Nota a sentenza della corte costituzionale n. 508 del 13/11/2000

(sul vilipendio alla religione di Stato)

Corte costituzionale e vilipendio

di Augusto Federici

La recente Sentenza della Corte Costituzionale n. 508 del 13/11/2000 sotto riportata ha fatto tirare una boccata d’ossigeno nell’anno Giubilare. Meraviglia soltanto la constatazione che la questione di costituzionalità sia stata dichiarata ammissibile solo al terzo grado del processo, e cioè in Cassazione, e che sia stata dichiarata improponibile nei due precedenti gradi di merito.

 

Per spiegare brevemente (a chi non lo conosca) il meccanismo del procedimento avanti la Corte Costituzionale, va precisato che a tale Giudice si può giungere solo se la questione di costituzionalità di una norma di legge venga sollevata nel corso di una causa avanti a un Giudice ordinario (civile e penale) o amministrativo e contabile in cui debba essere applicata.

 

La cosiddetta questione di costituzionalità su una norma può essere eccepita o da una delle parti o, come si dice, «sollevata d’ufficio»; dal Giudice che deve applicarla. Questi, ove eccepita l’incostituzionalità dalla parte, la respinge solo ove essa appaia «manifestamente infondata». Ebbene, nel nostro caso ben due Giudici di merito hanno respinto la eccezione perché a loro avviso del tutto infondata e quindi non degna di essere posta all’attenzione della Corte Costituzionale. Ad essere equanimi, a giustificazione delle decisioni dei due Giudici di merito, va però ricordato che la questione era già stata sottoposta al vaglio della Corte con esito negativo.

 

Maggior merito quindi alla Cassazione che con l’Ordinanza di remissione (così si chiama il provvedimento con cui un Giudice rimette la questione al supremo Giudice di legittimità) ha sottolineato la necessità di un nuovo esame alla luce dei principî più volte affermati negli ultimi anni dalla stessa Corte Costituzionale su altri processi in questioni analoghe. I principî affermati nella sopra riportata Sentenza sono molti, su questo la decisione è chiarissima e si commenta da sé. Alcuni però sono particolarmente importanti e fra questi in primis il corollario che deriva dall’affermata irrilevanza, ai fini di una tutela particolare, della maggiore «quantità» dei cattolici rispetto agli adepti d’altre confessioni religiose. Ciò significa che non è più tutelabile o meglio è «anacronistico» considerare la religione cattolica come solo elemento unificante e rappresentativo della coscienza nazionale. Lo Stato italiano è laico e come tale in esso confluiscono le esperienze di tutte le confessioni religiose (non necessariamente cristiane aggiungerei) e anche della cultura non religiosa.

 

La Corte, ribadito che in materia penale non è ammessa la forma addittiva, ma solo quella ablativa, incidentalmente osserva «che la fede non necessita di tutela diretta». Una tale affermazione non è casuale ma indica una strada, un percorso, che uno Stato civile e laico deve perseguire per affrancarsi da un retaggio che lo ha spesso visto succube alle richieste confessionali di sanzionare penalmente l’inosservanza di precetti etici propri solo delle religioni cosiddetto «di Stato» o «dominanti». Ciò è avvenuto nel passato, avviene al presente in molti Stati di area islamica, purtroppo è avvenuto anche recentemente in Italia ove i partiti cattolici sono riusciti a inserire nel nostro sistema gravi sanzioni penali e amministrative in materia d’inseminazione e d’uso dei cloni.

 

Sempre per i non addetti ai lavori va precisato che per Sentenza di incostituzionalità additiva, a differenza di quella ablativa, s’intende quella che per rendere una legge costituzionalmente legittima le aggiunge un quid per estenderne l’efficacia e renderla così applicabile a tutti, Ad esempio se una legge garantisce un privilegio o un diritto solo a una certa categoria di persone (vedi per esempio tutte le leggi che escludevano da lavori o professioni le donne) la Corte nel dichiararla incostituzionale, così com’è formulata, la costituzionalizza estendendone l’applicazione alla generalità dei cittadini. Con un tale sistema, quello additivo, l’art. 402 c.p. si sarebbe potuto renderlo legittimo estendendone l’applicazione al vilipendio di tutte le religioni. Ma ciò avrebbe provocato l’estensione del reato e ciò, come dice chiaramente la Corte, in materia penale non è ammissibile. Alla dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale può seguire solo la sua eliminazione totale, con la cancellazione dal sistema del reato ivi previsto.

