Malthus e le invasioni biologiche

di Jacopo Simonetta

 

Una delle cose che stupirono gli esploratori europei del XVIII e del XIX secolo fu di trovare gruppi umani saldamente insediati in luoghi assolutamente inospitali, come i deserti e la banchisa artica. Oppure in zone straordinariamente remote, come le isole oceaniche che i colonizzatori avevano dovuto trovare navigando talvolta per migliaia di chilometri, senza neppure sapere se davvero esistesse terra dietro l’orizzonte. Un fatto a maggior ragione strano, se si considera il numero tutto sommato modesto di umani in circolazione all’epoca.

Le invasioni biologiche

Sono molti i fattori che concorrono a determinare il successo di una specie aliena nell’invadere un nuovo territorio e la nostra si è ampiamente dimostrata la più invasiva di tutte, perlomeno fra i mammiferi. Perfino più dei topi domestici e dei ratti. Il motivo principale, si sa, è lo sviluppo di una nuova forma di evoluzione, quasi esclusivamente culturale. Una forma di evoluzione che potremmo definire ultra-lamarkiana. Infatti, i caratteri acquisiti durante la vita degli individui (conoscenze, utensili, infrastrutture, ecc.) non solo possono essere trasmessi alla discendenza, ma anche a tutti gli altri membri del gruppo mediante il linguaggio, il dono, lo scambio e l’esempio. Addirittura, con la scrittura, l’arte e la tecnologia, saperi e manufatti possono essere trasmessi a soggetti mai incontrati, magari non ancora nati.

Ma lo sviluppo del cervello e di culture complesse hanno un costo. Richiedono, infatti, una lunga gestazione ed un ancor più lungo periodo di sviluppo fisico e di apprendistato. In pratica, non siamo adulti prima dei 17-18 anni e raggiungiamo lo zenith del nostro sviluppo personale verso i 30. Per confronto, gli scimpanzé raggiungono la piena maturità fra i 10 ed i 12 anni ed a 30 sono vecchi. Di conseguenza, in condizioni normali, la natalità umana non è molto elevata, in confronto a quella della maggior parte dei mammiferi di grande taglia. In compenso siamo potenzialmente molto longevi. Se gli individui centenari sono sempre stati eccezionali, un’aspettativa di vita di 60 o 70 anni è possibile anche in società primitive, a condizione che vi siano risorse sufficienti. Per confronto, gli scimpanzé più vecchi sono morti a circa 50 anni, ma in cattività; in natura la vita è sempre più breve.

Al variare delle condizioni ambientali, la nostra specie dispone quindi delle medesime risposte possibili per le altre: variazione della natalità, migrazione, variazione della longevità. Ma l’importanza relativa e la funzione di queste strategie è significativamente diversa.

Come per gli altri grandi mammiferi, la natalità umana aumenta quando le condizioni ambientali migliorano, ma gli effetti sono graduali e dilazionati nel tempo. Questo tende a dare una grande inerzia alla nostra dinamica demografica, sia in ascesa sia in calo. Ma un altro fattore vi gioca un ruolo determinante. Esclusivamente nella nostra specie, infatti, la natalità aumenta sensibilmente anche se le condizioni migliori sono attese e non effettive. E se il miglioramento effettivo risulta poi minore di quello atteso, si possono facilmente verificare problemi del genere di quelli che Malthus studiò per primo. Entro certi limiti, questo effetto è mitigato dalla grande plasticità presentata dalla speranza di vita media che può facilmente oscillare da 30 a 80 anni a seconda delle condizioni effettive; le condizioni attese avendo in questo campo un effetto praticamente nullo.

Il punto importante è che questa notevole longevità potenziale permette alle popolazioni umane di mantenersi sempre molto vicine al massimo possibile, malgrado la lunga e difficile infanzia. Nel breve periodo questo consente incrementi demografici fantastici nel giro di pochissime generazioni, ma pone dei problemi nel lungo termine. Le condizioni ambientali sono infatti fluttuanti ed a periodi favorevoli ne seguono sempre altri peggiori durante i quali la popolazione diminuisce per l’aumento della mortalità, oltre che per eventuali migrazioni e riduzioni della natalità. Quando le condizioni tornano a migliorare, nelle specie che richiedono parecchie generazioni per incrementare, si crea di norma una situazione in cui la popolazione è inferiore alla capacità di carico del territorio, cosa che permette un recupero delle risorse precedentemente sovra sfruttate. Si generano così delle dinamiche complesse che tendono a mantenere le popolazioni e gli ambienti relativamente stabili sul lungo periodo, come brillantemente scoperto e modellizzato per la prima volta da Alfred J. Lotka e Vito Volterra nell’ormai lontano 1926.

