Creduloni nati

di Giorgio Vallortigara

 

Siamo tutti creduloni, almeno un po’. A tal riguardo l’antropologo cognitivo Scott Atran ha confezionato una divertente messa in scena per i suoi studenti [1]. Egli entra in aula con una scatoletta finemente decorata e dall’aspetto esotico, spiegando che si tratta di un reperto delle sue esplorazioni etnografiche: un oggetto magico che, a detta dei membri della tribù che gliene hanno fatto dono, avrebbe la proprietà di far scomparire qualsiasi oggetto vi venga riposto, qualora l’individuo proprietario dell’oggetto medesimo dubitasse o addirittura osteggiasse gli spiriti che abitano la scatoletta. Scettici e razionalisti quali sono, i ragazzi accolgono l’informazione con manifesta incredulità. A questo punto, con aria molto seria, Atran lascia la cattedra avvicinandosi a uno degli studenti e, fissandolo negli occhi, lo invita a riporre nella scatoletta la sua patente di guida o a infilarci un dito … E qui succede qualcosa d’interessante. Lo studente ha un attimo di esitazione e spesso esibisce un sorriso tirato, facendo mostra di essere a disagio. Poi di solito fa quel che deve, infilando la patente o il dito nella scatolina magica. Ma quell’attimo di esitazione, che sembra essere un tratto comune riscontrabile negli individui delle culture più diverse, perfino in quelli addestrati ai metodi e alle procedure del pensiero scientifico occidentale, come gli studenti di Atran, è un fenomeno che richiede di essere spiegato.

Come mai – pur asserendo magari di non credere alle superstizioni – cerchiamo di evitare che un gatto nero ci attraversi la strada, facciamo gli scongiuri toccando ferro o leggiamo l’oroscopo sul giornale? E perché in tutte le culture del mondo le persone hanno sviluppato una serie di credenze relative all’esistenza di entità che violano platealmente alcune fondamentali proprietà del mondo fisico e biologico (fantasmi che passano attraverso i muri, zombie che camminano anche se sono defunti, angeli in sembianze umane capaci di volare, santi in grado di perpetrare varie specie di miracoli …)? Le ricerche condotte in questi ultimi anni da scienziati cognitivi, neuroscienziati e psicologi evoluzionisti hanno cominciato a gettare un po’ di luce su questi fenomeni [2].

C’è un primo fatto da considerare: gli organismi biologici sono stati foggiati dalla selezione naturale per essere efficientissimi “rilevatori di causalità”. Efficientissimi, ma non accurati. Infatti, i meccanismi che nel sistema nervoso si occupano di rilevare le relazioni di causa-effetto sono basati sulla rilevazione di una relazione di contingenza temporale e, perciò, non sanno davvero se la relazione sia causale o se sia, appunto, una contingenza, una mera correlazione. C’è un celebre esperimento che lo dimostra [3]. A intervalli casuali si fa cadere un po’ di cibo nella mangiatoia di un piccione. Dopo breve tempo l’animale sviluppa dei movimenti stereotipati, che egli riproduce più e più volte, come per esempio sbattere le ali o girare in tondo su se stesso. Nulla predice l’evento della caduta del cibo nella mangiatoia, ma il piccione si comporta come se le azioni che per caso si è trovato a condurre un istante prima della caduta del cibo fossero la causa della caduta del cibo. Se, per esempio, è successo che poco prima di ottenere il cibo l’animale ha girato il capo per pulirsi le piume del collo, egli in seguito tenderà a ripetere l’azione. Se il premio è elargito con relativa frequenza, accadrà ancora che la pulizia del collo sia seguita, per puro caso, dalla somministrazione del cibo. E questo accentuerà vieppiù il mantenimento dell’azione. Vi suona familiare? Vi è capitato di scendere dal letto e di indossare prima la ciabatta sinistra e poi quella destra e di godere poi di una giornata straordinariamente fortunata? E di decidere perciò il mattino seguente che, sì certo, i due eventi probabilmente non intrattenevano tra loro relazione alcuna, ma, tutto sommato, valeva la pena di riprovarci, indossando nuovamente prima la ciabatta di sinistra e poi quella di destra? Eh già …

L’ossessione per le relazione causali non basta però a spiegare la nostra inclinazione al sovrannaturale. Perché, come abbiamo già visto, la nozione di causa implica l’idea di un agente causale. Ed è a un tipo particolare di agenti causali – spesso invisibili – che è dedicata prioritariamente la nostra attenzione: gli agenti animati.

