La violenza dell’amore

di Paolo Ferrarini

 

«Ama il prossimo tuo come te stesso.
Basta che sia figo e dell’altro sesso».

(Melegatti 2015)

 

Ama il prossimo tuo come te stesso! Il cristianesimo in a nutshell si risolve in un mantra così innocente e universalmente condivisibile da sedurre persino alcuni umanisti e intellettuali altrimenti disinclini a basare la propria morale su concezioni soprannaturali. Il Nuovo Testamento straripa d’amore: cercando velocemente in Word quante volte questa parola ricorre in quel testo, si ottengono indicativamente 430 risultati [1]. In confronto, in tutto il Corano, “amore”, nelle sue varie inflessioni morfologiche, compare solo una novantina di volte, e quasi sempre per specificare che cosa Allah approvi o non approvi («Allah ama i giusti», «Allah non ama gli infedeli»). Nonostante il fatto che per “sazietà semantica” [2] una parola così inflazionata rischi di perdere significato, è innegabile che l’amore sia un concetto fondamentale del cristianesimo.

Quale insensibile psicopatico si rifiuterebbe quindi di sottoscrivere un’ideologia che mette al centro di tutto l’amore, il volersi bene, il sentimento di fratellanza e di appartenenza a una grande famiglia? E quale più bell’insegnamento si potrebbe dare a catechismo, a scuola, in famiglia? Messi all’angolo, molti moderni credenti in buona fede, in linea con l’equivalente narrazione nel vangelo, non esitano a spazzare sotto il tappetino qualsiasi altro elemento dell’oscuro credo che le loro bocche articolano tiepidamente ad ogni messa, per sbandierare questa regola d’oro come essenza e giustificazione ultima della loro fede. Regola che, nel senso principale in cui la interpretano, farebbe tecnicamente di loro degli umanisti, più che dei cristiani. Qualcuno spieghi loro che l’ecumenismo, la solidarietà, il rispetto, la compassione non sono prerogative dei credenti, ma dell’umanità in generale, e in parte persino del resto del regno animale! Invece non è difficile immaginare che un cristiano provi un certo compiacimento, un senso di superiorità, nel ritenersi capace di amare di più e meglio, in quanto ispirato dalla religione dell’amore. Sennò dove sta la differenza nell’essere cristiani?

La vera differenza sta nel fatto che, nonostante l’apparenza, non si tratta affatto di un principio umanistico. Innanzitutto c’è la questione di chi sia il “prossimo” a cui il comandamento fa riferimento. Se c’è un prossimo a cui voler bene, è sottointeso che c’è anche qualcuno di “lontano” che un cristiano non è tenuto a trattare con altrettanto trasporto emotivo. Ma fingiamo che non si tratti di una delle tante basi bibliche per promuovere il settarismo, e interpretiamolo come fanno i più come un’esortazione ad amare tutte le persone del mondo. Il punto è che si tratta di un comandamento. Non è il consiglio di un amico. Non è una linea guida, una regola del pollice. È un imperativo. Ama! In alcuni vangeli è anzi minacciosamente tradotto al futuro. Amerai! Ora, se mi dicono onora il padre e la madre, volendo, lo posso anche fare. Se mi dicono santifica le feste, lo posso anche fare. È quello che succede anche nell’islam: per essere un buon musulmano basta obbedire a una serie di imperativi: «professa che non c’è dio al di fuori di Dio e che Maometto è il suo profeta», «prega cinque volte al giorno», «digiuna un mese all’anno», «va’ in pellegrinaggio una volta nella vita», «dona un tot dei tuoi averi ai poveri». Una buona dose di disciplina e forza di volontà mi permettono di eseguire tutti questi ordini e guadagnarmi il paradiso, se Allah vuole. Se non lo faccio, ne pago le conseguenze. Il vangelo però non mi dice che per essere un buon cristiano devo adempiere ad obblighi formali, esteriori: l’unica cosa che conta realmente è obbedire all’imperativo “Ama”. In altre parole, mi impone di controllare i miei sentimenti.

