Dal “Deus sive Natura” al “Natura sive Deus”

di Enrica Rota

 

Ormai è diventato virale. Non c’è luogo, non c’è momento della giornata in cui non ci venga proposto qualcosa di “naturale”: dai prodotti ortofrutticoli “bio” del supermercato a quelli di erboristeria in farmacia, dalle cure fitoterapiche alla cosmesi “verde”, dalle medicine alternative alle vacanze in agriturismo, dal ristorante macrobiotico a tutto il business dell’agroalimentare “ecologico” italiano … il “naturale” fa fine, è di tendenza, guai a criticarlo e, insomma … non se ne può più!

È il solito mito della natura buona e benefica che di volta in volta si è ripresentato nel corso dei secoli come vagheggiamento della favolosa età dell’oro, dell’Eden perduto, dell’Arcadia felice, di un mondo pristino, originario ed incontaminato al quale si vorrebbe ritornare. Ieri come oggi, il “naturale” viene contrapposto all’artificiale, ovvero a tutto ciò che è opera della volontà e delle attività umane e che viene ritenuto sommamente nocivo e deleterio.

Nonostante sia a prima vista molto allettante, il mito della “natura buona” è facilmente smontabile, e da vari punti di vista. Per iniziare, basta banalmente osservare che in natura non è tutto rose e fiori … dato che anche la cicuta, i funghi velenosi, le zanzare, le malattie e i terremoti sono “naturali”, e dunque non è valida l’equazione “naturale = buono” che sottende al pensiero dei fanatici “eco-bio”. Per dirla in maniera più sofisticata, non è lecito ricavare da un giudizio di fatto (“questo o quello è naturale”) un giudizio di valore (“questo o quello è perciò buono”). Lungi dal vagheggiare una natura buona originaria, potremmo anzi intendere i prodotti delle attività umane (le società e i progressi tecnico-scientifici in primis) come ciò che ci protegge e difende da una natura ostile [1].

Secondariamente, il concetto di natura è estremamente vago e sfuggente [2], perché soggetto a trasformazione nel tempo: ad esempio, esattamente fino a quando vorrebbero risalire gli ecologisti-bio per ritornare alla “vera” e “autentica” natura? Al periodo pre-industriale? Al periodo precedente la scoperta dell’America? All’antichità classica? Al tempo degli antichi egizi? All’età della pietra [3]? All’epoca dei dinosauri? Tutti questi periodi saranno probabilmente stati più “naturali” della nostra epoca, ma in ciascuno di essi la natura era differente, perché essa non è un qualcosa di sempiterno, invariabile ed astorico come sembrano pensare i suoi “cultori”, ma si modifica nel tempo, essendo soggetta a evoluzione (Charles Darwin insegna). Sarebbe forse anzi più corretto parlare di diverse “nature”, piuttosto che di “natura” al singolare.

C’è poi anche da dire che non è affatto facile districare ciò che è naturale da ciò che non lo è, una cosa di cui già Jean-Jacques Rousseau era molto cosciente [4] e che ha portato Emmanuel Mounier a formulare il felice paragone tra la natura umana e l’artificio [5]. Sempre Mounier metteva in evidenza come quella di natura sia un’idea conservatrice: «”La nature est à droite”, écrit quelque part Ramuz. Si la nature, c’est l’immobilité d’une image donnée une fois pour toutes par des imaginations pauvres qui ne se trouvent à l’aise que dans la répétition, la nature est en effet une idée conservatrice» [6].

Ma non è stato sempre così. Quando nel XVII secolo Baruch Spinoza tirò dio giù dalla trascendenza per piazzarlo saldamente nell’immanenza, “naturalizzandolo”, insomma, e così conferendo alla natura uno status di “assolutezza” che prima non possedeva, la sua fu ai tempi un’operazione decisamente eversiva e sommamente invisa ai preti, forse ancor più dell’ateismo tout court. E così, i pensatori panteisti come lui, a partire da Giordano Bruno [7], fecero spesso una brutta fine e come minimo furono costretti a pubblicare anonimamente le loro opere oppure a non pubblicarle affatto. “Deus sive Natura”: questo è il classico “logo” del panteismo, che ben descrive l’operazione di naturalizzazione di dio che lo contraddistingue.

I nostri amici macro-eco-bio, che a modo loro assolutizzano anch’essi la natura, sottraendola alla storia e considerandola come l’origine di ogni bene in contrapposizione alla “cultura” (o “artificio” che dir si voglia), fanno l’operazione opposta: invece di naturalizzare dio, divinizzano la natura: “Natura sive Deus”, per l’appunto, però questa operazione non ha nulla di eversivo ma semmai ha tutte le caratteristiche di un’evasione e spesso ha alla sua radice l’atteggiamento decadente tipico dei “radical-chic” di tutti i tempi.

 

Note

[1] Sostenitori del concetto della natura “matrigna” furono ad esempio Giacomo Leopardi ma anche Thomas Hobbes, che affermava che allo “stato di natura” la vita dell’uomo è misera, sgradevole, brutale e breve.

[2] J.-J. Rousseau, nella Prefazione al Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, affermava che lo “stato di natura” è «uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai …».

[3] Questo periodo potrebbe ad esempio essere il preferito dei “crudisti”, che per l’appunto si nutrono soltanto di cibi crudi, quelli quindi di cui l’uomo si nutriva prima di aver imparato ad utilizzare il fuoco.

[4] Riferendosi alla natura dell’uomo, Jean-Jacques Rousseau scriveva: «E come l’uomo verrà mai a capo di vedersi tal quale natura l’ha formato, attraverso tutti i cangiamenti che la successione dei tempi e delle cose ha dovuto produrre nella sua costituzione originaria; e di svincolare ciò che deve alla propria essenza intima da ciò che le circostanze ed i suoi progressi hanno aggiunto o mutato nel suo stato primitivo?» (ibid.). Il concetto di “natura umana” è tanto ambiguo quanto quelli di “natura” e di “stato di natura”.

[5] E. Mounier, La nature de l’homme, c’est l’artifice, in La petite peur du XXe siècle.

[6] «”La natura è a destra”, scrive da qualche parte Ramuz. Se la natura è l’immobilità di una immagine determinata una volta per tutte da immaginazioni povere che si trovano a loro agio solo nella ripetizione, la natura è in effetti una idea conservatrice» (ibid., trad. mia).

[7] In realtà, per essere precisi, per Spinoza si parla forse più propriamente di “panenteismo” e per Giordano Bruno di “panpsichismo”, ma non è qui il caso di andare tanto per il sottile.

Da L’ATEO 2/2018