Umanità senza razze

di Gianfranco Biondi e Olga Rickards

 

La razza in biologia non è altro che la categoria tassonomica sottospecifica e come le altre — specie, genere, famiglia, ordine, classe, phylum, regno e dominio — deve identificare il rapporto di parentela o antenato-discendente che unisce gli individui o i gruppi. La gran parte delle specie viventi può essere suddivisa all’interno in razze ma non la nostra. E vedremo il perché.

Nel 1775 J.F. Blumenbach ha pubblicato il saggio De generis humani varietate nativa, cioè il testo di fondazione dell’antropologia come scienza autonoma. Quel testo però conteneva già nel titolo l’errore epistemologico che è divenuto il paradigma centrale della disciplina e che si è mantenuto tale fino alla metà del XX secolo. Cioè, che le varietà o razze della nostra specie fossero un dato di natura e come tale da non dover essere sottoposto a verifica sperimentale. Oggi, quell’errore non sarebbe ammesso in ambito scientifico, perché il processo moderno prevede che prima si formuli l’ipotesi, poi la si verifichi sperimentalmente e a seguito del risultato la si accetti o la si rifiuti. E nel caso del rifiuto si parla di falsificazione dell’ipotesi. Secondo Blumenbach, l’umanità doveva essere classificata in un’unica specie suddivisa in cinque razze e tale affermazione non costituiva affatto un’ipotesi scientifica da validare sperimentalmente ma appunto un dato evidente di per sé.

Il termine razza è stato coniato nel Cinquecento per indicare genericamente la discendenza, ma è entrato nella letteratura scientifica solo a metà Settecento con l’opera Histoire naturelle di G.L. Leclerc, conte di Buffon, pubblicata tra il 1749 e il 1789.

La suddivisione dell’umanità in razze rispondeva, sebbene in modo improprio, alla necessità di mettere ordine nella variabilità morfologica osservata nella nostra specie e i caratteri prevalentemente utilizzati dagli studiosi riguardavano il volume e la forma del cranio, posti erroneamente in correlazione diretta con l’intelligenza, e il colore della pelle, il tratto che più di ogni altro colpiva e colpisce l’osservatore e che sembrava essere la prova oggettiva della nostra differenziazione in razze. In epoca pre-genetica, e quindi fino alla metà del Novecento, la variabilità biologica poteva essere analizzata solo a partire dalla morfologia, ma la manifestazione di quei tratti che si osserva o si misura è determinata dall’interazione tra i geni e l’ambiente ed è pertanto di natura ecologica. La morfologia consente di individuare la connessione che esiste tra le popolazioni e gli ambienti in cui vivono: i loro rapporti ecologici. Essa invece non permette di ricostruire le relazioni di parentela tra i diversi gruppi umani, che è il compito della sistematica. La diversità ambientale induce morfologie differenziate anche in presenza di rilevanti somiglianze genetiche e sono queste ultime, e solo esse, che rendono conto del livello di parentela tra i popoli.

Eccoci arrivati al punto. La tassonomia serve a descrivere la sequenza antenato-discendente e la razziologia, costruita nel tempo su base morfologica, ha fallito questo compito nell’uomo. Diversamente, l’ecologia rende conto dell’indissolubile legame tra la vita e il luogo dove essa si è sviluppata. In ambito biologico, l’ecologia occupa il medesimo livello di importanza della tassonomia, ma è altra cosa. La razziologia non ci ha fornito il quadro della parentela tra le popolazioni umane, come il suo compito scientifico avrebbe imposto, ma quello della condivisione ambientale. Questa è la spiegazione teorica dell’affermazione: le razze umane non esistono. Un’asserzione che non intende disconoscere la variabilità biologica che contraddistingue la nostra specie. Farlo equivarrebbe a porsi fuori dall’evoluzionismo darwiniano, che è costruito proprio a partire dalla variabilità. La vita esiste solo perché l’evoluzione ha operato scelte all’interno della variabilità. Il creazionismo non la contemplava ed è stato falsificato. Rifiutare il concetto scientifico di razza nell’uomo significa pertanto che le diversità osservate non devono essere ascritte alla tassonomia, di cui la razza è la categoria sottospecifica, ma all’ecologia, che non include quel termine.

La falsificazione scientifica della razza è stata possibile solo nel corso della seconda metà del Novecento e cioè dopo che la genetica si è affermata come disciplina biologica.

