Relazione d’apertura

Coesistenza tra le diverse concezioni del mondo: leggi e pratiche discriminatorie negli Stati dell’Unione europea e nei paesi candidati

Varsavia (Polonia), 26 ottobre 2002

Cari amici,

a nome della Federazione umanista europea rivolgo a tutti voi un caloroso benvenuto ai lavori di questa sessione. Ieri abbiamo ascoltato interventi di grande interesse - da parte di Babu Gogineni, segretario esecutivo dell’IHEU, e di numerosi relatori polacchi - dei quali sono ansiosa di leggere le trascrizioni, quando gli atti di questa Conferenza verranno pubblicati. A loro vanno quindi i nostri più sentiti ringraziamenti, sia per il contributo offerto alla discussione che per l’enorme lavoro svolto da Andrej Dominiczak e dagli altri amici polacchi per la riuscita dell’iniziativa.

Siamo qui per festeggiare il decimo anniversario della Federazione umanista europea (EHF), che cade in un momento importantissimo per noi e per le generazioni future. Siamo alla vigilia dell’evento storico rappresentato dall’unificazione politica dell’Europa la quale non sarà più soltanto un mercato unico con una moneta comune, ma una entità politica pieno titolo, con 480 milioni di cittadini. Si tratta di un processo difficile che vede coinvolti quindici Paesi destinati a diventare venticinque ma che sta andando avanti, e al quale anche noi, come associazioni della società civile, siamo chiamate a dare il nostro contributo. Un contributo che non vogliamo si limiti ad essere una pura formalità.

La scorsa settimana ho partecipato a Bruxelles a una riunione congiunta del Gopa (Group of Political Advisers), il gruppo dei consiglieri politici del Presidente della Commissione e di Un’anima per l’Europa. Quest’ultimo riunisce coloro che, in ambito europeo, vengono qualificati come i rappresentanti delle comunità di fede e di convinzione. Ovverosia gli esponenti di tutte le principali religioni che i laico-umanisti, la cui concezione del mondo e rappresentatività sono ufficialmente riconosciuti. In questo incontro, ho notato due atteggiamenti particolarmente significativi. In primo luogo, la sincera preoccupazione manifestata da autorevolissimi dirigenti dell’Unione Europea, i quali hanno ricordato come l’obiettivo centrale del progetto europeo fosse fin dall’inizio la costruzione di una Europa di «pace, umanismo, stabilità e democrazia»… È con queste parole che si è espresso Michel Barnier, Commissario europeo per le politiche regionali, sottolineando come il progetto europeo necessiti di un orizzonte ben preciso e di una forte determinazione nel raggiungere gli scopi prefissati. Egli ha sottolineato, inoltre, il profondo valore della coesione sociale e quindi l’esigenza che le associazioni della società civile e, in particolare, quelle che rappresentano le diverse concezioni del mondo, facciano conoscere le proprie posizioni e partecipino attivamente alla costruzione dell’Europa.

Il secondo elemento che mi ha colpita, nel vivace dibattito seguito alle relazioni, è stato il fatto che praticamente tutti gli intervenuti hanno preso la parola per informare i presenti delle attività da loro svolte, oppure per sottolineare le esigenze e i diritti della propria comunità di fede. Uno di essi, dopo aver rimarcato l’importanza che riveste l’identità religiosa e aver sostenuto che «spesso la religione risolve i conflitti internazionali» - un’affermazione che forse è il segno di una memoria labile - ci ha ricordato che dovremmo sempre domandarci se «i nostri diritti, in quanto membri di questa comunità, sono rispettati».

