Razzismo... malattia senile dell’antropocentrismo

Da uno studio sull’insegnamento dell’evoluzione nelle scuole italiane

di Marco Vannini

 

In Italia non esiste quella diffusa ostilità nei riguardi del pensiero evoluzionista che si registra in buona parte degli Stati Uniti e di questo va dato merito anche alla nostra scuola che da almeno 50 anni propone libri di testo e programmi in cui l’evoluzione è presente e viene più o meno ben trattata. Problemi ed eccezioni ci sono: alcuni ministri hanno ad esempio tentato di correggere la rotta e non sempre gli insegnanti hanno tempo e voglia di trattare a fondo il problema dell’evoluzione ma complessivamente, almeno fino ad oggi, direi che Darwin nelle scuole italiana se la cava più che bene.

Analizzando i libri di testo italiani di biologia, dall’Unità ad oggi, è possibile constatare che la trattazione dell’evoluzione è passata attraverso diversi periodi e così è successo alla trattazione delle razze umane, argomento tradizionalmente presentato nei testi scolastici, a fianco dell’esposizione dei Primati. L’insieme dei 121 manuali esaminati (dovrebbero costituire oltre il 90% di quelli apparsi) può essere suddiviso in quattro gruppi corrispondenti grosso modo a quattro diverse fasi storiche: il positivismo, il fascismo, il primo dopoguerra, dagli anni ’60 ad oggi. Durante il periodo che va dall’Unità d’Italia all’avvento del fascismo, i libri di testo si dividono tra quelli che ignorano o contestano le acquisizioni delle nascenti teorie evoluzionistiche (il darwinismo ma non solo) e quelli che invece le sposano con entusiasmo.

Nel testo del naturalista pugliese Antonio Aloi (1887), si legge: «la maggior parte dei Naturalisti ritiene che le specie sieno produzioni immutabili e che ogni specie sia stata creata separatamente ma la cosa non può più reggersi di fronte ai principi della teoria evolutiva che contraddicono il concetto della stabilità delle serie e dei loro termini». Contemporaneamente si afferma che la specie umana è unica, suddivisa in quattro razze di cui la caucasica «è la razza più perfezionata».

Nel testo del medico napoletano Paolo Carucci (1890) si illustrano le varie teorie evoluzionistiche dell’epoca e al momento di trattare le razze: «la razza bianca sia per predominio di perfezione organica, sia per caratteri intellettuali e morali, è superiore a tutte le altre razze. … il ramo europeo è quello che ha preso maggiore sviluppo ed estensione: ad esso è affidato l’incarico di portare ovunque la civilizzazione».

Due esempi di come la battaglia culturale “positiva”, sostanzialmente razionalista e laica, si sposi spesso con una visione razzista che non solo codifica le razze umane (non di rado in modo ingenuo e approssimativo, parlando a volte di specie e a volte di razze, con numeri che possono andare da quattro a oltre dieci) ma ne propone una gerarchia in cui ovviamente il bianco europeo è al vertice.

Il testo del 1900 di Achille Griffini, allievo del Lessona, dedica ben 14 pagine all’evoluzione (un vero record!) sostenendo che «… non mi si obbietti che queste teorie (evolutive) non sono universalmente ammesse … esse non sono ammesse da chi non le conosce o da chi ne ha una falsa idea o da chi non sa ragionare». Ma in compenso elenca una elevata lista di specie (sic!) umane tra cui «Homo niger, gli uomini sono inerti, imprevidenti e leggeri. Passano facilmente dal dolore all’allegria; amano le danze notturne, la musica e passano frequentemente il giorno nell’ozio e nel sonno … Homo ottentottus che è certamente una specie molto inferiore e ben diversa dalle antecedenti. Sono uomini di scarsissima intelligenza incapaci di riflettere e le cui voci sono solo alcuni suoni gutturali».

In un altro testo del 1908 (Ciro Raulich) si insiste sul fatto «che la razza caucasica o bianca fra le razze umane è la più elevata sia nei riguardi fisici che negli intellettuali». Questo doppio presunto primato compare spesso anche in altri testi: non solo siamo i più intelligenti ma anche quelli fisicamente più dotati. Immagino che ci vollero le Olimpiadi di Berlino del 1936 per far sorgere il dubbio che in fondo gli “ariani” non fossero così superdotati come veniva spiegato loro.

È sbagliato pensare che l’atteggiamento razzista fosse frutto delle incerte conoscenze antropologiche dell’epoca. In un testo del 1909 di Lambert Moschen (un naturalista trentino) si legge un’affermazione straordinariamente moderna per cui «le così dette classificazioni delle razze umane sono in generale ordinamenti di popoli, ossia di aggregati caotici d’individui appartenenti a varie razze che sono distinti principalmente dalla distribuzione geografica e dal linguaggio».

