Camera dei Deputati Proposta di legge n. 1739 del 28/9/2006

PROPOSTA DI LEGGE

d’iniziativa dei deputati

CREMA, SCHIETROMA, ANGELO PIAZZA, BUEMI, DI GIOIA, MANCINI

Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva

Presentata il 28 settembre 2006

Onorevoli Colleghi!

Già nella IX legislatura, su iniziativa dell’onorevole Loris Fortuna e altri, è stata presentata una proposta di legge concernente norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva. Il pensiero della morte come fatto biologico disinnesca nell’uomo uno strano meccanismo di rimozione che è stato ben descritto da Lev Tolstoj nel racconto La Morte di Ivan Il’ic laddove il protagonista, nel riconoscere come giusta e valida l’idea generica della morte quale decesso, vi si ribella quando la morte finisce con il riguardarlo personalmente.
Il rapporto dell’essere umano con l’idea della propria estinzione fisica riguarda la sfera individuale, come tale inaccessibile a qualsiasi ordinamento giuridico, pur dovendosi dare atto che psicanalisi (Freud: «si vis vitam para mortem») e cattolicesimo («Estote parati») quantunque da versanti opposti, pervengono alla concorde conclusione secondo la quale l’accettazione dell’idea della propria morte determina un più sereno rapporto con la vita.
Ma, al di là del rapporto esistenziale con l’idea del morire, l’ordinamento giuridico non è indifferente (o quanto meno non può esserlo) al concetto di morte come fatto liberatorio da una esistenza che si ritenga troppo dolorosa per poterla naturalmente concludere o far concludere o per doverla artificialmente prolungare.
Tale è il caso dell’eutanasia, secondo il concetto base della Commissione per le questioni sociali e per la sanità presso il Consiglio d’Europa fin dal suo rapporto del 1976 (pagina 17) dove si dà per acquisito che, mentre l’eutanasia attiva implica un atto che ha l’effetto di abbreviare la vita o di mettervi fine, l’eutanasia passiva consiste nell’astenersi da ogni azione che potrebbe inutilmente prolungare il momento terminale ed irreversibile della vita.
Numerose personalità del mondo della scienza e della cultura si sono pronunziate in favore dell’eutanasia attiva. Già nel 1975 tre premi Nobel (J. Monod, L. Pauling e G. Thompson) sottoscrissero, insieme a 37 personalità, il Manifesto sull’eutanasia.
Il Manifesto era così letteralmente formulato:

«Noi sottoscritti ci dichiariamo per ragioni di carattere etico in favore della eutanasia. Noi crediamo che la coscienza morale riflessa sia abbastanza sviluppata nelle nostre società per permettere di elaborare una regola di condotta umanitaria per quanto riguarda la morte ed i morenti. Deploriamo la morale insensibile e le restrizioni legali che ostacolano l’esame di quel caso morale che è l’eutanasia. Facciamo appello all’opinione pubblica illuminata perché superi i tabù tradizionali e si evolva verso un atteggiamento di pietà nei confronti delle sofferenze inutili al momento della morte.
È crudele e barbaro esigere che una persona sia mantenuta in vita contro la sua volontà rifiutandole la liberazione che esso desidera «dolcemente, facilmente» quando la sua vita ha perduto ogni dignità, bellezza, significato, prospettive di avvenire.
La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civili. Poiché ogni individuo ha il diritto di vivere con dignità - benché tale diritto sia spesso negato nei fatti - ha anche il diritto di morire con dignità».
Contrarie all’eutanasia attiva sono la religione ebraica (Weiss A., A Jewish Viewpoint), quella islamica (Navdi S.S., An Islamic Viewpoint), quella induista (Mishra T.P., A Hindu Viewpoint); con qualche riserva lo è anche la religione buddista (Van Loon L.H., A Buddhist Viewpoint).
Il Comitato per le responsabilità sociali del Sinodo generale della Chiesa anglicana si è espresso contro l’eutanasia, sia pure per motivi di opportunità (Eutanasia. Un invito alla discussione, Il pensiero scientifico editore). Costante e precisa è la condanna dell’eutanasia attiva da parte della Chiesa cattolica (ad esempio: Dichiarazione sull’eutanasia della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, del 5 maggio 1980).