È qui che entriamo in gioco noi umanisti. Non chiediamo nulla per noi stessi. Non chiediamo privilegî per i cittadini laici e aconfessionali. Il nostro obiettivo è assicurare pari diritti e pari libertà, compresa la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, a tutti. Non esistono concetti quali «identità umanista» o «comunità umanista». La nostra comunità è il genere umano. I nostri valori derivano dalla consapevolezza del posto che occupiamo nel processo evolutivo e consideriamo l’uomo come una parte, la parte più responsabile, degli abitanti del nostro pianeta. «Non siamo sulla superficie della terra, siamo la superficie della terra», ha scritto uno studioso buddista americano, cioè viviamo in una condizione di totale interdipendenza con l’ambiente circostante. Poiché il progresso tecnologico, in special modo l’ICT (Information and Communication Technology), ha ridotto le distanze fra gli esseri umani, il mondo si è, in un certo senso, rimpicciolito e la razza umana - l’unica razza che conosciamo - si è ritrovata a vivere in un insieme che abbraccia l’intero villaggio globale. Tale consapevolezza ha dato vita a un nuovo tipo di umanismo, un umanismo planetario, per ciò stesso onnicomprensivo e maggiormente sensibile al bisogno di armonia fra gli uomini e tra l’uomo e la natura. Questo è il motivo per cui appoggiamo lo sviluppo sostenibile, il contenimento della crescita della popolazione mondiale, la riduzione delle disuguaglianze tra ricchi e poveri, la difesa dell’ambiente. Ciò presuppone che ai nostri occhi ogni singolo individuo di questa terra abbia pari dignità e valore e pari diritti. Qualcuno sostiene che l’umanismo sia un’utopia, e forse non ha torto; si tratta comunque di un’utopia sicuramente utile, poiché ci mostra la strada che dobbiamo percorrere per migliorare le condizioni di vita di coloro che soffrono - in particolare a causa dell’avidità altrui - e per ridurre la violenza e i conflitti nelle nostre società.

A differenza di altri, noi umanisti non ci accontentiamo di proclamare i valori che difendiamo ma vogliamo vederli messi in atto ed è per questo che sosteniamo il pluralismo, la democrazia e lo stato di diritto. Ma la democrazia è un processo infinito, sia nelle modalità in cui si attua, che nella continua evoluzione dei suoi diversi aspetti costitutivi. Quindi mentre l’uomo e la società si evolvono, il nostro concetto dei diritti e delle opportunità si estende ulteriormente, migliorando e arricchendo l’idea stessa di democrazia. Penso sia questo il significato che diamo alla concezione del mondo umanista.

Nella maggior parte dei Paesi europei esiste una religione di Stato oppure un Concordato con la chiesa cattolica. Sappiamo che ciò e dovuto a ragioni storiche che hanno radici lontane, ma a volte anche vicine poiché la chiesa cattolica ha firmato concordati negli ultimi due anni con gli Stati dell’Europa centrale candidati ad entrare nell’UE. Ad ogni modo, ogni rapporto privilegiato con questa o quella autorità religiosa, ufficializzato o non a livello istituzionale, è in patente contrasto con la Convenzione europea per i diritti dell’uomo e con i principi di pluralismo e di laicità dello Stato e viola le nostre Costituzioni che sanciscono l’uguaglianza di tutti i cittadini. Sappiamo che si tratta di una realtà difficile da scalfire, ma sappiamo altresì che occorre affrontarla in tutti i suoi aspetti poiché rappresenta un pericolo per quella coesione sociale che è al centro delle preoccupazioni dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa. Vi sono discriminazioni e ingiustizie considerate accettabili in passato e che oggi non lo sono più. Dobbiamo partire dal fatto che i privilegî concessi in alcuni Paesi alla religione dominante non sono affatto di natura spirituale, bensì estremamente terrena, con ricadute enormi - in termini di presenza condizionante a tutti i livelli della scala sociale e politica, nonché tra la gente comune. Seppure di diversa consistenza a seconda delle realtà nazionali, tali privilegî sono identificabili in un significativo flusso di fondi pubblici alla chiesa dominante e al suo «indotto», ovvero scuole private, associazioni culturali e sportive, ospedali, case di cura per anziani, e simili. E sempre ai privilegi è dovuta l’onnipresenza della religione nelle scuole pubbliche e nei luoghi di decisione politica, con la esibizione pervasiva di crocifissi e di altri simboli religiosi in edifici pubblici, stazioni ferroviarie, persino nelle autostrade o sulla vetta delle montagne. Ciò ha un effetto doppiamente nefasto: la discriminazione dei cittadini appartenenti a religioni diverse da quella maggioritaria o liberi da religioni e la perpetuazione del sentimento di identità religiosa. Il concetto di «identità» è ambiguo, è un’arma a doppio taglio. Se da un lato fornisce un rassicurante senso di appartenenza, dall’altra - anziché aprire il cuore e la mente al prossimo - alimenta facilmente la chiusura, la cultura del sospetto ed è spesso il primo passo verso l’intolleranza e l’esclusione. Come il nazionalismo e il fondamentalismo, il concetto di identità non appartiene all’umanismo che è pluti-identitario e si fonda sulla tolleranza - o meglio sull’apertura verso l’altro, sulla la ricerca di giustizia e sull’impegno a cercare di stabilire il dialogo tra opinioni e concezioni del mondo anziché utilizzarle per prendere il sopravvento.

