“L’utero è mio e lo gestisco io”: contraccezione e aborto nel movimento femminista degli anni Settanta

di Nadia Maria Filippini

 

Lo slogan che il movimento delle donne gridava nelle piazze negli anni Settanta metteva in campo un principio dirompente e radicalmente nuovo nella storia di genere: quello dell’autodeterminazione sul proprio corpo. Il cambiamento di prospettiva rispetto al movimento emancipazionista dell’Ottocento era profondo: non si trattava più solo di rivendicare diritti civili e politici, ma di affermare una libertà di scelta che si declinava sia sul versante della sessualità che su quello della maternità. La portata di questo principio risultava rivoluzionaria rispetto a millenni di costruzioni culturali, norme e disciplinamenti. Per la prima volta nella storia, le donne rivendicavano pubblicamente il diritto di decidere se, quando e come avere un figlio: la maternità non era più intesa come dovere morale o destino biologico, ma come scelta. In questo orizzonte di libertà di comportamenti sessuali il nesso che legava matrimonio e procreazione, come quello che univa sessualità e maternità, risultava messo in discussione.

La scoperta dei nuovi metodi contraccettivi forniva a questa prospettiva un valido supporto tecnico; un sussidio, non un motore nel percorso di liberazione, com’è stato correttamente puntualizzato. Il contraccettivo ormonale, messo a punto da Gregory Pincus nel 1956 con il sostegno di Margaret Sanger e Katharine McCormick (la cosiddetta “pillola”), si diffondeva negli anni Sessanta insieme ad altri metodi contraccettivi (diaframma, spirale), nell’ambito di una nuova prospettiva di programmazione delle nascite, di planning familiare, e di progressiva riduzione della natalità, che a partire dagli USA guadagnava l’Europa, innescando una “rivoluzione contraccettiva”, con una forte riduzione delle nascite [1].

In deroga a leggi ancora esistenti in vari paesi, una controinformazione capillare, fatta di opuscoli, ciclostilati, corsi di self-help, metteva a disposizione di tutte le conoscenze indispensabili per operare scelte consapevoli. Our Bodies Ourselves (1971), il libro scritto dalle donne per le donne, come sottolineava l’edizione italiana del best-seller tradotto in tutte le lingue europee, pubblicato dal Boston Women’s Health Book Collective [2], spaziava dalla fisiologia alla patologia, dalla sessualità all’aborto, dal parto all’allattamento.

Per alcune, questa libertà di scelta si concretizzava nel rifiuto della maternità (e/o della sessualità), sul quale incideva anche la distanza da un modello materno vissuto come subalterno. Molte invece cercavano nuovi percorsi che declinassero maternità e realizzazione di sé, maternità e gioia. Ne scaturivano rivendicazioni di una piena cittadinanza sociale, richieste di servizi che permettessero di coniugare lavoro e maternità (asili nido e scuole materne). Inseparabili da queste richieste erano quelle relative all’istituzione di consultori sessuali e di una revisione legislativa dell’aborto, in un fitto dibattito tra depenalizzazione e legalizzazione.

Questo tema mobilitò il movimento femminista in un’ampia serie di iniziative: dalle manifestazioni di massa all’organizzazione di aborti autogestiti, dalle autodenunce collettive alle mobilitazioni nei processi per aborto. Nel 1971, in Germania, 375 donne si autodenunciarono sulla rivista Stern per interruzione della gravidanza, come avvenne in Francia nel Manifeste des 343 salopes, firmato da autorevoli intellettuali del tempo, Simone de Beauvoir in primis. I processi a Marie-Claire Chevalier in Francia (1972) e a Gigliola Pierobon a Padova (1973) divennero occasioni di grandi manifestazioni. Intanto crescevano associazioni e gruppi, con lo scopo di fornire sostegno legale e pratico alle donne, come MLAC (Mouvement pour la Liberté de l’Avortement et Contraception) in Francia o in Italia il CISA (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto), fondato nel 1973 da Adele Faccio, Emma Bonino, Maria Adelaide Aglietta.