Allo stato attuale della legislazione italiana, l’eutanasia attiva, a seconda che vi abbia o no prestato consenso la vittima, rientra rispettivamente nel delitto di omicidio del consenziente o di omicidio volontario. In relazione alla prima ipotesi si era sostenuto che non si sarebbe potuto parlare di omicidio del consenziente quando l’ucciso fosse affetto da grave ed incurabile malattia, sottoposto a gravi sofferenze, mancando in tale caso il dolo e sussistendo al contrario uno spirito di compassione e di pietà.
Prevale però l’opinione contraria; così nella stessa relazione ministeriale al codice penale si affermava che per l’eutanasia non vi era motivo di distinguere; se il malato fosse stato in grado di prestare il proprio consenso, si sarebbe applicata la norma sull’omicidio del consenziente, in caso contrario si sarebbe trattato di vero e proprio omicidio, salva la possibilità di valutare le ragioni di pietà, come circostanze attenuanti ai sensi dell’articolo 62, numero 1) (motivi di particolare valore morale e sociale).
Allo stato - ed anche tenendo conto della interpretazione in chiave laica del concetto di diritto alla vita, così come risulta già dalle sentenze 18 febbraio 1975, n. 27, e 25 giugno 1981, n. 108, della Corte costituzionale - l’eventuale decriminalizzazione dell’eutanasia attiva non parrebbe contrastare con la Costituzione.
Sull’eutanasia passiva non risultano contrasti, poiché dovunque il problema sia stato affrontato e dibattuto le voci sono state concordi nel rifiuto di ogni inutile accanimento terapeutico nei confronti dei cosiddetti «malati terminali». A prescindere da quanto è emerso già da tempo in numerosi convegni nazionali ed internazionali, vanno tenute in particolare considerazione: la risoluzione dell’apposita Commissione delle Nazioni Unite del 1971, concernente la protezione del malato nei confronti del progresso scientifico; la «Dichiarazione dei diritti del malato» - Patent’s Bill of Rights - formulata nel 1972 dal consiglio di amministrazione dell’American Hospital Association; la legge sulla morte naturale - Natural Death Act - emanata dallo Stato di California nel 1976; la Dichiarazione sull’eutanasia formulata dalla Sacra Congregazione per la dottrina della fede del 1980; la raccomandazione sui diritti dei malati e dei morenti formulata dall’Assemblea del Consiglio d’Europa nel 1976.
Con quest’ultima si esortava il Comitato dei ministri ad invitare i Governi degli Stati membri a creare, tra l’altro, commissioni nazionali di ricerca per elaborare regole di comportamento per il trattamento dei morenti, a fissare princìpi di orientamento medico circa l’utilizzazione di misure speciali per prolungare la vita e ad esaminare, tra l’altro, la situazione in cui potrebbero venirsi a trovare i medici - per esempio nell’eventualità di sanzioni previste dalla legge civile e penale - allorché abbiano rinunciato a prendere misure artificiali per prolungare il processo di morte in malati la cui agonia è già cominciata e la cui vita non può essere salvata allo stato attuale dalla scienza medica, o quando siano intervenuti con provvedimenti miranti anzitutto a calmare le sofferenze di tali malati, ma suscettibili di avere un effetto secondario sul processo della morte, e ad esaminare infine la questione delle dichiarazioni rilasciate da persone giuridicamente capaci, che autorizzino i medici a misure per il prolungamento della vita, in particolare nel caso di arresto irreversibile delle funzioni cerebrali.