Sia pure a livelli diversi, negli ultimi decenni la laicità ha sollecitato nelle nostre società una consapevolezza individuale e sociale espressasi nella separazione tra chiesa e Stato, nell’indipendenza dello Stato e dell’individuo dall’autorità religiosa, nella distinzione tra diritto e morale (per esempio, tra reato e peccato), nella neutralità delle autorità e delle istituzioni pubbliche (perlomeno in teoria) rispetto agli interessi privati e alle convinzioni degli individui o dei gruppi. È questo il nucleo centrale dei valori condivisi dall’Unione europea e dai suoi Stati membri i quali, mediante l’adozione di trattati su singole questioni, si impegnano a convergere verso una mentalità europea più omogenea, anche se è noto che la Francia ha una connotazione laica più marcata, l’Italia, la Spagna e il Portogallo sono vincolate da Concordati, mentre Gran Bretagna, Svezia e Finlandia hanno una religione di Stato i cui effetti discriminatori sono, però, spesso attenuati da Costituzioni democratiche e pluraliste. Per quanto riguarda il rapporto fra Stati e religioni, questo processo di convergenza è stato bloccato dal Trattato di Amsterdam che, nella undicesima Dichiarazione aggiuntiva, dichiara che gli Stati si impegnano a «rispettare e non pregiudicare lo status nazionale delle confessioni religiose» ed estende tale status alle «organizzazioni filosofiche non confessionali». Si tratta di una sussidiarietà della peggior specie, che cristallizza i privilegi esistenti e le discriminazioni che ne conseguono.

Ho aperto il mio intervento ricordando che siamo alla vigilia di un evento storico, la nascita dell’Europa politica. Ma oggi ricorre anche un altro anniversario, che a questo evento è strettamente collegato, ossia il decimo compleanno della EHF. Diamo uno sguardo alla sua storia recente e al suo impegno a favore dell’Europa, con particolare riguardo alla Costituzione, della cui stesura si sta occupando l’organismo denominato La Convenzione sul futuro dell’Unione. Questo forte impegno, unitamente al dialogo con le istituzioni europee, è stato uno dei motivi, se non il principale, della recente crescita della EHF.

