L’Uaar fra trent’anni

di Raffaele Carcano

 

Non amo i compleanni. Non capisco cosa ci sarebbe da festeggiare: che si è ulteriormente invecchiati? Non amo nemmeno le feste comandate, quelle religiose come quelle civili. Anni fa, dopo aver rischiato di essere colpito da un petardo vagante, volevo addirittura fondare l’A.De.Cap., l’Associazione dei Detrattori del Capodanno. Che l’ultimo giorno dell’anno avrebbe organizzato conferenze sulle tecniche seduttive delle iguane o proiezioni in slow motion della crescita di uno Schinziophyton rautanenii.

Darsi da fare in un’associazione significa però saper mettere da parte le fissazioni personali e costruire insieme ad altri qualcosa di molto più importante. Ed è per questo che ho molto apprezzato la decisione del Comitato di Coordinamento dell’Uaar di festeggiare i trent’anni dell’associazione. Anche se è un’associazione che comprende soci disposti a discutere per anni di quale sia la “vera” data di nascita dell’associazione. Come per il calcolo della Pasqua, non è escluso che in un prossimo futuro non si assisterà a un lacerante scisma tra i “pizzisti” del 4 dicembre 1986, gli “informalisti” del 19 ottobre 1987 e i “formalisti” del 18 marzo 1991.

A prescindere dalla base di calcolo, trent’anni sono sempre trent’anni. Rappresentano simbolicamente la fine della gioventù e l’ingresso nell’età adulta. È la dura realtà, anche se ci sarà sempre chi si sentirà eternamente giovane (e quindi immaturo). L’Uaar non è più giovane ed è, ormai, sufficientemente matura. Se, come chi scrive, si hanno quasi due decenni di attivismo alle spalle, andare indietro con la memoria significa ricordare un passato di riunioni “carbonare”, di nome e di fatto, perché non c’erano sedi. In cui i soci erano tutti attivisti e si conoscevano quasi tutti fra loro, perché erano un ventesimo di quelli attuali. In cui i bilanci annuali del “nazionale” erano nell’ordine delle duecentomila lire, perché non c’erano soldi. L’unica costante è forse rappresentata dalle estenuanti discussioni, spesso fini a se stesse, spesso fuori tema, spesso disinformate, spesso palcoscenico di smisurati ego personali. È il peccato originale degli atei, e non ci sono battesimi — o, più appropriatamente, sbattezzi — che possano porvi rimedio. Lo confesso, vostro onore: vivo bene senza D(iscuaar).

A differenza di Mao, il grande balzo in avanti ci è riuscito. Abbiamo ora una sede nazionale e diverse sedi locali, una casa editrice, una biblioteca, impiegati, risorse. Persino la visibilità è in crescita, e non solo sui media (vecchio punto dolente): mi capita sempre più spesso di imbattermi in persone che già conoscono l’Uaar. E che la percepiscono come qualcosa di rilevante, non come una realtà di nicchia. Anzi: come qualcosa di più grande di quello che realmente è. Ma quello che realmente è rappresenta comunque una realtà che ben pochi tra i “vecchi” dell’associazione avrebbero soltanto osato sperare.

Un’associazione come l’Uaar non può però limitarsi a celebrare il passato. Non ha mai guardato al passato, se non per studiarlo e per trarne insegnamento. La prima lettera che Martino Rizzotti scrisse ai soci, nel lontano primo dicembre 1987, cominciava proprio con la necessità di mettersi alle spalle sia le esperienze dell’ateismo di Stato, sia gli «obiettivi, tipici dell’anticlericalismo massonico e risorgimentale, caratterizzati da atteggiamenti provocatori (che danno tutt’al più un po’ di soddisfazione emotiva) e da limitatezza teorica». Eppure capita ancora, e frequentemente, che qualcuno chieda di tornare a quel modello. Capita ancora di trovare su questa rivista dotte dissertazioni critiche su sant’Elena o su desueti concetti cattolici quali la mortificazione. Se li leggesse, Corrado Guzzanti / Padre Pizarro ci chiederebbe se «stamo ancora ar Medioevo». Al Medioevo magari no. All’epoca in cui si celebrava l’anticlericalismo di Savonarola (un talebano ante litteram) magari qualcuno sì.

L’Uaar non può guardare al passato anche perché ha scopi sociali che mirano altissimo, e che nessuna associazione analoga ha mai conseguito. E questo ci impone di tenere la mente sempre aperta. Ancora dalla prima lettera di Martino ai soci: l’Uaar ha la «necessità di non legarsi ad ottiche temporalmente e spazialmente circoscritte». Suona volutamente neotestamentario, perché mi preme ribadire che noi non abbiamo dogmi. E che, dunque, dobbiamo andare ben oltre quella necessità. Nel manifesto d’intenti affermiamo che vogliamo un mondo migliore. Ma quale mondo vogliamo?

Le direttrici su cui ci muoviamo sono essenzialmente due: ragione e laicità. Sono due concetti importantissimi, perché possono rendere migliore qualunque società. L’epoca in cui viviamo non sembra purtroppo essere sulla stessa lunghezza d’onda. Le credenze religiose sono in regressione, nei paesi democratici, ma si affacciano in continuazione nuove forme di irrazionalità. Anche la laicità avanza, nei paesi democratici, ma è sempre più esposta a due minacce uguali e contrarie: da una parte l’identitarismo della retorica delle “radici”, dall’altra il comunitarismo che promuove ormai apertamente idee e comportamenti che solo qualche anno fa avremmo giudicato arretrati. Sta a noi essere capaci di rappresentare un’alternativa a entrambe. Sta a noi farlo “senza sconti per nessuno”, non solo a parole, ma con i fatti: nei confronti della destra come nei confronti della sinistra, nei confronti del cristianesimo come nei confronti dell’islam. Ma sta a noi farlo senza alcuna critica gratuita: implacabili, e nel contempo inattaccabili. Ne saremo capaci?

Non è statisticamente probabile che, fra trent’anni, io sarò ancora qui a commentare cosa sarà diventata l’Uaar. Difficilmente il mondo sarà migliorato abbastanza da rendere inutile la sua esistenza. Mi auguro che non sarà diventata una di quelle tante piccole associazioni che incontrai quando cominciai il mio impegno, tutte sparite senza lasciare traccia alcuna perché tutte rivolte — anche in modo grottesco — al passato. La grande forza dell’Uaar è stata sempre quella di guardare sempre al futuro. Immaginiamolo. Progettiamolo. Costruiamolo. Insieme. Ogni giorno.

 

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Raffaele Carcano, Segretario Uaar dal 2007 al 2016, attuale coordinatore culturale.

Da L’ATEO 5/2017