Nell’uomo questo recupero avviene molto meno perché la popolazione può crescere con eccessiva rapidità. Cioè la popolazione umana traccia sempre molto strettamente la capacità di carico, così da creare facilmente situazioni di sovra sfruttamento cronico delle risorse. Un fenomeno ben studiato anche per altre specie, tipicamente gli elefanti africani che, anche loro, presentano infatti una dinamica di tipo maltusiano. In pratica, le popolazioni umane sono abitualmente in un equilibrio precario con il loro territorio. Miglioramenti ambientali o tecnologici provocano rapidi incrementi che molto facilmente si traducono, sul medio-lungo periodo, in un eccessivo sfruttamento ed un degrado delle risorse. Un fenomeno questo ben documentato in molti casi storici in cui ha condotto al completo collasso delle popolazioni coinvolte. Ma ci sono delle alternative all’estinzione:

  • Un progresso tecnologico che consenta lo sfruttamento di nuove risorse, rilanciando la posta per un altro giro.
  • Una contrazione della vita media e della natalità che riducano la popolazione, riportandola entro i limiti di capacità di carico del territorio. Sono importanti le modalità con cui questo avviene. Infatti situazioni di malessere cronico tendono a ridurre le popolazioni sul lungo periodo, mentre calamità improvvise come guerre ed epidemie hanno effetti molto limitati, o addirittura controproducenti. Il sollievo e l’ottimismo che sempre seguono la fine di simili calamità comportano infatti un “baby boom” contemporaneo ad un brusco incremento della vita media.
  • La migrazione di massa in altri territori e/o la conquista di nuove risorse. Cioè la guerra. Con i metodi tradizionali, vale a dire fino all’invenzione della “total war” moderna nella Guerra di Secessione Americana, questa comportava l’eliminazione, più o meno massiccia, di uomini, con particolare riguardo per le classi dominanti. Un dettaglio questo molto importante! Le risorse erano, viceversa, assai poco danneggiate. Di conseguenza, comunque andassero le cose, si ritrovava un temporaneo equilibrio. Specialmente quando le condizioni post-belliche rimanevano difficili a lungo, deprimendo la crescita demografica. Ad esempio, con lo sterminio dell’aristocrazia sconfitta e la riduzione in schiavitù degli altri.

Dunque la dinamica della popolazione umana è tale da creare frequenti crisi, la cui soluzione è solitamente una riduzione della popolazione per mortalità e/o emigrazione. Così, anche se il mondo anticamente non era sovrappopolato nel suo insieme, nel tempo si sono verosimilmente create una miriade di episodi di sovrappopolamento a livello locale, con conseguente costante presenza di bande in cerca di un territorio. Un fenomeno che pare confermato dalla rapidità con cui successive ondate di Homo sapiens sono dilagate sull’intero pianeta, spazzando via gran parte della megafauna e tutte le specie umane più primitive che incontravano sul loro cammino. Una volta rimasta l’unica specie umana sul pianeta, non è cambiata la nostra dinamica e successive ondate di popolazioni tecnologicamente più avanzate hanno marginalizzato, soggiogato o sterminato i popoli più primitivi che incontravano.

Ad esempio, la diffusione dei popoli del ceppo Bantu cominciò all’incirca 3.000 anni fa dalle parti dell’attuale Nigeria, per concludersi nel XVII secolo in SudAfrica, dove si scontrò con le avanguardie della grande migrazione europea. I popoli precedenti di ceppo Khoisan (più mingherlini e meno armati) furono in parte assorbiti ed in parte sterminati. Già all’arrivo degli esploratori europei ne rimanevano gruppi consistenti solo in remote zone di foresta pluviale e nelle aree semi desertiche del Natal. Man mano che il progresso tecnologico permetteva lo sfruttamento di nuove risorse, si sono andate formando società progressivamente più numerose e complesse, ma la dinamica di base è rimasta fondamentalmente la stessa, sia pure articolata su spazi e tempi maggiori.