Con la presente proposta di legge - oltre a cogliere un’esigenza ormai manifesta nelle collettività - si ottempera anche alla raccomandazione formulata dall’Assemblea del Consiglio d’Europa, precisando: 1) che il Parlamento, nella sua sovranità, può direttamente affrontare e risolvere il problema dell’eutanasia passiva; 2) che allo stato attuale non consta esservi alcuna norma, civile e penale, che imponga o vieti l’accanimento terapeutico; 3) che - una volta universalmente riconosciute alla medicina le funzioni di guarire, curare, mantenere in vita - l’eventuale anticipazione dell’exitus, dovuta a terapie analgesiche, non comporta alcuna responsabilità del medico. Infatti, nel doveroso bilanciamento fra il diritto dell’infermo alla tutela della vita, anche in relazione alla fase finale del processo degenerativo, e il diritto dell’infermo a non sopportare inutili sofferenze, va riconosciuta prevalenza a quest’ultimo; 4) che, anche nell’ipotesi in cui il medico, sebbene a conoscenza del consenso alle terapie di sostenimento vitale, si rifiuti di praticarle, non gli si può addebitare, civilmente o penalmente, la morte del malato, giacché la semplice sopravvivenza non rientra nell’ambito della tutela apprestata dalle leggi civili o penali. In tale ipotesi potrà, se del caso, ravvisarsi la violazione di norme a carattere deontologico, come tale sanzionata dal relativo codice.
Il progetto si incardina su un principio, peraltro di assoluta evidenza, che chiaramente traspare dalla sua stessa titolazione. Si è considerato che la fase conclusiva del ciclo dell’esistenza resta pur sempre un segmento della vita dell’individuo e, come tale, va protetto. Anche a dare per ammesso che si abbia sempre il dovere di vivere, conservando la propria integrità per poter adempiere a compiti solidaristici, è altrettanto vero che non si ha l’obbligo di sopravvivere a qualsiasi prezzo; la sopravvivenza a qualsiasi prezzo, ove imposta, si risolverebbe nella violazione dei limiti imposti dal necessario rispetto della persona umana e, come tale, contrasterebbe con la Costituzione (articolo 32).
Posto così il problema, il divieto di accanimento terapeutico - che poi è lo scopo principale della legge - costituisce l’ultima salvaguardia che l’ordinamento giuridico appresta in favore dei soggetti che gli appartengono; tale accanimento e l’ulteriore sua deformazione, cioè l’ostinazione terapeutica, sono atteggiamenti che hanno perso di vista la ragione e che possono dar luogo a quella che è stata definita «distanasia», cioè la deformazione violenta e strutturale del processo naturale del morire, una volta che questo sia stato intensamente medicalizzato.
Il possibile scempio della vita, nel momento stesso in cui si consuma, è stato ben descritto da Urbain (Enciclopedia. Einaudi 1980, voce «Morte»): «Trascinato nel labirinto ospedaliero, più rassicurante per i parenti che per lui, al morente viene continuamente negata la sua specificità ed occultata metodicamente la differenza tra il morire e l’essere infermo. L’importante è nascondere sotto l’accanimento terapeutico il sopraggiungere del nulla, far tacere la comparsa del morire sotto un mucchio di diagnosi incerte, mascherare insomma la imminenza della fine mediante una tecnica di rianimazione cieca che trasforma a volte il morituro in un cadavere vivente. Il desiderio della negazione è così forte che si giunge a togliere con la forza al moribondo uno dei diritto più naturali che ci siano: il diritto alla morte».
Le ragioni di un siffatto accanimento raramente possono attribuirsi alla volontà dell’infermo; più spesso sono dovute ad eccessivi scrupoli professionali o familiari o ad una sorta di sfida prometeica della medicina alla morte, peraltro trasformata in dominio della struttura organizzativa sul malato (Max Weber), o, infine, alla volontà del «Potere» di prolungare, per propri scopi, la spinta emotiva che accompagna la fine di grossi personaggi della vita pubblica.
La dispensa dall’accanimento terapeutico serva ad evitare tutto questo; e mentre, da una parte, sorregge la coscienza dei medici e dei parenti in un momento di gravi decisioni, colloca dall’altra (in base ad una autonoma scelta di campo dell’ordinamento statale) il rapporto uomo-vita-morte in una dimensione più umana.