 

Questa precisazione finale, molto ovvia per gli addetti ai lavori, è stata forse inserita per attenuare il contenuto del complesso della motivazione che è decisamente laica. Consoliamoci e esultiamo per quanto scritto nel § 3 della Sentenza; lasciamo agli amici clericali la chiusa per loro forse lievemente consolatoria. Questa Sentenza ci solleva dallo sconcerto provocato da tante prosternazioni di nostri politici laici o meglio ex laici alla Chiesa nell’anno Giubilare che finalmente volge al termine.

 

Un’altra chicca, sempre consolatoria, è la Sentenza della Cassazione 1/3/2000 che, in un processo contro certo signor Marcello Montagnana, lo ha assolto definitivamente dopo lunga battaglia durata 5 gradi di giudizio (ideologica visto che si trattava di una condanna di sole £ 40.000) dal reato previsto dall’art. 108 D.P.R. 361/57 per essersi rifiutato di fare lo scrutatore elettorale in quanto nei seggi in generale era prevista la presenza del crocefisso. Da notare che il Montagnana ne ha fatto una questione di principio generale, perché nell’aula del seggio cui era stato assegnato il crocefisso non c’era.

 

Ogni tanto evidentemente qualche parte dei poteri dello Stato si ricorda che sono passati i tempi del Sillabo e questo fa ben sperare. Speriamo che passato l’anno Giubilare e che passate le prossime elezioni politiche in cui tutte le forze politiche (salvo qualche lodevole eccezione) sono alla spasmodica ricerca di qualche voto cosiddetto cattolico, questa parentesi si chiuda e che il nostro Paese si ricordi delle grandi conquiste recentemente raggiunte, a partire dal 1970 con la legge sul divorzio, per l’affermazione della laicità dello Stato.

 



Sentenza n. 508

Anno 2000

Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
La Corte Costituzionale

 

Composta dai signori:

    Cesare Mirabelli, Presidente;
    Francesco Guizzi, Giudice
    Fernando Santosuosso, Giudice
    Massimo Vari, Giudice
    Cesare Ruperto, Giudice
    Riccardo Chieppa, Giudice
    Gustavo Zagrebelsky, Giudice
    Valerio Onida, Giudice
    Carlo Mezzanotte, Giudice
    Fernanda Contri, Giudice
    Guido Neppi Modona, Giudice
    Piero Alberto Capotosti, Giudice
    Annibale Marini, Giudice
    Franco Bile, Giudice
    Giovanni Maria Flick, Giudice

     

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1998 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di A. G., iscritta al n. 105 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 1999.

 

Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

Ritenuto in fatto

  1. Con ordinanza del 5 novembre 1998, la Corte di cassazione ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 402 cod. pen. (Vilipendio della religione dello Stato), in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.
  2. Premesse le vicende del giudizio di merito, quanto al fatto storico e quanto alle diverse conclusioni dei giudici di primo grado e di appello, la Corte rimettente sottolinea in primo luogo la rilevanza della questione: si tratta infatti di verificare la legittimità costituzionale della norma incriminatrice oggetto della contestazione all’imputato.
  3. Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione svolge la motivazione dell’ordinanza attraverso una rassegna del percorso della giurisprudenza costituzionale e delle modifiche normative in tema di reati «di religione».
  4. La Cassazione muove dalla prima decisione resa dalla Corte costituzionale sull’art. 402 cod. pen. - sentenza n. 39 del 1965 - con la quale era stata rigettata una questione di costituzionalità, riferita agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione, principalmente sul rilievo che la tutela penale rafforzata della religione cattolica, rispetto alle altre confessioni, trovava giustificazione nella sua connotazione di religione professata dalla maggioranza dei cittadini, e dunque nella maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali alle offese che alla stessa religione potessero essere rivolte.