Fino alla metà del Novecento infatti non c’era altra possibilità per i biologi di analizzare la variabilità che rivolgersi ai caratteri morfologici e che questi erano inidonei a ricostruire i rapporti parentali tra i gruppi. La misurazione e la descrizione del nostro sembiante sono condizionate dalla soggettività dell’operatore e dalla strumentazione tecnica a disposizione dello studioso. Consideriamo, quale esempio esplicativo, il colorito cutaneo. Fino all’ultimo quarto del XX secolo quel tratto veniva rilevato mediante una serie di tesserine in ceramica di diverso colore. E poiché tra un tassello e l’altro c’era evidentemente un vuoto, era possibile ordinare le popolazioni in gruppi discreti. L’introduzione della spettrofotometria ha invece dimostrato che la distribuzione del colore della pelle nei popoli ha un andamento a campana e che le code delle campane di popolazioni diverse si sovrappongono. Cioè a dire che la coda che comprende gli individui più chiari di un gruppo scuro si sovrappone alla coda degli individui più scuri di un gruppo chiaro. E un simile andamento del fenomeno ha evidenziato che è assolutamente impossibile separare in modo netto i gruppi umani. Essi pertanto non sono unità discrete, come la razziologia avrebbe preteso. Abbiamo riportato questo cambio tecnologico verificatosi negli studi sulla pigmentazione per dimostrare che per scoprire la realtà del mondo è indispensabile avere gli attrezzi idonei. L’equivoco della razza non poteva essere compiutamente svelato prima che fossero acquisite le conoscenze della genetica. Si poteva dubitare, e alcuni hanno dubitato, della concretezza di quell’assunto ma non falsificarlo.

Ancora nell’Ottocento, l’antropologia ha ritenuto di fare un salto di qualità scientifica nella razziologia introducendo l’analisi matematica dei caratteri. Al tempo si riteneva che i tratti morfologici fossero stabili nel corso delle generazioni e quindi descrivibili una volta per tutte attraverso l’uso di indici che mettevano in rapporto le diverse dimensioni. Un esperimento eseguito negli Stati Uniti però ha spazzato via ogni illusione sulla stabilità morfologica. L’esame della costituzione fisica di immigrati da diverse parti del mondo ha consentito di dimostrare che il nuovo ambiente, principalmente quello nutrizionale, condizionava lo sviluppo dei più giovani e pertanto che la generazione dei figli dei migranti era diversa dalla popolazione d’origine. Le fattezze morfologiche dell’umanità non sono immutabili nel corso della vita degli individui e della loro progenie, un tipo fisico precisamente codificato, quanto piuttosto un elemento plastico che risponde all’interazione tra i geni e l’ambiente.

L’impossibilità di avere un metodo codificato e ripetibile per mettere ordine nella variabilità della nostra specie, ha prodotto un fenomeno piuttosto curioso ed estraneo al modo di fare scienza nella modernità: sono state proposte molte classificazioni razziali. Questa è la stranezza, perché nelle scienze sperimentali un problema si considera risolto quando si è trovata la sua soluzione unica e condivisa dalla comunità degli studiosi. Sulla questione della razza invece sono state suggerite molte soluzioni e quindi inutili. Nel corso del tempo, la fiducia degli antropologi sull’uso del concetto di razza si è andata affievolendo senza tuttavia scomparire. Eppure, le numerose classificazioni accumulate e gli svariati significati attribuiti al termine — ovvero sinonimo di sotto-specie, gruppo etnico, popolazione e finanche di specie — avrebbero dovuto consigliare gli scienziati di abbandonare la futile pratica della razziologia anche prima che gli studi molecolari la falsificassero.

Durante gli anni Sessanta del Novecento, si sono sviluppate la genetica e la biologia molecolare e la loro influenza sugli studi antropologici ha determinato la nascita dell’antropologia molecolare. Il nuovo approccio metodologico è stato da subito rivolto all’analisi del paradigma razziale per verificarne la consistenza scientifica. L.L. Cavalli-Sforza e A.W.F. Edwards hanno costruito un albero filogenetico dei rapporti parentali tra le popolazioni del mondo utilizzando i tratti genetici e quella figura è apparsa subito innovativa, perché sovvertiva le parentele che la morfologia aveva suggerito e che l’antropologia classica aveva accettato per edificare l’edificio razziologico. I popoli dell’Africa e dell’Europa si ponevano insieme da una parte dello schema, risultando molto simili tra loro, e dall’altra parte si collocavano quelli dell’Asia e dell’Australia, tra loro geneticamente affini. Il modello appariva inusitato, in quanto le razze europee erano considerate maggiormente imparentate con quelle asiatiche e quelle africane con le australiane. Gli studi classici infatti erano pervasi dal colore della pelle e ciò spiega i falsi accostamenti: le genti di pelle chiara unite tra loro e separate da quelle di pelle scura, che avrebbero costituito un altro insieme. Le più recenti evidenze genetiche però hanno dimostrato che i geni, e le rispettive varianti, deputati a determinare i colori chiaro e scuro, sono condivisi da tutte le popolazioni e che si sono originati nella linea evolutiva umana circa 300.000 anni fa e quindi prima della nascita della nostra specie.