L’articolo 1 si basa sul principio generale posto a fondamento della legge: una presunzione di generale rifiuto ad essere assoggettati ad accanimento terapeutico.
I numerosi dibattiti sul dolore e sull’eutanasia hanno non solo un valore etico-scientifico, ma sono anche sicuri indici rivelatori di una coscienza collettiva sul fenomeno e della intervenuta riappropriazione, ad opera della stessa, della dimensione umana della vita anche in riferimento alla conclusione del suo ciclo.
La ravvisata corrispondenza tra la coscienza collettiva e la legge esclude, quindi, che la presunzione suddetta possa collegarsi ad una qualsiasi scelta autoritaria dello Stato (come, ad esempio, quella di cui all’articolo 5 del codice penale) e ne giustifica ampiamente la portata.
In questo, la legge che si propone si differenzia dal Natural Death Act dello Stato di California, che pure si è occupato della materia e al cui corpo normativo ci si è riportati per stabilire alcuni concetti dei quali si parlerà in seguito.
La legge californiana, radicata su valori di una società ad altissimo sviluppo scientifico e tecnologico, che costantemente la spingono a sfidare il destino dell’uomo, non poteva non basarsi che su di una presunzione opposta: di qui il suo particolare rigore e l’accentuato formalismo dai quali è circoscritto il consenso alla interruzione della terapia di sostentamento.
Innanzitutto nel nostro progetto di legge si è dispensato il medico - sottraendolo ad obblighi anche morali e deontologici - dal somministrare terapie che abbiano quale scopo esclusivo quello di ritardare l’exitus; anziché far ricorso ad un «divieto» generale, che avrebbe accentuato una presa di posizione di particolare rigore, si è preferito far ricorso ad una gergale «dispensa».
È noto, a proposito di quest’ultima, che la dottrina pubblicistica non è concorde nel giustificarne l’esistenza come istituto autonomo. Ma la dispensa, intesa come «diritto di agire come se la norma, i cui effetti sono annullati (o diminuiti), non comprendesse nel suo ambito il caso per il quale essa è intervenuta» (Del Giudice, Privilegio, dispensa ed epicheia nel diritto canonico, Perugina 1926) meglio richiama insieme di doveri, anche etico-religiosi, sui quali è destinata ad incidere.
Inoltre si è ritenuto che il diritto alla vita, nelle condizioni terminali, non comprenda la sua sostituzione con quello ad una forzata sopravvivenza: ne consegue che, letta in tale chiave interpretativa, la norma di cui all’articolo 3 della legge 2 dicembre 1975, n. 644 - fermo l’obbligo dei medici, in caso di cessazione del battito cardiaco, di compiere tutti gli interventi suggeriti dalla scienza e dalla tecnica - non giustifica le perplessità avanzate da qualche autore (Giovanni Criscuoli, «Sul diritto di morire naturalmente» in Rivista Diritto Civile, 1977, fascicolo 1, punto 1).
Il consenso non è stato circondato da un particolare rigore formale; e ciò diventa comprensibile ove si consideri che si tratta di eutanasia cosiddetta «passiva» e che, quindi, la volontà dell’individuo di sopravvivere mediante terapie di sostentamento, anche se non coincide con l’ampia visione della legge, rientra nella sfera della sua disponibilità e, come tale, non va ostacolata. Con tale visione, per contro, è perfettamente in linea la richiesta di «personalità» del consenso. Se è vero che la legge coglie i segni di una riappropriazione individuale della dimensione umana della vita e della morte, sarebbe stato contraddittorio, oltre tutto, consentire a terzi un qualsiasi tipo di ingerenza; dal che l’esclusione, non espressamente prevista, ma resa manifesta dall’uso della locuzione «personale», dell’istituto della rappresentanza, legale o volontaria che essa sia.
Quanto al concetto di consapevolezza, lo si è adottato per evitare il riferimento alla maggiore età, poiché esso è sembrato troppo angusto: infatti la maggiore età, da una parte, può non coincidere con l’anticipato acquisto della maturità (ad esempio, articolo 84, secondo comma, del codice civile) e, dall’altra, finirebbe con il comprendere anche ipotesi di incapacità non dichiarata.
Nell’articolo 1, la dispensa dal dovere di terapie di sostenimento coincide con l’accertamento delle «condizioni terminali», espressione, quest’ultima, tratta dal citato Natural Death Act.
In un primo tempo si era pensato di far riferimento all’espressione «stato preagonico», anche perché di uso più comune e, quindi, più comprensibile; ma la circostanza che tale stato rappresenta l’ultimo, estremo stadio del ciclo vitale e che, quindi, interviene anche nell’ipotesi in cui si sia effettuata la terapia di sostenimento vitale, ha reso preferibile ripiegare sull’espressione indicata, anche se la conseguente qualifica di «malati terminali» si risolve in un giudizio inconsapevolmente atroce, come ha osservato un illustre sociologo e giornalista (Barbiellini-Amidei in «Tra eutanasia e vita», Corriere della Sera del 24 novembre 1984). Alla traduzione dell’espressione «terminal condition» con quella di «estremo della condizione esistenziale», da altri adottata (Giovanni Criscuolo, opera citata), si è preferita la traduzione letterale, i cui termini sono ormai recepiti dalla scienza medica.
L’indicazione di particolari elementi da cui trarre lo stato di incurabilità e l’inevitabilità della morte, resta - e non poteva essere diversamente - affidata alla scienza medica; l’unico criterio guida che è stato adottato è quello relativo al rapporto teleologico tra terapie di sostenimento vitale e ritardo dell’exitus.
Il che significa che delle tre indefettibili funzioni assegnate alla medicina - guarire, curare, mantenere in vita - l’ultima non si estende fino a comprendervi il prolungamento «artificiale» della vita in costanza di un irreversibile processo degenerativo che sta conducendo alla morte.
E ciò per la convinzione, manifestata anche dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa «que la prolongation de la vie ne doit pas être en soi le but exclusif de la pratique médicale» (Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, 27o Sessione ordinaria, raccomandazione n. 779).

