra volta.

 

Marco Marzano è Professore di Sociologia dell’Organizzazione all’Università di Bergamo. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali e collabora regolarmente con il Fatto Quotidiano. Tra i suoi libri segnaliamo, oltre a La chiesa immobile (2018), La società orizzontale. Liberi senza padri (2017, con Nadia Urbinati) e Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della Chiesa in Italia (2012).

Da L’ATEO 6/2018