     

    La norma penale in argomento - prosegue la Corte rimettente - si riferisce alla «religione dello Stato», una nozione, questa, ripresa dall’art. 1 dello Statuto albertino e ribadita nell’art. 1 del Trattato Lateranense del 1929, che, oltre a essere incompatibile con il principio supremo di laicità dello Stato (quale emerge dalle sentenze nn. 203 del 1989 e 149 del 1995 della Corte costituzionale), è stata comunque superata dalle modifiche concordatarie del 1984; il punto 1 del Protocollo addizionale all’accordo di modifica del Concordato, ratificato con la legge 25 marzo 1985, n. 121, infatti, afferma che «si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».

    E ancora a tale riguardo, la Cassazione rileva che la Corte costituzionale ha ritenuto che l’espressione «religione dello Stato», utilizzata nel codice penale, una volta venuta meno la possibilità di attribuirle l’originario significato, non ha altro senso se non quello di un semplice «tramite linguistico» con il quale viene indicata la religione cattolica (sentenze nn. 925 del 1988 e 440 del 1995).

     

    Ciò posto, il giudice rimettente, per argomentare la questione, assume come proprî taluni passaggi di più recenti decisioni della Corte costituzionale.

     

    Nella sentenza n. 329 del 1997, osserva la Cassazione, è stato messo in rilievo che «secondo la visione nella quale si mosse il legislatore del 1930, alla Chiesa e alla religione cattoliche era riconosciuto un valore politico, quale fattore di unità morale della nazione. Tale visione, oltre a trovare riscontro nell’espressione “religione dello Stato” stava alla base delle numerose norme che, anche al di là dei contenuti e degli obblighi concordatari, dettavano discipline di favore a tutela della religione cattolica, rispetto alla disciplina prevista per le altre confessioni religiose, ammesse nello Stato. Questa ratio differenziatrice certamente non vale più oggi, quando la Costituzione esclude che la religione possa considerarsi strumentalmente rispetto alle finalità dello Stato e viceversa (sentenze nn. 334 del 1996 e 85 del 1963, nonché 203 del 1989)».

    D’altra parte, prosegue la Cassazione, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo abbandonato il criterio «quantitativo» inizialmente utilizzato (ad esempio, nelle sentenze nn. 125 del 1957, 79 del 1958 e 14 del 1973) per giustificare la tutela rafforzata a favore della religione «di maggioranza»: già nella decisione n. 925 del 1988 si è affermato che è «ormai inaccettabile ogni tipo di discriminazione [che si basi] soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose»; mentre la successiva sentenza n. 440 del 1995 ha precisato che «l’abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza».

     

    Da ultimo - conclude la Cassazione - la Corte costituzionale, nella già citata sentenza n. 329 del 1997, ha definitivamente escluso la possibilità di giustificare differenziazioni legislative nella tutela penale del «sentimento religioso», osservando che «la protezione del sentimento religioso è venuta ad assumere il significato di un corollario del diritto costituzionale di libertà di religione, corollario che, naturalmente, deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti coloro che la vivono, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede delle diverse confessioni. Il superamento di questa soglia attraverso valutazioni e apprezzamenti legislativi differenziati e differenziatori, con conseguenze circa la diversa intensità di tutela, infatti, inciderebbe sulla pari dignità della persona e si porrebbe in contrasto col principio costituzionale della laicità o non confessionalità dello Stato […]: principio che, come si ricava dalle disposizioni che la Costituzione dedica alla materia, non significa indifferenza di fronte all’esperienza religiosa ma comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose».

  5. In tale quadro di riferimento, si delineano, ad avviso della Corte di cassazione, le seguenti coordinate della questione: a) il venir meno del carattere di religione «di Stato» per la confessione cattolica ha riportato quest’ultima nell’ambito della pari dignità rispetto a ogni altra confessione, conformemente al disegno costituzionale; b) la Corte costituzionale ha numerose volte sollecitato il legislatore a rimuovere ogni ingiustificata differenza di tutela penale tra la religione cattolica e le altre confessioni; c) il reato di cui all’art. 402 cod. pen. mantiene viceversa una effettiva discriminazione tra confessioni religiose, tutelando esclusivamente la religione cattolica.
  6. Ne deriva la necessità di rimettere al controllo di costituzionalità la compatibilità tra la norma penale in discorso e i principi espressi negli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione.

