Verso la sesta estinzione di massa?

di Telmo Pievani

 

La “defaunizzazione” del pianeta Grandi evoluzionisti ed esperti di bio diversità come Edward O. Wilson e Niles Eldredge lo avevano scritto vent’anni fa: considerando i ritmi vertiginosi della scomparsa delle specie indotti dalle attività umane negli ultimi secoli, la biosfera sta attraversando una “estinzione di massa”, cioè una catastrofe su scala globale. Per la precisione, la “Sesta Estinzione di Massa”, dato che nel lontano passato geologico se ne sono registrate almeno cinque, le cosiddette Big Five, grandi ecatombi causate da super eruzioni vulcaniche, da oscillazioni climatiche e cambiamenti nella composizione del l’atmosfera, da impatti di asteroidi sulla terra, o da un intreccio di questi fattori. L’ultima è quella che 65 milioni di anni fa spazzò via buona parte dei dinosauri (tranne uno sparuto drappello che si è poi evoluto negli uccelli) e quasi due terzi di tutti gli altri esseri viventi. Per velocità di impatto e mortalità (sostennero Wilson e colleghi) l’estinzione prodotta dall’uomo oggi non ha nulla da invidiare alle precedenti.

Nel 2011 un team internazionale di Berkeley, guidato da Anthony D. Barnosky, verifica le stime di estinzione, integra i dati paleontologici conquelli attuali, considera tutte le cautele del caso e giunge a una conclusione, alquanto preoccupante, pubblicata su Nature: la sesta estinzione di massa non è ancora in corso, ma ci manca poco e stiamo facendo di tutto per arrivarci. Il titolo dell’articolo su Nature è: La sesta estinzione di massa è già arrivata? [1].

Nel luglio del 2014 un’ulteriore conferma è stata pubblicata su Science e ora le statistiche stanno diventando sempre più realistiche. Secondo i più raffinati calcoli del gruppo di Rodolfo Dirzo, del dipartimento di biologia di Stanford, gli impatti umani sulla biodiversità animale sono diventati oggi una forma di cambiamento ambientale globale che ben presto avrà ripercussioni sulla nostra salute.

Il nostro pianeta non è più lo stesso. L’analisi questa volta non riguarda solo la scomparsa di intere specie, ma anche gli andamenti locali delle popolazioni negli ultimi decenni. Più di trecento specie di vertebrati terrestri si sono estinte dal 1500 a oggi, altre centinaia sono in via di estinzione (circa un terzo del totale) e per tutte, mediamente, si assiste a un calo del 28% nelle popolazioni. Quasi tutti i grandi mammiferi hanno perso almeno la metà della loro specie. Va ancora peggio per gli invertebrati, due terzi dei quali hanno subito un declino del 45% negli ultimi quarant’anni. Gli insetti, per noi icona di diversità e di resistenza, si associano al crollo: un terzo sono in calo; farfalle e falene sono diminuite del 35%; per api e coleotteri va anche peggio [2].

Perdiamo complessivamente ogni anno dalle 11.000 alle 58.000 specie, concentrate soprattutto nelle regioni tropicali (ciò che ha ricavato Edward O. Wilson nel 2003 è 30.000 specie l’anno, una media delle cifre sopra indicate [3]). Si perde una specie ogni venti minuti. Estinguiamo specie che nemmeno abbiamo fatto in tempo a classificare.

Il raggelante termine tecnico coniato da Rodolfo Dirzo su Science è “defaunizzazione dell’Antropocene”: stiamo “de-faunando” il pianeta. Entra co sì nel gergo scientifico il nome finora informale proposto da Paul Crutzen nel 2002 di Antropocene, dato all’epoca “geologica” attuale in cui una specie sola, Homo sapiens, è riuscita in una manciata di secoli ad alterare la composizione gassosa dell’atmosfera e a trasformare la superficie del pianeta [4]. Questa storia di scienza, e di previsioni pessimistiche troppo a lungo ignorate o rimosse, è adesso raccontata in modo appassionante dalla giornalista del New Yorker Elizabeth Kolbert in La sesta estinzione. Una storia innaturale, che ha vinto nel 2015 il premio Pulitzer per la saggistica [5].