Il motivo della maggiore somiglianza genetica tra africani ed europei, e pertanto della loro più stretta parentela, sarebbe stato svelato alla fine degli anni Ottanta del Novecento. Subito invece è apparso chiaro che l’esperimento di Cavalli-Sforza ed Edwards rappresentava un passo significativo nella direzione della decostruzione scientifica del concetto di razza e quindi della sua falsificazione. Infatti, se la razza fosse stata davvero un fatto di natura, se avesse davvero rappresentato la suddivisione tassonomica sottospecifica della nostra specie che gli antropologi classici sostenevano, ebbene allora la filogenesi morfologica avrebbe dovuto coincidere con quella genetica. E così non era.

Il secondo passo verso il superamento del concetto di razza è stato fatto nel 1972 da R.C. Lewontin, che ha dimostrato che il 90% circa della variabilità genetica differenzia tra loro gli individui della stessa popolazione e che solo il rimanente 10% rende le popolazioni diverse le une dalle altre. Questo significa che due persone di due popoli differiscono per il solo 10% in più di altre due dello stesso popolo. E quindi, la frazione di variabilità genetica distribuita tra i gruppi (variabilità interpopolazione) è troppo esigua rispetto a quella presente all’interno di ciascuno di essi (variabilità intrapopolazione) per consentirci di individuare quelle separazioni nette che la razziologia aveva preteso di descrivere e di presentare la nostra specie come un insieme di razze. Tutta la sperimentazione antropologica e genetica successiva ha validato lo studio di Lewontin e ha dimostrato che l’andamento delle frequenze geniche è di tipo clinale, vale a dire che ogni manifestazione genica ha una frequenza massima in un punto geografico e poi degrada verso le altre aree del mondo. I confini genetici tra i popoli o non esistono affatto o sono talmente tenui da suggerire che alla mescolanza genetica tra essi ci può essere al massimo un qualche limite di natura culturale o geografica, ma non certamente razziale.

Veniamo ora alla questione della stretta parentela tra africani ed europei, allo studio che l’ha risolta e alla completa falsificazione della razza nell’uomo.

Nel 1987 R.L. Cann, M. Stoneking e A.C. Wilson hanno effettuato l’esperimento che ha risolto il problema dell’origine della nostra specie. I tre scienziati hanno analizzato la variabilità presente nel DNA mitocondriale (mtDNA) in un gruppo di individui rappresentativi delle popolazioni di tutti i continenti e le differenze trovate sono state utilizzate per comporre un albero filogenetico, proprio come avevano fatto prima Cavalli-Sforza ed Edwards con i dati della variabilità genetica a livello proteico invece che del DNA. L’albero mostrava due raggruppamenti principali. Il primo era formato esclusivamente dall’mtDNA di soggetti di origine africana e il secondo era diviso in sotto-gruppi, in ognuno dei quali compariva l’mtDNA di alcuni africani insieme a quello di persone di una specifica area geografica. L’interpretazione di quella configurazione filogenetica non ha mostrato alcuna difficoltà: il primo cluster indicava che l’evoluzione, o nascita, dell’Homo sapiens era avvenuta in Africa; e da lì poi vari gruppi erano emigrati per andare a colonizzare il Vecchio e il Nuovo Mondo dove si sarebbero evoluti nelle altre popolazioni conosciute della Terra. Risolta la questione della nostra genesi, è stato successivamente possibile datare, mediante l’orologio molecolare che converte il numero delle mutazioni genetiche nel tempo trascorso per la loro inclusione nel genoma, l’evento della nostra venuta al mondo: 200.000 anni fa. Un tempo recente perché la specie potesse dividersi in razze.

