Non avrai altro Dio

Il monoteismo e il linguaggio della violenza
Jan Assmann
Il Mulino
2007
ISBN: 
9788815120335

Bertrand Russell sosteneva che «se un filosofo è un uomo cieco, in una stanza buia, che cerca un gatto nero che non c’è, un teologo è l’uomo che riesce a trovare quel gatto». Non sono mai riuscito ad apprezzare la teologia: forse perché sono ateo, e dunque la teologia non è altro, ai miei occhi, che “nichilogia”: un vago arzigogolare sul nulla.

La teologia politica, almeno in teoria, potrebbe risultare più promettente: se non altro per cercare di capire come le gerarchie religiose (tutte) cercano di influire sul potere politico, o come il potere politico è in grado di farsi a sua volta condizionare. In realtà, anche questa disciplina fa tuttora scorrere autentici fiumi di inchiostro su poche carte scritte oltre sette decenni fa. Carl Schmitt, che ripropose la formulazione di “teologia politica” nel titolo di un saggio di una dozzina di pagine scritto nel 1922, sostenne che «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». Evidenze a sostegno: nessuna. Nel 1935 fu la volta del teologo cattolico Erik Peterson: il quale, in un saggio di nemmeno una cinquantina di pagine dal titolo Il monoteismo come problema politico, ritenne di aver definitivamente dimostrato come il monoteismo trinitario sia assolutamente incompatibile con qualsivoglia forma politica secolare. Evidenze a sostegno: la sbrigativa citazione di alcuni padri cappadoci e di Agostino (senza che quest’ultimo avesse fatto un esplicito riferimento alla Trinità), sorvolando altresì su quanto accaduto prima (il monoteismo non trinitario degli albori e la celebrazione del legame delle fortune del cristianesimo con l’impero, che trovò il suo massimo apologeta in Eusebio) e soprattutto dopo, come se papi come Gregorio VII, Innocenzo III e Bonifacio VIII, e prima ancora Gelasio, non fossero mai esistiti.

Da quegli anni molti si sono sbizzarriti sulla contesa Schmitt-Peterson, anche se quest’ultimo rispondeva al primo con sole cinque righe in nota. Letteratura che a mio avviso gira anch’essa intorno al nulla, e che fa rimpiangere la sincera ingenuità con cui un pontefice dell’antica Roma, Quinto Muzio Scevola, sostenne che «furono istituite [sic!] tre categorie di dèi, l’una dai poeti, l’altra dai filosofi, la terza dai governanti politici».

La teologia politica, in tempi recenti, ha tuttavia trovato nuova linfa con i lavori di Jan Assmann. Benché anch’egli tedesco, Assmann non è un teologo ma un egittologo, noto per la sua precedente opera, Potere e salvezza (2002). Di Assmann esce ora un piccolo libro, Non avrai altro Dio, che condensa il suo pensiero in una versione decisamente più accessibile. L’incipit è fulminante: «Sono finiti i tempi in cui si poteva interpretare la religione come oppio dei popoli. Oggi la religione si presenta piuttosto come dinamite dei popoli». Le sue tesi, molto criticate negli ambienti ecclesiastici, sono in effetti un po’ politically incorrect. Secondo l’autore, il monoteismo è stato promotore di una nuova forma di violenza, sconosciuta alle religioni politeiste, in quanto si è richiamata direttamente alla volontà divina. In particolare, mentre con il politeismo ogni divinità di una religione era “traducibile”, per le sue caratteristiche, nella divinità di un’altra religione, con il monoteismo la religione dell’altro è diventata la latrice di una non-verità, la «nemica di Dio», «il generatore più importante di estraneità e odio». Non che nelle società più arcaiche non vi fosse violenza, prosegue Assmann, ma essa era presente «in relazione al principio politico della sovranità, non in rapporto alla questione divina»: un problema di potere, non di verità. Una violenza che è stata presto istituzionalizzata da tutti i monoteismi in un canone, e che trova concreta attuazione nella doppia figura del martire che si sacrifica per Dio e nello zelante fanatico che uccide per Dio, vista per la prima volta all’opera con i Maccabei.

È una tesi interessante, seppur non scevra da due punti deboli, quantomeno a parere di chi scrive. Il primo è che Assmann ritiene la religione una condizione dell’esistenza umana, estendendo indebitamente un dato di fatto reale (l’esistenza di concezioni, che definiremmo religiose, in ogni società umana) nel tempo e nello spazio, prescindendo da realtà sconosciute e inconoscibili (la preistoria e il futuro) e da evidenze contemporanee (l’esistenza di un miliardo di non credenti). Il secondo è che, quanto a violenza chiesta da un Dio, anche il politeismo non scherzava: se i conquistadores spagnoli gasavano i propri soldati con il grido di «¡Santiago!», i mexica avevano fatto di Huitzilopochtli la divinità che li aveva condotti da un successo bellico all’altro. La violenza è in realtà insita non tanto nelle strutture politiche ma, allargando lo sguardo, a ogni situazione in cui gruppi umani sono costretti a convivere, fosse anche il pianerottolo di un condominio: ritengo anzi che proprio il romanzo Condiminium di James G. Ballard sia la migliore descrizione delle futili ragioni che portano all’esplodere di conflitti epocali.

L’importanza del libro di Assmann risiede tuttavia nella rilevanza che ha saputo dare all’accentuata dualità insita nel monoteismo, rendendolo un’ideologia che solo con molta difficoltà può adattarsi, come tutti ben sappiamo, a una società multiculturale. Il monoteismo radicalizza le contrapposizioni tra comunità diverse ponendo la religione, anziché la patria, al centro del confronto, conferendogli un surplus di animosità che deriva dalla pretesa di agire in nome di Dio, e soprattutto dalla disponibilità di sacrificarsi in nome di Dio. Per quanto i tempi siano cambiati, quantomeno in Occidente (il cardinal Bertone non mi sembra aver la stessa propensione al martirio di uno shahid), ciò è stato dovuto solamente al depotenziamento della religione operato dalla democrazia, dalla secolarizzazione e dalla laicizzazione delle istituzioni. Fa dunque bene Assmann a concludere il suo libro invocando la praticabilità, ma soprattutto la necessità della depoliticizzazione delle religioni monoteiste: non per la loro conseguente purificazione, che interesserebbe solo i rispettivi fedeli, ma per il venir meno di una fonte latente di conflittualità, argomento che viceversa interessa l’intera umanità.

Raffaele Carcano
circolo UAAR di Roma
dicembre 2007