Con un certo ritardo, il tema è finalmente finito in prima pagina nel campo della scienza. Dalle specie più carismatiche, come leoni, rinoceronti, scimmioni ed elefanti (la cui estinzione procede a ritmi preoccupanti) alle rane di piccola dimensione (gli anfibi sono ancora più suscettibili, con il 41% di specie a rischio) la perdita totale di specie animali altera la struttura e la funzione degli ecosistemi su cui è basato il nostro benessere. Dal momento che non paghiamo i servizi offerti dall’ecosistema, siamo spesso inconsapevoli dei costi reali per mantenerli. Con la scomparsa di migliaia di specie ogni anno, gli ecosistemi stanno diventando sempre meno efficienti nell’assicurare servizi come la depurazione delle acque, il ciclo dei nutrienti e la manutenzione del terreno. La variabilità genetica delle popolazioni e delle specie è il motore dell’evoluzione, un’assicurazione gratuita contro le malattie e gli attacchi da agenti patogeni. Nell’Antropocene si sta perdendo la diversità genetica [6]: interventi a posteriori potrebbero essere molto più costosi. Ad esempio, il 75% delle colture alimentari mondiali dipendono dagli impollinatori. L’estinzione di popolazioni di pipistrelli, predatori naturali di parassiti, potrebbe causare un ingente danno economico. Siamo commossi per l’estinzione delle tigri, dei rinoceronti e dei panda, ma è la crisi silenziosa degli invertebrati e della microfauna invisibile che ci dovrebbe preoccupare di più.

Un catastrofico Homo Sapiens

Abbiamo concentrato le nostre preoccupazioni sugli effetti dell’estinzione, ma per quanto riguarda le cause?

Seguendo il modello del team di Gerta Keller di Princeton [7] riguardo i mol teplici fattori convergenti che causarono l’estinzione alla fine del Cretaceo, una teoria per le estinzioni di massa si basa sull’idea che questi eventi macroevolutivi potrebbero essere non prodotti da una sola causa catastrofica, ma da un mix di condizioni diverse e simultanee. Secondo tali modelli [8] un’estinzione di massa avviene quando vi è una sinergia tra eventi non usuali. Principalmente i parametri sono: (1) accelerazione del cambiamento climatico; (2) alterazioni della composizione atmosferica; (3) fattori di stress ad alta intensità; (4) feedback positivi tra i primi tre.

È possibile applicare tale modello all’impatto che le attività umane hanno sulla biodiversità? Secondo Barnosky e i suoi colleghi la situazione attuale si adatta alla seguente descrizione: (I) dinamiche accelerate relative al clima? , in corso; (II) cambiamenti della composizione atmosferica? , in corso; (III) fattori di stress ad alta intensità? , le attività umane da molto tempo; (IV) feedback positivi tra i primi tre? , nella prima fase.

Ma quali sono le cause remote che hanno dato a Homo sapiens il potere di innescare un cambiamento geologico e ambientale? Si tratta di una vecchia storia. Quando i cacciatori paleolitici sono entrati nelle Americhe, in Australia e nelle Isole del Pacifico, è stato provato – anche se permangono dubbi sul possibile ruolo di oscillazioni climatiche concomitanti – che, entro pochi millenni dal loro arrivo, questi primi colonizzatori hanno estinto decine di grandi mammiferi e uccelli non volatori che vi abitavano. La documentazione archeologica mostra una serie di estinzioni regionali di massa di megafauna, dal mo mento che gli animali di queste regioni non erano abituati ai predatori umani e avevano un basso tasso di riproduzione che li rendeva particolarmente vulnerabili. L’impatto ambientale distruttivo della nostra specie è cominciato verso la fine del Pleistocene [9]. Come si vede nelle documentazioni geologiche dei cambiamenti a lungo termine del clima e della composizione atmosferica, l’introduzione dell’agricoltura e del bestiame alla fine dell’ultima era glaciale è stato un grande evento e volutivo e ha accelerato i processi di e stinzione, insieme alla crescita dell’insediamento della popolazione umana in villaggi permanenti, in paesi e città. Siamo una specie invasiva: all’inizio le esplorazioni erano eseguite da piccole bande di cacciatori-raccoglitori; a questo ha fatto seguito l’espansione degli agricoltori e dei pastori, fino a ondate di migrazione umana. Oggi, dopo la rivoluzione industriale, il processo sta procedendo a un ritmo senza precedenti, creando una sorta di “natura addomesticata” [10]. Secondo Niles Eldredge e Norman Myers [11], questo racconto non rappresenta catastrofismo, ma realismo. Il modello HIPPOC Questa storia non rappresenta quindi una singola attività antropica che è la causa del destino avverso della biodiversità. Ha radici profonde nella storia umana. Attraverso un mix dei diversi comportamenti, con conseguenze variabili, abbiamo generato le condizioni per una crisi di estinzione globale.