Considerato in diritto

  1. La Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione dello Stato) che punisce con la reclusione fino a un anno «chiunque pubblicamente vilipende la religione dello Stato». Il giudice rimettente dubita che la disposizione in esame, accordando una tutela privilegiata alla sola religione cattolica - già religione dello Stato (sentenze nn. 925 del 1988,  440 del 1995 e 329 del 1997) - violi gli artt. 3 e 8 della Costituzione, cioè l’eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione e l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge.
  2. La questione è fondata.
  3. Posta dal legislatore penale del 1930, la norma impugnata, insieme a tutte le altre che prevedono una protezione particolare a favore della religione dello Stato-religione cattolica, si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell’epoca, era riconosciuto al cattolicesimo quale fattore di unità morale della nazione. In questo senso, la religione cattolica era «religione dello Stato» - anzi necessariamente «la sola» religione dello Stato (formula risalente all’art. 1 dello Statuto albertino e riportata a novella vita dall’art. 1 del Trattato fra la Santa Sede e l’Italia del 1929): oltre che essere considerata oggetto di professione di fede, essa era assunta a elemento costitutivo della compagine statale e, come tale, formava oggetto di particolare protezione anche nell’interesse dello Stato.
  4. Le ragioni che giustificavano questa norma nel suo contesto originario sono anche quelle che ne determinano l’incostituzionalità nell’attuale.

     

    In forza dei principî fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8).

     

    Tale posizione di equidistanza e imparzialità è il riflesso del principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di «principio supremo» (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il  quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995).

     

    Queste conclusioni sono progressivamente maturate, pur partendo da proposizioni iniziali per diversi aspetti divergenti (sentenze nn. 79 del 1958; 39 del 1965; 14 del 1973), in concomitanza con significativi e convergenti svolgimenti dell’ordinamento. Il punto 1 del Protocollo addizionale all’Accordo che apporta modificazioni al Concordato lateranense, recepito con la legge 25 marzo 1985, n. 121, ha esplicitamente affermato il venire meno del principio della religione cattolica come sola religione dello Stato e, con le diverse intese poi raggiunte con confessioni religiose diverse da quella cattolica, si è messo in azione il sistema dei rapporti bilaterali previsto dalla Costituzione per le altre confessioni. In tale contesto, si è manifestata la generale richiesta allo Stato di una sua disciplina penale equiparatrice, o nel senso dell’assicurazione della parità di tutela penale (come è nel caso dell’art. 1, quarto comma, dell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane del 27 febbraio 1987), o nel senso che la fede non necessita di tutela penale diretta, dovendosi solamente apprestare invece una protezione dell’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti e garantiti dalla Costituzione (art. 4 dell’intesa con la Tavola valdese del 21 febbraio 1984; preambolo all’intesa con le Assemblee di Dio in Italia del 29 dicembre 1986; preambolo all’intesa con l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia del 29 marzo 1993). A fronte di questi svolgimenti dell’ordinamento nel senso dell’uguaglianza di fronte alla legge penale, l’art. 402 del codice penale rappresenta un anacronismo al quale non ha in tanti anni posto rimedio il legislatore. Deve ora provvedere questa Corte nell’esercizio dei suoi poteri di garanzia costituzionale.

     

  5. Sebbene, in generale, il ripristino dell’uguaglianza violata possa avvenire non solo eliminando del tutto la norma che determina quella violazione ma anche estendendone la portata per ricomprendervi i casi discriminati e, sebbene il sopra evocato principio di laicità non implichi indifferenza e astensione dello Stato dinanzi alle religioni ma legittimi interventi legislativi a protezione della libertà di religione (sentenza n. 203 del 1989), in sede di controllo di costituzionalità di norme penali si dà solo la prima possibilità. Alla seconda, osta infatti comunque la particolare riserva di legge stabilita dalla Costituzione in materia di reati e pene (art. 25, secondo comma) a cui consegue l’esclusione delle sentenze d’incostituzionalità aventi valenze additive, secondo l’orientamento di questa Corte (v., in analoga materia, la sentenza n. 440 del 1995).
  6. La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale si impone dunque nella forma semplice, esclusivamente ablativa.

Per Questi Motivi

La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 del codice penale (Vilipendio della religione dello Stato).

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 novembre 2000.

 

F.to: Cesare Mirabelli, Presidente; Gustavo Zagrebelsky, Redattore; Giuseppe Di Paola, Cancelliere.

 

Depositata in cancelleria il 20 novembre 2000.

 

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Di Paola.