Ora, è possibile che ai tempi in cui questa boutade è stata proferita, fosse generalmente compresa nel senso di “comportati con le persone come se tenessi a loro nel modo in cui tieni ai tuoi familiari”. All’orecchio moderno, però, l’idea di poter dare con la ragione e la forza di volontà una direzione al sentimento dell’amore non può che suonare come un equivoco. Non occorre essere esperti di psicologia e scienze cognitive per sapere che i sentimenti hanno origine in strutture cerebrali profonde su cui la cosiddetta razionalità, espressa dalle funzioni più alte della mente, non ha granché potere di controllo. Suggerire il contrario, ossia che l’amore funzioni “a comando”, significa avanzare una concezione della natura umana completamente errata e anacronistica, che deforma vertiginosamente il modo di approcciare la nostra vita emotiva. Si pensi però a come questo equivoco si riflette quotidianamente sulla prospettiva cristiana in questioni molto concrete come il divorzio (si è cattive persone se si fallisce nello sforzo cristiano di amare il coniuge quando le cose vanno male, o se non si è abbastanza forti per prendere su di sé la “croce” e farsi martiri abbracciando un’esistenza di sofferenze psico-fisiche), l’omosessualità (si è cattive persone se si fallisce nello sforzo cristiano di amare qualcuno di sesso opposto), aborto (si è cattive persone se si fallisce nello sforzo cristiano di amare un figlio non previsto, rifiutando di portarlo alla luce).

Sono tante le aree della vita personale dove l’amore, nella sua declinazione cristiana può diventare una forma di inquinamento mentale. Ecco perché Christopher Hitchens, secondo il quale “la religione avvelena ogni cosa”, commenta questo aspetto del credo paolino dicendo che «[il cristianesimo] riesce persino a corrompere la questione centrale, la più importante di tutte, rendendo l’amore obbligatorio, dicendo che DEVI amare. Devi amare il tuo prossimo come te stesso, una cosa che non riuscirai mai a fare. Non sarai mai all’altezza di questo comandamento, e questo ti manterrà in uno stato permanente di colpevolezza» [3].

Se l’idea di amare tutti è fortemente utopistica, e quella dell’amare tutti come noi stessi è semplicemente impossibile, che dire della prima parte dello stesso comandamento, quella che recita: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza»? Alla luce delle moderne nozioni sulla cognizione umana, è un vero delirio. A questo punto, una distorsione dev’essere per forza in atto a livello semantico. In che senso si può provare amore per un’entità astratta come un dio, o per una persona morta, mai incontrata, che potrebbe anche non essere mai esistita, come Gesù?

Il cristianesimo mainstream non fornisce una definizione esatta di amore per Dio e Gesù (forse arrivano a concepirlo alcuni “professionisti” della spiritualità, come i mistici), e lascia intendere che si tratti dello stesso, unico tipo di amore che si può provare per persone in carne e ossa. Del resto ci sono sensi oscuri in cui dio sarebbe una persona, e un wafer carne umana. Non solo, la retorica cristiana alza ulteriormente la sbarra dell’assurdo, proclamando in continuazione l’amore per personaggi che esistono soltanto nella fantasia come il vero amore, l’amore più puro, promuovendolo quindi a prototipo di questo concetto. Una persona sana di mente che riflette su queste farneticazioni dovrebbe mandare tutto il sistema a quel paese. Invece no. I credenti tacciono, prendono per buono e interiorizzano questo messaggio, il più delle volte solo perché è una distorsione con cui convivono fin da piccoli, fin da quando il linguaggio e i concetti che esso esprime si sono formati nei loro cervelli durante gli anni dell’infanzia. E la fumosità di certe idee è probabilmente un connotato assorbito e accettato passivamente insieme alle parole che le descrivono.

In una scena del film Le onde del destino, di Lars Von Trier, la protagonista Bess, una donna che sa soltanto amare, e che per questo viene torturata e martirizzata secondo il piano di un dio chiaramente perverso, entra a un certo punto nella sua chiesa, dove i vecchi puritani che governano il paese sono intenti a recitare un sermone che dice: «C’è solo un modo per noi, peccatori quali siamo, per raggiungere la perfezione agli occhi di Dio. Attraverso l’amore incondizionato per il verbo, la parola scritta. E attraverso l’amore incondizionato per la legge». Bess, con la sua disarmante, genuina semplicità, prende, non autorizzata, la parola, e centra esattamente il problema di questo genere di delirante retorica: «Io non capisco il senso di quello che dice. Come si può amare una parola? Non si possono amare delle parole. Non si può mica innamorarsi di una parola. Si può amare un altro essere umano. Questa è perfezione» [4].

