La giornata delle domande (A proposito del “Fertility Day”)

di Stefano Scrima

 

Tutte le opinioni sono rispettabili. Benissimo. È lei a dirlo. Io invece dico il contrario. È la mia opinione: la rispetti, dunque!

J. Prévert, Spettacolo

 

«Il 22 settembre 2016 si celebra il primo “Fertility Day”, Giornata nazionale annuale, che rappresenta il punto centrale delle iniziative previste dal Piano Nazionale della Fertilità per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della prevenzione dell’infertilità e quindi della salute sessuale e riproduttiva di donne e uomini».

Così recita il comunicato stampa diffuso dal Ministero della Salute. Notizia che non avrebbe creato scalpore, almeno tra i più, se non fosse stata lanciata attraverso una campagna di comunicazione piuttosto ambigua, con slogan quali: “Datti una mossa! Non aspettare la cicogna”, “La fertilità è un bene comune”, “Genitori giovani. Il modo migliore di essere creativi” e così via. Peccato che i motivi per cui in Italia non si fanno figli non siano solo legati all’infertilità, ma anche e soprattutto all’assenza di lavoro, di certezze, e quindi di futuro. Non solo, quella che emerge da questa campagna è un’immagine stereotipata della donna legata all’idea di una famiglia di stampo cristiano. Non è bello sentirsi dire dalle istituzioni: “Datti una mossa!”. Come se non avere figli, per una donna, rappresentasse un motivo di biasimo, se non addirittura di vergogna. Come se non diventare madre non potesse essere anche una scelta, ma solo uno stato di incompletezza esistenziale. Di sicuro lo è per la Chiesa, che vede nella donna (fertile, perché di quella sterile non voglio neanche immaginare cosa possa pensare) — a meno che non decida di sposarsi direttamente con Cristo — la fornace dei futuri marmocchi che popoleranno il pianeta.

Il Ministro ha ammesso la leggerezza nella comunicazione — non si capisce poi perché il nome dell’iniziativa debba essere in inglese, questo è davvero un enigma — sostenendo che l’unico intento era quello di informare e fare prevenzione, per la salute degli italiani. Nessuna pressione sociale o giudizio di valore sull’avere o non avere figli. Eppure, non possiamo essere certi che quelle idee non appartengano a molti italiani, magari coloro che non si sono mai fermati a pensarci, ma si limitano a subire i “valori” del loro contesto sociale. Ad ogni modo, ognuno è libero di pensarla come vuole, anche di sentirsi incompleto senza mettere al mondo un figlio, per le ragioni che meglio crede. Gli chiederei soltanto di essere responsabile e pensare prima di tutto al bene delle nuove vite che ha deciso di mandare allo sbaraglio su questa terra per niente facile.

C’è una questione, enorme, che sembra non venire minimamente considerata dal potenziale genitore, figuriamoci dalle istituzioni. Nessuno si chiede della moralità — evidentemente non cristiana, essendo un figlio sempre e comunque dono di Dio — dell’avere o non avere figli. È accettabile far crescere un essere umano in questo contesto nazionale e internazionale, senza sapere se potremo garantirgli un futuro degno e di serenità? E se il modello economico che stiamo promuovendo non reggesse più? Se non fosse possibile — e non lo è — crescere (economicamente e demograficamente) all’infinito? In Italia non si fanno figli? Potrebbe non essere un problema così grave se si cambiasse prospettiva o si analizzassero le reali cause, andando oltre l’entusiasmo del momento. Certo, un Paese di vecchi sarà difficilmente vitale e creativo. Ma se essere creativi significa creare imprese su imprese, allora meglio non nascere.

E poi chi lo dice che le cose non possano cambiare? Non si può pretendere che sia sempre tutto come vogliamo. Tutto ha una fine, tutto prima o poi deve affrontare il proprio declino. Anton Cechov — ma si sa, scrittori, artisti e filosofi sono parecchio strani — appuntava nei suoi Quaderni (1891-1904): «Voi dovete avere dei bambini ammodo e ben vestiti, e i vostri figli devono avere anche loro un bell’appartamento e dei bambini; e i loro figli anch’essi dei bambini e dei begli appartamenti, ma a che cosa serva tutto questo, solo il diavolo lo sa». Voi lo sapete? Io no. Dite che volete un figlio, lo sentite come un bisogno. Lo fate per voi, per dare un senso a questa vita. Be’, vi siete risposti da soli.

Mi piacerebbe che, oltre a giornate in cui si danno risposte, si istituissero giornate in cui si pongono domande. Meglio ancora se ogni giorno fosse occasione per farsele. Infine, soltanto quando ve le sarete poste, potrete tornare a pensarla diversamente da me.

Da L’ATEO 6/2016