Con l’affermarsi del fascismo, i testi sono sempre caratterizzati da un rigido antropocentrismo ma le dichiarazioni razziste tendono a ridursi, almeno nei libri di scienze. Nel 1926, in pieno fascismo, Lino Vaccari, autore di uno dei testi di Scienze più usato in tutte le scuole del Regno, scrive che l’evoluzione, sì, esiste ed è vero che «nessun abisso, adunque, ci separa da questi [gli animali superiori]. Nessuno, ma con ciò non intendo dire che l’uomo sia identico agli animali, al contrario noi siamo al vertice di una lunga catena di perfezione, con la lampreda, vermiciattolo parassita, al capo opposto». Detto questo però, nessun accenno alle razze umane.

Antonio Neviani, autore di un altro diffusissimo manuale, scrive (1934) che l’uomo è un primate ma superiore da tutti i punti di vista, incluso l’aspetto fisico. Nostro compito è assoggettare le forze brute della natura e cambiare la faccia della Terra, «… quasi che l’uomo fatto padrone del mondo, servendosi dei doni largiti da Dio, fosse destinato a fare apparire più bella l’opera del Creatore».

Negli anni successivi si riduce la presenza di manuali che citano l’evoluzione mentre finiscono per scomparire i manuali di tipo razzista. Persino lo scienziato evoluzionista Giuseppe Colosi pubblica nel 1936 un manuale di 411 pagine in cui solo mezza pagina è dedicata all’evoluzione e nemmeno un rigo al problema delle razze.

Nei libri di testo emessi dal 1938 al 1945, nonostante le leggi razziali (1938), si parla pochissimo di evoluzione e comunque mai di razze superiori o inferiori. In un manuale del 1940, Augusto Stefanelli si limita ad alludere alle leggi di Mendel e a come queste governino la forma del naso e i colori degli occhi nei diversi tipi umani, nonostante avesse contemporaneamente prodotto un’opera non scolastica, dedicata alla biologia delle razze, in cui, tra l’altro, si afferma che la razza ariana possiede una preminenza muscolare su tutte le altre mentre gli africani «mancano del senso della gratitudine, della fedeltà, della pietà ed ammirano nel Bianco, più che l’intelligenza, la forza e il coraggio. Preferiscono il dolce far niente sebbene possano divenire buoni lavoratori e buoni meccanici».

Nel dopo guerra la situazione si fa ancora più grama per Darwin: l’evoluzione sparisce dai libri di testo, ma in compenso la elencazione delle razze e la loro gerarchia scompare anch’essa definitivamente. Dobbiamo arrivare al 1963 e al manuale curato dal grande genetista italiano Giuseppe Montalenti (1904-1990), per vedere ricomparire l’evoluzione (il testo addirittura inizia parlando di evoluzione!) e trovare un capitolo in cui si discute il concetto di razza nella nostra specie illustrandone l’inconsistenza biologica e soprattutto negando l’esistenza di una qualche forma di gerarchia.

Da allora, per tutto il successivo mezzo secolo, i manuali scolastici hanno seguitato regolarmente a dare spazio all’evoluzione, presentando spesso delle corrette descrizioni dei vari gruppi umani, restando però ancorati ad un modello sostanzialmente antropocentrico dell’evoluzione stessa in cui il razzismo fa capolino, più o meno involontariamente. Almeno fino alla fine del ‘900 le rappresentazioni grafiche dell’evoluzione sono spesso costituite da alberi sormontati da un membro della nostra specie, maschio, bianco e a volte persino in giacca e cravatta con in mano un giornale, in una efficace sintesi di antropocentrismo (la nostra specie), maschilismo (il sesso maschile) e razzismo (il bianco, colto). In altri casi l’albero è sormontato comunque da una scimmia antropomorfa o, più raramente, da un altro mammifero. Il concetto non cambia: l’albero evolutivo presenta, all’apice, se non noi un nostro progenitore o comunque un nostro stretto parente.

È mia opinione che la credenza che la vita, all’interno della ricchezza di forme variabile per taglia e complessità presenti però una sorta di apice, e che questo apice sia costituito da una speciale scimmia antropomorfa è la migliore premessa per sostenere che anche all’interno della variabilità di tipi umani ve ne sia uno speciale, una razza privilegiata rispetto alle altre in vario grado inferiori. Ritengo che una pedagogia che riuscisse precocemente a sgombrare il campo dal concetto di gerarchia evolutiva e mostrasse che la ricchezza della vita è costituita dalla sua varietà e non dalla sua immaginaria gerarchia costituirebbe una buona premessa per spiegare quanto le diverse culture ed etnie siano una ricchezza e non diversi gradi di una immaginaria perfezione.

 

Marco Vannini (1943), Ordinario di Zoologia presso l’Università degli Studi di Firenze, autore, oltre a numerose memorie scientifiche, di una Breve storia della vita animale ovvero quattro miliardi di anni di errori e di insuccessi (Ed. EMMEBI, Firenze 2014).

Da L’ATEO 1/2018