Tra le scoperte più singolari delle ricerche sullo sviluppo cognitivo infantile vi è l’osservazione che i bambini di età prescolare tendono a spiegare gli eventi del mondo come prodotti da qualcuno piuttosto che da qualcosa [4]. A un’interrogazione più attenta, si scopre altresì che questo “qualcuno” non si identifica precisamente con una persona umana, foss’anche la mamma o il papà, ma in un non meglio agente intenzionale astratto.

Oltre a ciò, i bambini prediligono le spiegazioni funzionaliste degli eventi [5]. Tendono cioè a concepire gli oggetti del mondo naturale come “costruiti per uno scopo” (pensiero teleologico) e manifestano questa tendenza in modo affatto indipendente da quello che gli adulti possano aver insegnato loro. Naturalmente nell’età adulta nuovi sistemi di credenze causali, veicolati dall’istruzione e in generale dalle conoscenze che si acquisiscono, possono sovraimporsi alle concezioni intuitive predisposte dalla nostra biologia, ma non possono eliminarle. Per esempio, le psicologhe Deborah Kelemen ed Evelyn Rosset hanno mostrato che le persone adulte, quando sono richieste di fornire velocemente un giudizio di plausibilità scientifica ad affermazioni erronee di tipo teleologico (per esempio, “il sole irraggia la terra perché il calore facilita la vita”), appaiono più propense a giudicarle corrette di quanto non lo siano nei confronti di affermazioni che, seppur sbagliate, sono di tipo non-teleologico (per esempio: “le colline si sono formate a causa della glaciazione delle acque sotterranee”).

Sembra dunque esserci un’universale preferenza nella nostra specie a comprendere e spiegare il mondo in termini di scopi e funzioni, di agenti dotati di obbiettivi e intenzioni. Ma da dove viene questa predilezione per gli agenti intenzionali che agiscono mossi da obbiettivi e scopi? Per quale motivo gli esseri umani ricercano ossessivamente tracce di “agentività” (agency), captando nel fruscio elettronico prodotto da una radio mal sintonizzata le voci dei defunti o attribuendo le catastrofi naturali alla volontà di qualche dio vendicativo irritato dai nostri comportamenti?

La storia inizia nella culla, nella distinzione che noi compiamo precocissimamente tra gli oggetti fisici, inanimati, e quelli psicologici, animati. La distinzione è così basilare da essere presente anche in specie molto lontane da noi e senza alcuna forma di apprendimento [6]. Gli oggetti animati sono naturalmente anch’essi entità di tipo fisico, ma si muovono spinti da intenzioni e possono essere tristi o allegri, aggressivi o amichevoli. I bambini possiedono una capacità innata di distinguere gli oggetti animati da quelli non animati. E noi adulti possediamo aree cerebrali specificamente dedicate al trattamento degli uni e degli altri tipi di oggetti [7].

La dicotomia nella rappresentazione mentale delle entità animate e inanimate ha avuto conseguenze inaspettate nella nostra specie, nella quale la sofisticatezza della vita di relazione ha raggiunto livelli impensabili rispetto ad altre specie pure sociali. Come sostiene lo psicologo Paul Bloom [8], la possibilità di trattare gli oggetti fisici come entità separate dagli oggetti mentali ci ha reso dei “dualisti intuitivi”, capaci cioè di concepire corpi privi di menti e menti prive di corpo. I cadaveri, per esempio, sono oggetti che hanno posseduto una mente, che sono stati abitati dallo spirito, e per questo meritano forme di rispetto, sebbene lo spirito ora li abbia lasciati. Spettri, angeli e demoni, invece, posseggono delle menti, ma possono in misura maggiore o minore fare a meno dei corpi. Il dualismo intuitivo costituirebbe, perciò, il fondamento cognitivo della credenza in una vita dopo la morte.

È nella letteratura, probabilmente, osserva Bloom, che meglio si palesa il dualismo che è connaturato alla nostra psicologia. Nessuno crede che sia una storia vera, ma tutti riusciamo a capire benissimo che cosa possa voler dire svegliarsi una mattina con il corpo trasformato in quello di uno scarafaggio, rimanendo nondimeno, in un qualche senso profondo, la stessa persona, Gregor Samsa. È bizzarro che si trovino plausibili storie come questa. Se la trasformazione è avvenuta, essa deve aver riguardato l’organismo tutto intero, quindi Gregor Samsa ora deve avere il sistema nervoso di uno scarafaggio e pensare come uno scarafaggio … (qualsiasi cosa questo possa voler dire!). Si palesa, qui, un altro tratto costitutivo delle nostre menti che fornisce ulteriore supporto alle credenze nel sovrannaturale, l’essenzialismo psicologico. L’essenzialismo è l’idea per cui certe categorie di cose (le donne, i gruppi razziali, le lucertole, i quadri di Matisse) posseggono una loro natura interna, un’essenza per l’appunto, non osservabile direttamente, che definisce la loro identità e spiega le somiglianze tra membri della stessa categoria.