Anche l’articolo 2 ripropone l’analoga disposizione contenuta nel citato Natural Death Act. Di tale disposizione non si è ritenuto di recepire la seconda parte, perché, per un verso, non fa che ripetere quanto già risulta stabilito dall’articolo 2 («where, in the judgment of the attending physician, death is imminent whether or not such procedures are utilized») e, per l’altro («Life - sustaining procedure shall not include the administration of medication or the performance of any medical necessary to alleviate pain»), non fa che anticipare quanto sarà stabilito nel comma 2 dell’articolo 4 della proposta di legge, che è sembrata la sede più appropriata.
Non si è ritenuto di far riferimento a specifiche tecniche rianimative (rianimazione respiratoria, cardiaca, renale, da shock), poiché le stesse possono non esaurire l’ampio spettro degli interventi, le cui individuazioni rientrano nel campo della scienza medica.
Ai sensi dell’articolo 3, l’accertamento delle condizioni terminali è devoluto ad un medico del Servizio sanitario nazionale, per accentuare l’intervento pubblico e le maggiori garanzie che esso offre; così come è formulata la norma, risultano previste sia l’ipotesi in cui tale medico abbia in cura l’infermo, sia l’ipotesi in cui l’abbia in cura un medico privato o che, comunque, agisca come tale. Il necessario, concorde ed ulteriore parere di un altro medico ad alta competenza tecnico-scientifica, quale è il primario anestesiologo, è sembrato di per sé sufficiente ad escludere qualsiasi possibilità di errore.
La possibile richiesta di accertamento, attribuita al medico curante, non incrina, come da taluni è stato obiettato in sede di discussione al Consiglio d’Europa (confronta Salvatore Lener, «Sui diritti dei malati e dei moribondi», in La Civiltà Cattolica, 1o maggio 1976), quel rapporto fiduciario che lo lega all’infermo fin da quando questi gli si sia affidato. Una volta stabilita, infatti, una presunzione generale di dissenso, il medico assume anche la figura di garante del diritto dell’infermo a non essere sottoposto ad accanimento terapeutico.
Si è poi ribadito il dovere, già esistente in termini deontologici, di continuare a prestare assistenza all’infermo.
Il commento all’articolo 4, per la parte in cui è ad esso prodromico, verrà più ampiamente sviluppato nel trattare dell’articolo 5. Quel che fin d’ora occorre precisare, è che si è tenuto anche conto delle ipotesi, non rare, di persone vittime di incidenti stradali o abbandonate ferite davanti agli ospedali e sprovviste di documenti: la ricerca di parenti sarebbe stata disagevole, se non addirittura impossibile, e quindi incompatibile con una decisione da prendere con estrema sollecitudine.
D’altra parte, il più facile reperimento di un ministro del culto assicura sufficienti condizioni di affidamento.
È chiaro che l’interruzione della terapia non è consentita ove sia comunicata opposizione; in tal caso il medico deve continuare ad apprestarla, quanto meno fino al termine indicato dall’ultimo comma dell’articolo 6.
Il rigore formale che non è stato richiesto in riferimento al consenso del paziente in ordine al prolungamento della terapia (articolo 1) è stato preteso, in considerazione della gravità dell’atto, per l’interruzione della terapia, imponendone la forma scritta.