Il reverendo Thomas Robert Malthus identificò la crisi di sovrappopolazione che ai suoi tempi colpiva l’Inghilterra e l’Europa in generale. Correttamente, previde che, in mancanza di una rapida stabilizzazione della natalità, la popolazione europea avrebbe spazzato via buona parte degli altri popoli della terra. Cosa puntualmente accaduta. Una massa di milioni di giovani senza futuro, ma molto bene armati ed organizzati, sono dilagati verso est e verso ovest travolgendo qualunque resistenza. Con poche e parziali eccezioni, gli altri popoli sono stati asserviti, acculturati, marginalizzati o sterminati, a seconda dei casi. Fu la prima crisi globale di questo tipo; fino ad allora dinamiche simili si erano svolte su scale locali o regionali. Una seconda crisi maltusiana globale si ripresentò fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso e la conseguenza fu una serie di carestie che causarono decine di milioni di morti: Cina (1959-1961), Congo (1960-61), India (1965-66); Etiopia (1973-74) e Bangladesh (1974) per citare solo le maggiori… Ma stavolta non c’erano continenti scarsamente popolati e/o tecnologicamente arretrati da colonizzare. Così la risposta fu un balzo tecnologico. Per l’appunto proprio in quegli anni la disponibilità praticamente illimitata di energia di altissima qualità ad un prezzo risibile consentì una rapidissima diffusione di tecnologie che incrementarono di ordini di grandezza la produttività. Ma ciò ha avuto come conseguenza un incremento ancora maggiore sia della popolazione sia dei consumi pro-capite, dell’inquinamento e della distruzione della biosfera.

Il principale protagonista di quella stagione, il Premio Nobel, Norman Borlaug, aveva detto chiaramente che aumentare la produzione di cibo era una soluzione a condizione che, contemporaneamente, si riuscisse a stabilizzare la popolazione sui livelli di allora o poco più (circa 3 miliardi di persone). Altrimenti, disse, l’intera operazione si sarebbe risolta in un disastro di proporzioni inimmaginabili.

Non fu fatto ed oggi i nodi vengono al pettine. Come di consueto, la risposta alla sovrappopolazione si articola su due strategie, diversamente declinate a seconda dei paesi e delle classi sociali: l’appropriazione di nuove risorse, sottraendole ad altri, e l’emigrazione. Il primo fenomeno non presenta niente di particolarmente nuovo, se non nei mezzi che sono soprattutto tecnologici e commerciali. L’uso della violenza militare è per lo più limitato al tentativo (sempre più spesso abortito) di manten ere situazioni politiche favorevoli ai processi economici di accaparramento. Anche se bisogna dire che metodi basati sulla cosiddetta “pulizia etnica” si stanno rapidamente diffondendo fra coloro che non dispongono né di grandi capitali, né di tecnologie avanzate. Il secondo presenta invece la peculiarità di avvenire da zone sovrappopolate ad altre ugualmente sovrappopolate o perfino di più. Altra novità è che le masse dei migranti dispongono di mezzi tecnologici e militari pressoché nulli a confronto con quelli dei paesi-obbiettivo. Ciò significa che il flusso continuerà a crescere solo finché sarà permesso, ma questo non dovrebbe tranquillizzarci troppo. Il nostro benessere e la nostra forza derivano, infatti, da un fragile castello di carte politico-economico-energetico che si sta rapidamente sgretolando. La Cina ed altri paesi stanno rapidamente diventando più bravi di noi ad accaparrarsi il poco che rimane delle risorse globali. Ne consegue che lo status di “paesi sviluppati” di cui andiamo tanto fieri non è più minimamente garantito nel prossimo futuro. «Meditate gente, meditate» diceva Renzo Arbore.

 

Jacopo Simonetta è nato a Firenze nel 1958. Laureato in Scienze Naturali, si occupa di evoluzione e di ecologia. Ha circa 40 anni di esperienza nel restauro e nella conservazione di ecosistemi ed aree protette. Da circa 20 anni si occupa anche di divulgazione scientifica, collaborando a progetti didattici in scuole di ogni ordine e grado, oltre che con vari siti e blog.

Da L’ATEO 3/2016