Il crescente coinvolgimento dell’opinione pubblica e l’appoggio dei partiti di sinistra (seppur tra distinguo e differenziazioni) portò, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, alla promulgazione di leggi sull’interruzione volontaria della gravidanza nella maggior parte dei paesi occidentali: in Gran Bretagna e in vari Stati USA (1967), in Germania (1974), Francia (1975), Portogallo e Spagna (1984, 1985). Negli USA una sentenza della Corte Suprema confermò, nel 1973, il diritto della donna di decidere l’interruzione della gravidanza, legittimando le legislazioni già promulgate in vari Stati. In Italia una storica sentenza della Corte Costituzionale dichiarava incostituzionale l’art. 546 del Codice penale che vietava l’aborto terapeutico, sancendo per la prima volta la priorità della vita materna su quella fetale. Tre anni dopo, nel 1978, il parlamento varava la legge 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza). L’opposizione della Chiesa e dei partiti cattolici fu particolarmente forte: in un clima di pesante scontro sociale, la legge fu sottoposta a un referendum abrogativo (1981). La vittoria che la riconfermava rivelava quanto fosse cambiata la mentalità collettiva, quanto fosse intimamente penetrato anche tra le donne delle classi popolari e cattoliche il principio della scelta della maternità.

Negli stessi anni vennero cancellate le leggi che vietavano la propaganda e l’uso dei contraccettivi: nel 1967 la legge Neuwirth li legalizzava in Francia e nel 1971 fu la volta dell’Italia, con l’abrogazione dell’art. 553 del Codice penale, per cui si era particolarmente battuta l’AIED (Associazione Italiana Educazione Demografica). Seguiva nel 1975 l’istituzione dei Consultori familiari (legge 405).

Si tratta di leggi importanti, che segnano una tappa cruciale nella storia delle donne, una specie di habeas corpus che fonda la cittadinanza femminile sul principio di autodeterminazione del proprio corpo. Va tuttavia segnalato che in alcune realtà, come l’Italia, la loro effettiva applicazione trova ancor oggi pesanti ostacoli legati alla scarsa diffusione dei consultori pubblici, sia soprattutto all’“obiezione di coscienza” […].

Negli anni Settanta il movimento femminista fu soprattutto un movimento “contro”, che intrecciava libertà e rivendicazione, autocoscienza e denuncia di quel potere che un neologismo definiva “falloscientifico”. Insieme contro era anche il significativo titolo di un libro di Clara Jourdan, nel quale l’autrice invitava le donne a unirsi:

Insieme per scoprire che possiamo riappropriarci del nostro corpo, contro un potere falloscientifico che ha cercato di trasformarlo in un oggetto passivo mal conosciuto, medicalizzato. Insieme per capire la nostra sessualità e i nostri reali bisogni, contro una concezione assistenziale e paternalistica della medicina di stato. Self-help, autocoscienza, centri per la salute della donna: una tappa essenziale verso la liberazione [3].

Al centro della critica stavano la Chiesa da un lato e la medicina dall’altro, individuate come responsabili di una repressione delle donne che trovava nella figura della strega il simbolo più esplicito: “le streghe siamo noi”, oltre che il titolo di un libro [4], era uno slogan riproposto nelle manifestazioni di piazza, spesso declinato nella forma combattiva: “tremate, le streghe son tornate!”. La critica alla medicalizzazione del parto, la denuncia del “biopotere” (in una declinazione di genere del fecondo lavoro di Foucault) s’intrecciavano a un lavoro concreto di organizzazione di consultori femministi, corsi di self-help e medicina alternativa. Il femminismo incrociava in questo percorso anche altri movimenti, come quello ecologista e di medicina democratica, in una convergenza importante e feconda, anche se non scevra di ambiguità e potenziali divergenze, che emergeranno soprattutto negli anni successivi.

 

Note

[1] In Italia, dal 1964 al 1987, si passa da una media di 2,6 a 1,3 figli per coppia (Antonio Golini, Profilo demografico della famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, p. 364).

[2] The Boston Women’s Health Book Collective, Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne, trad. it. Feltrinelli, Milano 1974.

[3] Clara Jourdan, Insieme contro. Esperienze dei consultori femministi, La Salamandra, Milano 1976 (dalla quarta di copertina).

[4] Barbara Ehrenreich, Deirdre English, Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna, tr. it. La Salamandra, Milano 1975.

 

Nadia Maria Filippini ha insegnato Storia delle Donne presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia ed è socia fondatrice della Società Italiana delle Storiche. Tra le sue opere ricordiamo La nascita straordinaria. Tra madre e figlio: la rivoluzione del taglio cesareo (sec. XVIII-XIX), Franco Angeli 1995 e Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea (con T. Plebani e A. Scattigno), Viella 2002. Questo testo è tratto, con alcune modifiche, da Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, Viella 2017, pp. 282-288.

Da L’ATEO 3/2018