Secondo il modello HIPPO proposto da Edward O. Wilson [12] e qui aggiornato (HIPPOC), l’impatto umano sulla biodiversità è dovuto a una convergenza di diversi fattori interagenti:

  • H (Habitat): frammentazione degli habitat e alterazione delle relazioni specie-aree (ad esempio la deforestazione, la conversione in pascolo e le coltivazioni intensive, le attività estrattive);
  • I (Invasive): specie invasive e diffusione di nuovi agenti patogeni (il rimescolamento intercontinentale di specie esotiche causate dai viaggi e dal commercio ha prodotto estinzioni di massa su scala locale per intere regioni, nonché nelle isole e negli arcipelaghi);
  • P (Population): crescita della popolazione e di macro-agglomerati urbani (produzione di barriere e limitazioni alla dispersione di animali e piante);
  • P (Pollution): inquinamento (agricoloindustriale, inquinamento chimico di acqua e aria);
  • O (Over exploitation): eccessivo sfruttamento delle risorse biologiche dovuto alla pesca e alla caccia eccessiva;
  • C (Climate change): cambiamento climatico, inizialmente caratterizzato soltanto nelle stime grezze, ma con i modelli attuali, tra cui il riscaldamento climatico e la crescente evidenza di disallineamenti ecologici nei cicli stagionali d i specie (per lo più uccelli migratori a lunga distanza), specie polari in via di estinzione, la ristrutturazione di comunità ecologiche in foreste tropicali, e gli effetti globali allarmanti innescati dall’acidificazione degli oceani (per lo più nelle barriere coralline). Inoltre, dovremmo considerare le interazioni non lineari tra le sei forze (ad esempio, la frammentazione del territorio e del riscaldamento globale nelle foreste tropicali; devastanti effetti sinergici di inquinamento, sovrasfruttamento e dei cambiamenti climatici sulle barriere coralline). Questo rapporto senza precedenti tra specie globalmente invasive e la biosfera genera un gap evolutivo: i tassi di evoluzione biologica (cioè spostamenti biogeografici, adattamenti alle diverse temperature, ecc.) sono nella media dieci volte più lenti rispetto ai tassi di variazione antropica. In questo modo i soliti processi di recupero ecologico vengono alterati.

L’ironia della storia naturale

Non c’è nulla di insolito nelle estinzioni. Esse fanno parte della storia naturale. La stragrande maggioranza delle specie del mondo si sono estinte. Ciò che oggi è senza precedenti è il ruolo di una specie nel causare la Sesta Estinzione di massa, la più veloce di tutti i tempi. Emerge un paradosso filosofico: Homo sapiens, discendente da estinzioni di massa di altre specie (soprattutto dei grandi rettili, la cui scomparsa 66-65 milioni di anni fa ha aperto la strada alla radiazione adattativa dei mammiferi), ora è l’agente di un’estinzione di massa speciale. La triste ironia della storia è che i nostri sforzi per rallentare o fermare la sesta estinzione di massa potrebbero non essere sufficienti. Secondo Butchart et al. [13], uno dei risultati della Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica è il moltiplicarsi con successo delle iniziative locali di conservazione. Ciò non è tuttavia sufficiente ad invertire le tendenze generali di distruzione dell’habitat. Il confronto è disarmante: gli indicatori generali delle azioni di tutela ambientale sono moderatamente positivi; quelli che misurano la salute degli ecosistemi sono, invece, tutti negativi. Non siamo ancora in grado di vedere gli effetti delle nostre buone pratiche. Anche se siamo così miopi da mettere in pericolo le condizioni della nostra permanenza sul pianeta, alcuni modelli scientifici ci dicono che la vita andrà avanti comunque in altre forme [14], probabilmente a vantaggio delle specie più opportuniste, come i ratti [15].