Ovviamente, a terapia interrotta possono insorgere o aggravarsi condizioni di sofferenza.
Il ricorso, in siffatte ipotesi, all’uso degli analgesici è del tutto legittimo anche se la loro somministrazione abbia l’effetto collaterale di anticipare il momento dell’exitus.
Proseguendo nel disegno iniziato nel commento all’articolo 4, va precisato che all’articolo 5, ai fini dell’interpello da parte del medico, si è data la preferenza ai conviventi, siano o non siano parenti dell’infermo.
L’indicazione di un ministro del culto è fatta in previsione della non rara ipotesi di terapia su persona che viva o sia sola. E poiché non è sempre possibile stabilire il culto di appartenenza (si pensi ad un pedone privo di documenti che sia stato investito e versi in fin di vita) si è fatto ricorso ad una presunzione di appartenenza.
Non si è ritenuto di includere, tra quelli di cui non deve constare l’opposizione, i parenti stretti ove non siano conviventi; un interpello di costoro (si pensi a persona che abbia i figli all’estero) avrebbe reso pressoché impossibile ogni decisione. Va ancora precisato, a proposito del collegamento interpello-opposizione, che mentre i soggetti di cui al comma 2 dell’articolo 5 non sono destinatari della comunicazione di cui all’articolo 4, gli stessi sono tuttavia inclusi nel novero di quelli di cui non deve constare opposizione. L’opposizione del coniuge non è stata espressamente prevista, una volta stabilito che la convivenza è il connotato essenziale per la proponibilità. Se il coniuge non convive, non si vede la ragione per la quale debba essergli consentito di opporsi all’interruzione, magari determinando - in un momento così delicato - un conflitto con l’attuale partner del morente.
Mentre per manifestare il consenso alla terapia di sostenimento vitale si è chiesto il requisito della consapevolezza, per l’opposizione all’interruzione della terapia si è richiesto il raggiungimento del sedicesimo anno di età; non si è richiesta la maggiore età per la semplice ragione che ne sarebbe stato escluso il coniuge convivente e sedicenne (articolo 84, secondo comma, del codice civile).
Nell’articolo 6, il procedimento di opposizione, tenuto conto delle particolari condizioni in cui potrebbe instaurarsi, è stato articolato in modo da poter soddisfare le esigenze di semplicità, celerità e serietà.
La prima esigenza risulta soddisfatta consentendo che l’opposizione sia proposta anche in forma diversa da quella scritta.
La seconda, fissando un termine massimo che ragionevolmente è stato stabilito in dodici ore, più che sufficienti in relazione agli esistenti mezzi di comunicazione.
La terza, attribuendo al presidente del tribunale, sentito il parere della stessa équipe prevista per l’accertamento della morte in caso di trapianto, il controllo finale e autorizzando il medico che ha effettuato l’accertamento - cui, non si dimentichi, ha già partecipato il primario anestesiologo ai sensi dell’articolo 4 - a disporre l’interruzione della terapia ove l’opposizione, pur annunziata, non sia stata poi proposta.
In considerazione degli ampi compiti assegnati alle aziende sanitarie locali, la vigilanza sull’applicazione della legge, all’articolo 7, è attribuita al direttore sanitario dell’azienda sanitaria locale.