Quanta manipolazione, quanta coercizione psicologica, quanta disonestà intellettuale sono quindi racchiuse nell’immagine di anziane devote, o peggio di ragazzini in età scolare, che appoggiano le labbra sulla statua di un cadavere portata alla loro bocca da un prete in uno dei loro macabri riti d’amore? Che cosa pensano di baciare quelle persone in quel momento? Che cosa stanno amando? In che senso stanno amando? Ci vorrebbe forse uno studio qualitativo per comprenderlo. Certo, è possibile che l’atto stesso di baciare crocifissi e compiere altri atti fisici di devozione condizioni dall’esterno il sentimento religioso. Il professor Dale Anderson, del Minnesota, a conferma del fatto che anche un sorriso indotto può stimolare i centri neurali della felicità, ha dimostrato che tenere una penna stretta orizzontalmente fra i denti in modo da far contrarre i muscoli facciali che ci fanno sorridere è sufficiente per produrre variazioni positive nell’umore [5]. Peccato allora che nessuna divinità abbia richiesto agli esseri umani di essere felici: sarebbe stato spassoso vedere gente con i volti artificialmente contratti in un sorriso religioso, magari con un crocifisso stretto fra i denti.

Del resto, è difficile anche capire il senso in cui l’amore cristiano viene manifestato dalle stesse entità metafisiche che lo pretendono dall’umanità. In quale senso del termine ti ama un dio di fatto dittatore che ti ricatta fin dalla nascita con la prospettiva di un inferno? In che senso ti vuole bene un profeta che ti maledice se rifiuti i suoi insegnamenti? In che senso è amore un padre celeste che concretamente tortura, affama e uccide i suoi figli in mille modi sadici e crudeli, dall’alto della sua onnipotenza? Completa il suo discorso Christopher Hitchens: «DEVI amare qualcuno di cui devi allo stesso tempo avere paura. Un essere supremo, un padre eterno, qualcuno che devi temere, ma anche amare. E se fallisci in questo comandamento, sei un disgraziato peccatore. Tutto ciò non è mentalmente, moralmente, o intellettualmente sano».

E la salute mentale è il vero inquietante dubbio che bisogna sollevare. Il comandamento, prescrivendo qualcosa di impossibile anche solo in principio, racchiude in sé quello che secondo alcuni è il vero fondamento del cristianesimo: il senso di colpa [6]. L’ineludibile senso di inadeguatezza promosso da irragionevoli aspettative interiorizzate. E non c’è redenzione. È un comandamento che si sottrae al costante gioco psicologico di tensione e rilascio creato dalla religione sotto forma di peccato e perdono. Nessuno confessa al prete di aver amato dio, Gesù o il prossimo un po’ meno di quanto prescritto. È una cosa che si tiene dentro, senza saperlo, in modo psicologicamente non elaborato, a volte anche dopo aver scelto di abbandonare la religione e negato dio. E che dire delle dinamiche sociali dell’appartenenza a una comunità di credenti? All’impossibile amore incondizionato che viene richiesto ai credenti corrisponde un amore altamente condizionato da parte della comunità a cui si appartiene. Finché si dice di credere, finché quelle labbra si muovono durante la professione di fede in chiesa, si è integrati, si è apprezzati, si è premiati dal gruppo. Secondo l’antropologia culturale, che distingue tra società fondate sul senso di colpa come quelle cristiane e le società fondate sulla vergogna, come quella giapponese [7], queste pastoie mentali fungono da collante sociale. Per il singolo individuo però questo amore è tossico, sottintende una minaccia, un ricatto, magari lieve, ma percettibile e sempre presente.