Non rimaneva altro che risolvere la questione della maggiore parentela tra africani ed europei ed è stato dimostrato che ciò è dipeso dal fatto che i gruppi di Homo sapiens che hanno colonizzato l’Europa sono emigrati dall’Africa dopo quelli che hanno preso la via dell’Oriente. Vale a dire che per un tempo più lungo gli africani e noi siamo stati un’unica popolazione, ecco il motivo della nostra più stretta parentela. Finalmente la nostra storia biologica era stata ricostruita e con essa erano venuti alla luce i reali rapporti di parentela tra le popolazioni ed era stata falsificata la razza. E non da ultimo, la ricerca sperimentale ha dimostrato che la storia dell’Homo sapiens è una storia di migrazioni e contaminazioni genetiche. E conseguentemente, l’idea della purezza della razza, fonte di non poca brutalità, è stata anch’essa falsificata.

La comunità antropologica ha potuto falsificare il concetto di razza nell’uomo ed espellerlo dalle sue ricerche e dai suoi manuali perché esso costituiva un argomento scientifico, tanto che per moltissime altre specie viventi non solo era ma ancora è assolutamente idoneo a descrivere la parentela sottospecifica. Al contrario, il razzismo esula dall’analisi delle scienze sperimentali, la sua natura non ha radice in esse quanto piuttosto nell’atteggiamento psicologico di rifiuto nei confronti dell’altro, di chi non appartiene al gruppo in cui ci si riconosce. E come tale non può essere assoggettato alla falsificazione sperimentale e gli antropologi, nella loro veste di scienziati, non hanno voce né capacità operativa nei confronti di quel disvalore. Essi hanno però il dovere di negargli qualsiasi giustificazione di tipo scientifico e così facendo partecipare come cittadini alla sua emarginazione.

L’uomo non può essere suddiviso in categorie discrete perché non esistono e non sono esistite popolazioni geneticamente omogenee o pure. E non ha base biologica la pretesa superiorità o inferiorità di alcuni popoli rispetto ad altri, come ha sostenuto nel 1975 T. Dobzhansky, uno dei padri della genetica, nel libro Diversità genetica e uguaglianza umana.

Se le razze fossero delle reali categorie tassonomiche permetterebbero di ricostruire la filogenesi delle popolazioni umane secondo lo schema antenato-discendente. Il concetto di razza fallisce questo scopo e consente solo di tracciare la storia ecologica dell’umanità. Il concetto di razza deve essere rifiutato non tanto per le sue improprie contaminazioni razziste, per affermare cioè l’opposizione al principio inferiore-superiore, ma perché, come ha dimostrato la ricerca empirica, esso non ha alcun valore scientifico per analizzare la variabilità biologica della nostra specie.

La ricerca scientifica fornisce l’effettiva spiegazione del mondo e corregge, falsifica, l’immagine che di esso hanno elaborato ed elaborano il senso comune, l’ideologia e la religione. Il senso comune e la riflessione pre-moderna immaginavano che il Sole girasse intorno alla Terra e gli astronomi moderni hanno falsificato l’errore; e ugualmente il senso comune e la riflessione pre-moderna immaginavano l’umanità divisa in razze e gli antropologi moderni hanno falsificato l’errore.

 

Gianfranco Biondi è stato professore di Antropologia nelle Università di Torino e L’Aquila e ricercatore visitatore nelle Università di Londra, Cambridge e Newcastle upon Tyne (UK) e di Zurigo (CH). È stato membro dei comitati di redazione delle riviste scientifiche Journal of Biosocial Science, Anthropological Review e Annals of Human Biology.

Olga Rickards è professore di Antropologia e Antropologia Molecolare nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. È stata ricercatore visitatore nelle Università di Brema (DE), Bilbao e Complutense di Madrid (ES) e Hawaii (USA) e ricercatore ospite presso la Roche Molecular System, Alameda, California (USA). È editor in chief della rivista scientifica Annals of Human Biology.

Insieme hanno scritto: La storia della nostra origine (Arengo Edizioni, 1994), I sentieri dell’evoluzione (CUEN, 2000), Uomini per caso (Editori Riuniti, 2001, 2003, 2004), Il codice darwin (Codice Edizioni, 2005, 2006), Umani da sei milioni di anni (Carocci, 2009, 2012, 2015, 2017), L’errore della razza (Carocci, 2011), Senza Adamo (Carocci, 2006, ebook 2015), e Darwin in Italia. L’antropologia italiana dal Risorgimento alla modernità (IAD ebook 2015); e con Fabio Martini e Giuseppe Rotilio, In carne e ossa (Editori Laterza, 2006).

Da L’ATEO 1/2018