Le proprietà delle essenze tendono a trasferirsi da un corpo all’altro. Lo psicologo Bruce Hood [9] lo illustra con un semplice esempio: sareste disposti a indossare il maglione di un serial killer? E perché no? Davvero pensate che la tendenza all’omicidio seriale possa trasferirsi tramite un maglione, contagiandovi come un bacillo? Insensato, certo. Eppure, quante storie avete letto e quanti film avete visto centrati sull’idea che dopo un trapianto di cuore qualcosa dell’espiantato, una qualche virtù o un qualche orribile vizio psicologico, si possa trasferire nel trapiantato mediante l’innesto del muscolo cardiaco? Se provate a chiedere a un bambino in età prescolare se una lucertola senza zampe sia ancora una lucertola e non invece un serpente, cui di fatto assomiglia maggiormente dopo l’amputazione, vi risponderà che sì, la lucertola è ancora una lucertola, non è diventata un serpente. Ci saremmo potuti aspettare che per i bambini le qualità percettive delle cose, quelle “superficiali” per così dire, siano più importanti di quelle “profonde”, essenziali. Invece i bambini sono essenzialisti da subito.

In ambito scientifico l’essenzialismo viene giustamente guardato con sospetto, perché è stato causa di molte controversie. Per esempio, quelle attorno alla definizione di che cosa sia “vivente”. Nozioni come quella di “razza” non corrispondono ad alcuna sottostante essenza [10]. Lo stesso vale per la nozione di “specie”, perché le specie evolvono e sono definite a livello di popolazione e non come proprietà intrinseca degli individui. Molte discussioni che investono la sfera civica, etica e religiosa sono legate all’essenzialismo (l’aborto, le cellule staminali, gli OGM). Ciò accade presumibilmente a causa del fatto che pensare in termini essenzialistici fa parte del nostro retaggio biologico.

La psicologa Susan Gelman ha raccolto molte importanti osservazioni a favore dell’idea che i bambini in età prescolare siano spontaneamente essenzialisti [11]. Per esempio, i bambini sembrano possedere una sorta di concezione intuitiva di “potenziale innato”, cioè l’idea che certe proprietà siano stabilite alla nascita. Se viene loro raccontata la storia di un coniglio che è stato adottato da una coppia di scimmie e si chiede ai bambini se il coniglio mangerà carote o banane e se avrà le orecchie corte oppure lunghe, questi rispondono tipicamente affermando che il coniglio mangerà carote e avrà le orecchie lunghe. Ciò anche se il coniglio non ha mai mangiato carote da piccolo e non ha mai visto carote in vita sua. Per i bambini, mangiare carote sembra inerente alla natura dei conigli: si tratta di una proprietà che presto o tardi deve necessariamente esprimersi, un potenziale innato appunto.

Numerosi dati raccolti dagli antropologi in culture diverse convergono sull’idea dell’essenzialismo. In tutte le culture studiate, a dispetto delle diversità che queste mostrano nel modo di concepire la nascita e le pratiche di allevamento, i bambini e gli adulti sottoposti a diverse varianti del test dell’adozione mostrano di concepire l’appartenenza a una specie come un tratto determinato da un’essenza, da un potenziale specifico e innato. È interessante come le persone siano disposte a ritenere che una categoria possegga un’essenza, senza che esse sappiano in che cosa consista tale essenza. Le persone sono convinte che vi debbano essere importanti differenze nella struttura mentale di maschi e femmine o che certe precise entità di natura genetica definiscano l’appartenenza a una razza, ma non saprebbero dire quali esse siano.

In effetti, non è importante che lo sappiano per ciò che riguarda la funzione biologica dell’essenzialismo. Le essenze servono come dei “segnaposto concettuali”, consentono cioè di distinguere i membri di una categoria come simili a causa di una struttura interna, che è comune a tutti loro e che è innata o biologicamente determinata, stabilendo altresì dei confini netti per la categoria, fissi e immutabili.