Può non essere la fine del mondo. La maggior parte delle persone convive ragionevolmente bene con gli aspetti disturbanti della religione e ha sufficienti anticorpi per non soffrire particolarmente per queste pressioni. Alcuni studi supportano anzi l’ipotesi che tutto sommato chi crede stia psicologicamente bene (Koenig), mentre altri sottolineano che il benessere dipende dal modo in cui la religione è presentata e dai rapporti fra un individuo e la sua comunità dei credenti (Newberg, Pargament) [8]. Tuttavia, se non si può concludere con certezza che determinate dinamiche legate all’educazione religiosa siano causa diretta di disagi psicologici, è sufficientemente ortodosso affermare che gli individui più sensibili, magari frenati nel loro sviluppo personale da sensi di inadeguatezza, di inferiorità, di insicurezza, non traggano certo giovamento da una cultura che inietta nell e l oro menti ul teri ori el ementi di stress e ansia, soprattutto se mascherati da ricette di benessere e guarigione. Somministrare “amore cristiano” a chi soffre di depressione o di anoressia, per esempio, è potenzialmente una crudele forma di abuso psicologico, una violenza vera e propria, e sarebbe opportuno poterlo cominciare ad affermare con forza, perché la mentalità religiosa è vastamente diffusa, e anche se l’1% soltanto delle persone soffrisse seriamente a causa dei valori distorti delle dottrine fideistiche, si tratterebbe comunque di un danno incalcolabile, un enorme sottobosco di infelicità che per la sua natura ancora elusiva non viene sufficientemente esposto e affrontato.

Non bisogna dimenticare infatti che la violenza esteriore, quella visibile che appare sulle pagine di cronaca, è sempre soltanto la punta dell’iceberg di un problema molto più ampio. Si pensi, per analogia, ad altri mali sociali come l’omofobia. Non si tratta in questo caso soltanto di proteggere le persone da atti di bullismo e violenza fisica. Pochi di noi hanno un fratello o un amico che è stato vittima di un’aggressione di questo tipo. Moltissimi di noi però conoscono qualcuno che, magari in modo invisibile, soffre per le violenze molto più diffuse quanto intangibili di un’omofobia che potremmo definire light, non sufficientemente focalizzata e discussa. Come misurare l’infelicità e lo stress psicologico che si accumulano in una persona omosessuale ogni volta che si sente costretta a mentire a domande apparentemente innocenti come “Hai una ragazza?”, a nascondere i propri sentimenti persino alle persone a cui vuole più bene, o a vivere la terribile e vergognosa condizione di una doppia vita, dove spesso a soffrire per una finzione sono anche il coniuge e i figli…

Sono queste le vere, incommensurabili ferite inferte da una società sottilmente omofoba, ed è questa la vera battaglia civile e culturale da affrontare. Allo stesso modo, quando si parla di religioni, non basta opporsi alle forme più eclatanti di abuso clericale (pedofilia, estorsioni, raggiri…). È importante cominciare a prendere sistematicamente in considerazione anche i danni psicologici più impercettibili, quelli che, magari nel silenzio e nell’apparente normalità della vita quotidiana, sono causati non dagli aspetti grottescamente violenti ed evidentemente immorali dei dogmi di fede – relativamente facili da individuare e possibili da abiurare – ma soprattutto e in modo estremamente diffuso, dagli effetti collaterali della concezione completamente sbagliata dell’essere umano che emerge dalle elaborazioni della religione dell’amore.

Note

[1] Per ottenere facilmente un risultato che comprendesse tutte le inflessioni morfologiche della radice “amore”, ho effettuato la ricerca sulla traduzione inglese sia del NT che del Corano. Il morfema /love/ permette infatti di risalire immediatamente a tutte le categorie verbali e nominali derivate in inglese.

[2] Steven Pinker, Fatti di parole, 2010.

[3] Collision: Christopher Hitchens vs. Douglas Wilson, 2009.

[4] Lars Von Trier, Le onde del destino, 1995.

[5] L’importanza del ridere anche senza motivo.

[6] «Le religioni sono tutte uguali: la religione è sostanzialmente senso di colpa. Cambiano solo i giorni di vacanza». Cathy Ladman.

[7] Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada, 1968.

[8] God help us? How religion is good (and bad) for mental health

 


Paolo Ferrarini. È nato. Cerca di sfruttare al massimo l’opportunità che ha di esistere. Viaggia, studia le cose del mondo, fa esperienze, crea musica, video, fotografa, scrive, traduce. Morirà.

Da L’ATEO 2/2016