Nel luglio del 2001 la Commissione ha pubblicato un libro bianco sul governo dell’Unione europea, sollecitando commenti e proposte da parte della società civile. Nel marzo di quest’anno la EHF - dopo aver raccolto l’opinione delle organizzazioni federate - ha presentato un contributo di dieci pagine. Il documento si apre con una dichiarazione che definisce l’UE una comunità di valori condivisi dai cittadini degli Stati membri e una democrazia partecipativa, regolata dallo stato di diritto, per l’attuazione della quale vengono avanzate anche alcune proposte specifiche. L’intento è quello di aumentare e rafforzare - a tutti i livelli - i canali di comunicazione tra cittadini e autorità, creando un sistema basato su una legittimazione democratica diretta che possa contribuire a recuperare il deficit di credibilità delle istituzioni comunitarie. Inoltre, il coinvolgimento dei cittadini nello sviluppo della società potrà concorrere a riabilitare il ruolo della politica nelle nostre democrazie. Le attività delle associazioni della società civile, animate da particolare senso civico, deve essere valorizzata ma, per essere riconosciute come tali, queste associazioni devono conformarsi ai criteri fissati dalla Commissione economica e sociale, ovvero devono essere «l’espressione della volontà dei cittadini», il che significa che devono essere costituite «su base volontaria […] attraverso un processo democratico». Infatti, per la Commissione o il Parlamento sarebbe assolutamente inconcepibile stabilire relazioni istituzionali con organismi che non rispettino tali principî. Evidentemente, tale logica esclude le chiese e le religioni le cui dirigenze non sono rappresentative, ma nominate in base a criteri autoritari e teocratici.

Discriminazione. Si tratta di una questione-chiave per la EHF. Sebbene i nostri Stati abbiano sottoscritto numerosi documenti internazionali, nei quali si sono impegnati a non discriminare i cittadini secondo il sesso, l’età, la religione, ecc., è noto che ciò avviene ugualmente ovunque, seppure in modi e gradi diversi ma, come dicevo poc’anzi, la democrazia è un processo infinito. Il documento della EHF afferma che in molti Stati membri e Paesi candidati vengono attuate discriminazioni nei confronti di diversi gruppi sociali: donne, omosessuali, non credenti, seguaci di religioni minoritarie o non riconosciute. Tali discriminazioni sono evidenti nel campo dell’istruzione, della presenza della religione nelle scuole, negli aspetti sociali, nei privilegi politici, nell’occupazione, ecc. «È arrivato il momento di renderci conto che […] queste discriminazioni sono inaccettabili».

Scienza. La scienza, che ha contribuito in misura così sostanziale alla liberazione dell’uomo, non può diventare surrettiziamente uno strumento per limitarne la libertà, o per introdurre rigidi controlli sulla conoscenza e la tecnologia. A questo proposito, il documento si richiama al diritto all’informazione, sia come principio generale di democrazia che come contromisura di fronte al pericolo dello sfruttamento dei risultati scientifici in base alla redditività economica, senza preoccupazioni di carattere etico o sociale. «Le recenti dispute e controversie intorno agli OGM, alla brevettabilità della vita o all’effetto serra, dimostrano l’esigenza improcrastinabile di istituire una struttura democratica per il governo dell’Europa, a tutti i livelli politici». Inoltre «l’interesse generale deve avere la precedenza su qualsiasi interesse particolare o opinione di parte» e va assicurata la massima trasparenza nell’utilizzo di fondi pubblici.

Il documento della EHF prosegue nell’analisi di altre questioni importanti, quali il principio di precauzione e il ruolo del settore pubblico, e termina con un appello «ad avvicinare l’Europa ai suoi cittadini, per rispondere alle loro aspettative e trattarli come attori piuttosto che come sudditi». Occorre avviare un dialogo ufficiale tra la società civile e le istituzioni europee, sotto la responsabilità politica del Parlamento europeo.

Amici, con l’ingresso nell’UE della Polonia e di altri paesi dell’Europa centrale e orientale, il modo migliore per festeggiare il nostro decimo anniversario è quello di rinnovare il nostro impegno a partecipare attivamente alla costruzione della nostra futura Europa unita che vogliamo democratica, laica e umanista.

Vi ringrazio dell’attenzione.

Vera Pegna
Membro del Consiglio della EHF
Vice segretario dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti - Italia