Infatti, non appena si sia estinta la razza umana, potrebbe sbocciare sulla Terra una cornucopia di nuovi esperimenti di vita. Da una prospettiva evoluzionistica, l’estinzione dell’Antropocene è una minaccia non per la biodiversità in sé, ma per le condizioni ecologiche che attualmente permettono la sopravvivenza umana. La fine della nostra specie rappresenterebbe solo un altro nuovo inizio. Così, da un punto di vista filosofico, la sesta estinzione di massa è un avvertimento antropologico sulla contingenza della vita e la fragilità della nostra storia come ominidi.

Il paradosso dell’Homo sapiens, come causa della sesta estinzione di massa, è difficile da risolvere per due motivi: uno politico, cioè la mancanza di coordinamento internazionale; e l’altro psicologico, cioè la mancanza di capacità di previsione. Una singola nazione può fare ben poco se le altre non collaborano. Le dinamiche ecologiche non rispettano la stretta tempistica delle campagne elettorali e le leggi della popolarità, possono quindi improvvisamente venire meno i servizi forniti dall’ecosistema.

Realizzare una buona pratica di conservazione oggi porterà i suoi frutti tra almeno un paio di generazioni. Certo, non è facile investire soldi e prendere un impegno etico a favore di qualcuno che ancora non esiste, ma dobbiamo armarci di fantasia e cercare di farlo. Dopotutto, potrebbe essere un modo intelligente per marcare ciò che ci differenzia dai dinosauri.

 


 

Note

[1] Barnosky A. et al., Has the Earth’s sixth mass extinction already arrived?, in Nature, 471, 2011, pp. 51-57.

[2] Dirzo R. et al., Defaunation in the Anthropocene, in Science, 345, 2014, pp. 401-406.

[3] Wilson E.O., The future of life, Vintage, New York 2003.

[4] Crutzen P.J., Geology of Mankind, in Nature, 415, 2002, p. 23.

[5] Kolbert E., The sixth extinction. An unnatural history, Henry Holt & C., New York 2014 (trad. it. La sesta estinzione. Una storia innaturale, Neri Pozza, 2014).

[6] Novacek M.J., The biodiversity crisis: losing what counts, The New Press, New York 2001.

[7] Keller G., Cretaceous climate, volcanism, impacts, and biotic effects, in Cretaceous Research, 29, 2008, pp. 754-771.

[8] Ward P.D., Rivers in time. The search for clues to Earth’s mass extinction, Columbia University Press, New York, 2000; Archibald J.D. et al., Cretaceous extinction: multiple causes, in Science, 328, 2010.

[9] Cavalli Sforza L.L., Pievani T., Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, Codice, Torino 2012.

[10] Kareiva P., Watts S., McDonald R. et al., Domesticated nature: shaping landscapes and ecosystems for human welfare, in Science, 316, 2007, pp. 1866-1869.

[11] Eldredge N., Life in the balance, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1998.

[12] Wilson E.O., The diversity of life, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2010.

[13] Butchart S.H.M. et al., Global Biodiversity: indicators of recent declines, in Science, 328, 2010, pp. 1164-1168.

[14] Weisman A., The world without us, Picator, London 2008.

[15] Zalasiewicz J., The Earth after us: what legacy will humans leave in the rocks?, Oxford University Press, Oxford 2008.

 


 

Telmo Pievani insegna Filosofia delle Scienze Biologiche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. Tra i suoi numerosi libri ricordiamo Creazione senza Dio (2006), La vita inaspettata (2011), Anatomia di una rivoluzione. La logica della scoperta scientifica di Darwin (2013); ha curato le edizioni italiane di Charles Darwin, L’origine delle specie (2009) e Lettere sulla religione (2013) e dell’opus magnum di Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione (2003). Il testo qui pubblicato è una versione ridotta e modificata dell’articolo La Sesta Estinzione di Massa apparso in Ambiente Rischio Comunicazione, 10, 2015.

Da L’ATEO 3/2016