 

PROPOSTA DI LEGGE

Articolo 1.

(Dispensa dall’obbligo di sottoporre a terapie di sostenimento vitale chi versa in condizioni terminali).

1. I medici sono dispensati dal sottoporre a terapie di sostenimento vitale qualsiasi persona che versa in condizioni terminali, salvo che la stessa vi abbia comunque personalmente e consapevolmente consentito.

Articolo 2.

(Nozione di terapia di sostenimento vitale).

1. Ai fini della presente legge, per terapia di sostenimento vitale si intende principalmente ogni mezzo o intervento medico che utilizza tecniche meramente rianimative nonché apparecchiature meccaniche o artificiali per sostenere, riattivare o sostituire una naturale funzione vitale.

Articolo 3.

(Accertamento delle condizioni terminali).

1. L’accertamento delle condizioni terminali è effettuato da un medico competente nelle tecniche di rianimazione designato dall’azienda sanitaria locale del luogo di degenza dell’infermo, su concorde parere del primario anestesiologo della stessa azienda, direttamente o su richiesta di altro medico, ove questi abbia in cura l’infermo.
2. L’accertamento delle condizioni terminali non dispensa il medico che l’ha in cura dal dovere di assistere l’infermo.

Articolo 4.

(Interruzione della terapia).

1. Il medico che ha effettuato l’accertamento delle condizioni terminali ne comunica, anche verbalmente, i risultati alle persone indicate dall’articolo 5, comma 1, che siano agevolmente reperibili e, se non gli consta alcuna opposizione, dispone per iscritto l’interruzione della terapia.
2. L’interruzione della terapia non dispensa dall’apprestare quelle cure che, senza incidere direttamente sull’esito naturale dell’infermità, sono intese ad alleviarne le sofferenze.
3. Per interruzione della terapia deve intendersi anche il mancato inizio della terapia stessa.

Articolo 5.

(Soggetti legittimati a proporre opposizione).

1. Sono legittimati a proporre opposizione contro l’interruzione della terapia i conviventi dell’infermo di età non inferiore a sedici anni, ovvero, in mancanza di essi, un ministro del culto cui appartiene, anche presumibilmente, l’infermo stesso.
2. Sono altresì legittimati a proporre opposizione contro l’interruzione della terapia gli ascendenti e i discendenti in linea diretta e i parenti collaterali, entro il secondo grado, dell’infermo, di età non inferiore a sedici anni.

Articolo 6.

(Procedimento di opposizione).

1. L’opposizione da parte dei soggetti legittimati ai sensi dell’articolo 5, comunicata anche verbalmente al medico dell’azienda sanitaria locale di cui all’articolo 3, comma 1, deve essere proposta, senza formalità, e comunque non oltre dodici ore dalla comunicazione, al presidente del tribunale della circoscrizione del luogo di degenza dell’infermo. Se più sono le comunicazioni, il termine decorre dalla prima comunicazione.
2. Il presidente del tribunale, sentiti l’opponente e un collegio medico composto dalle persone indicate dall’articolo 2, comma 5, della legge 29 dicembre 1993, n. 578, convalida, se del caso, l’accertamento e autorizza chi lo ha effettuato a disporre l’interruzione della terapia.
3. Il medico dell’azienda sanitaria locale, decorse dodici ore dalla comunicazione di cui al comma 1, accerta se l’opposizione è stata proposta. Ove ciò non risulti, dispone l’interruzione della terapia.

Articolo 7.

(Direttore sanitario. Vigilanza).

1. Il direttore sanitario dell’azienda sanitaria locale vigila sull’applicazione della presente legge e ne segnala le eventuali infrazioni agli organi competenti.

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