Da questo punto di vista le essenze sono preziose, perché consentono di esercitare inferenze su base induttiva. L’induzione è quel processo per cui estendiamo la nostra conoscenza a nuove entità a partire dalle proprietà di una categoria, come quando stabiliamo che un certo tipo di fungo nuovo, mai incontrato prima, è velenoso sulla base degli altri funghi velenosi incontrati in precedenza. Le inferenze che sono condotte dai bambini appaiono essere in accordo con una concezione essenzialista per due aspetti cruciali: primo, i bambini trasferiscono con grande facilità le proprietà interne e le funzioni non visibili da un membro di una categoria a un altro; secondo, i bambini traggono tali inferenze anche quando l’appartenenza alla categoria contrasta con le proprietà percettive superficiali. Se faccio vedere a un bambino un insetto che ha l’aspetto esterno di una foglia, spiegandogli che si tratta di un insetto, egli attribuirà all’insetto, senza alcun addestramento, proprietà da insetto e non da foglia, indipendentemente dal suo aspetto.

Essenzialismo, pensiero teleologico e dualismo intuitivo rappresentano dunque fondamentali adattamenti cognitivi che hanno generato, come sottoprodotti, la nostra inclinazione a credere al sovrannaturale e alle superstizioni in generale. Per quali ragioni biologiche si sarebbero sviluppati questi adattamenti è abbastanza chiaro: gli agenti sono categorie fondamentali per riconoscere potenziali prede, predatori, partner sociali o sessuali. Perciò, se vediamo un ramo spezzato nel bosco tenderemo a interpretarlo come il segno che “qualcuno” è passato di lì, anziché il risultato accidentale di un evento naturale, “qualcosa” come un temporale [12].

D’altronde, cooperazione e competizione sociale necessitano di raffinate abilità d’interpretazione e anticipazione dei comportamenti altrui: in questo senso, la capacità di rilevare tracce di agentività e d’interpretarle è fondamentale. E il prezzo da pagare per tutto ciò, la nostra credulità, sembra tutto sommato esser valso la pena.

 

Note

[1] S. Atran, In God We Trust. The Evolutionary Landscape of Religion, Oxford University Press, Oxford 2002.

[2] V. Girotto, T. Pievani, G. Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice Edizioni, Torino 2008.

[3] B.F. Skinner, “Superstition” in the pingeon, in Journal of Experimental Psychology, 38, 1947, pp. 168-172.

[4] D. Kelemen, Are Children “Intuitive Theists”?, in Psychological Science, 15, 2004, pp. 295-301.

[5] D. Kelemen, C. DiYanni, Intuitions about origins: purpose and intelligent design in children’s reasoning about nature, in Journal of Cognition and Development, 6, 2005, pp. 3-31.

[6] E. Mascalzoni, L. Regolin, G. Vallortigara, Innate sensitivity for self-propelled causal agency in newly hatched chicks, in Proceedings of the National Academy of Sciences USA, 107, 2010, pp. 4483-4485.

[7] A. Camarazza, J.R. Shelton, Domain-
specific knowledge systems in the brain: the animate-inanimate distinction, in Journal Cognitive Neuroscience, 10, 1998, pp. 1-34.

[8] P. Bloom, Descarte’s Baby: How the science of child development explains what makes us human, Basic books, New York 2004 (tr. it. Il bambino di Cartesio. La psicologia evolutiva spiega che cosa ci rende umani, Il Saggiatore, Milano 2005).

[9] B.M. Hood, SuperSense: why we Believe in the Unbelievable, Harper-One, London 2009.

[10] G. Barbujani, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2006. Sul razzismo vedi anche L.L. Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice, Torino 2004.

[11] S.A. Gelman, The Essential Child: Origins of Essentialism in Everyday Thought, Oxford University Press, New York 2003.

[12] J.L. Barrett, Why Would Anyone Belive in God?, Altamira Press, Lanham (MD) 2004.

 

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Giorgio Vallortigara è professore ordinario di Neuroscienze, direttore vicario del Center for Mind/Brain Sciences dell’Università di Trento e Adjunct Professor presso la School of Biological, Biomedical and Molecular Sciences della University of New England, Australia. Oltre a pubblicare numerosi articoli su riviste internazionali, svolge un’intensa attività di divulgazione. È autore, tra l’altro, di Cervello di gallina (Bollati Boringhieri 2005), vincitore del premio Pace per la divulgazione scientifica; insieme a Vittorio Girotto e Telmo Pievani, Nati per credere (Codice 2008); La mente che scodinzola. Storie di animali e di cervelli (Mondadori 2011), da cui è tratto il saggio qui riprodotto.

Da L’ATEO 5/2015