Studiare la laicità, delle società e degli individui

di Raffaele Carcano

 

La storia può sembrare curiosa. I grandi pionieri della sociologia erano tutti convinti del progressivo superamento della religione. Auguste Comte, che della parola “sociologia” è stato l’inventore, propose la sostituzione delle religioni classiche con una nuova creata da lui stesso, laica, positivista e scientifica. Émile Durkheim concepiva la religione come uno strumento funzionale datore di senso, consenso e ordine all’interno della società, con cui letteralmente coincideva: ma con il progressivo accentramento pubblico di funzioni sociali quali l’assistenza e l’istruzione il suo destino sarebbe stato quantomeno incerto. Max Weber la pensava al contrario: per lui la religione era un elemento autonomo all’interno della società, persino un fattore di modernizzazione. Ma, sul lungo periodo, il processo di razionalizzazione avrebbe comunque minato le basi della religione, generando «il disincanto del mondo». E infine Karl Marx, a cui si deve la famosa definizione della «religione, oppio dei popoli»: a sua volta prefigurava la scomparsa di ogni fede.

Con simili premesse, ci si sarebbe aspettati che la sociologia si sarebbe rapidamente indirizzata nella direzione dello studio di tali processi. Non andò così. All’interno delle confessioni stesse si sviluppò la sociologia religiosa, per impulso di figure come Niebuhr e Le Bras, e fortemente debitore di una prospettiva cattolica è stato anche il lavoro di Sabino Acquaviva. In Italia, la disciplina fu pionieristicamente avviata da un sacerdote, Silvano Burgalassi. Negli anni Sessanta persino la teologia della cosiddetta “morte di Dio” fu più interessata al tema e la prima istituzione ad affrontarlo seriamente fu nientepopodimeno che il Vaticano, con alcuni eccellenti convegni e lavori del Pontificio consiglio per il dialogo con i non credenti.

Nulla di sorprendente: il mondo si secolarizzava e i maggiori interessati a capire perché accadeva erano i più colpiti da tale fenomeno. Solo a partire dagli anni Settanta la sociologia comincerà a studiare programmaticamente la “secolarizzazione”, intesa — in estrema sintesi — come la perdita di influenza delle organizzazioni religiose. Il fenomeno della secolarizzazione ha, infatti, molteplici aspetti: investe le società, le istituzioni, i singoli individui, nonché le stesse organizzazioni religiose. Il più noto esponente della teoria classica della secolarizzazione è stato Bryan R. Wilson, secondo cui «la società tecnologica avanzata è un contesto inospitale per la “Weltanschauung” religiosa. Le istituzioni religiose competono in condizioni sempre più sfavorevoli con le altre agenzie che cercano di nobilitare e manipolare le risorse di tempo, energia e ricchezza degli uomini» [1]. Va rilevato che alla base del ragionamento di Wilson non vi era alcuna certezza nel declino della religione, ma la tesi dell’irresolubile contrapposizione tra religione e modernità.

La concezione di Wilson è stata prevalente per quasi due decenni. Non riusciva tuttavia a venire a capo di un problema: se trovava ampie conferme nell’Europa occidentale, non altrettanto si poteva dire degli Stati Uniti, una nazione tecnologicamente all’avanguardia che si caratterizzava per elevati indici di religiosità. A partire dalla fine degli anni Settanta, a questo problema se ne aggiunse un altro: il cosiddetto (e controverso) “ritorno del sacro”, rappresentato da figure come Wojtyla, Khomeini, Ronald Reagan. I leaderreligiosi integralisti, lungi dal combattere la modernità, dimostravano di sapersene servire.

Altri sostenitori della teoria classica, come Berger e Luckmann, avevano a loro volta sviluppato il concetto di “privatizzazione” della religione. Con questo termine volevano indicare la decadenza dell’influenza pubblica della religione e, per converso, la diffusione di forme di religiosità personalizzate o fai-da-te, coerenti con l’individualismo diffuso dei tempi moderni. Grace Davie, con riferimento al Regno Unito, ne ha a sua volta condensato i principi nell’efficace slogan «Credere senza appartenere». Anche il consenso intorno alla tesi della privatizzazione è però venuto meno. La diffusione delle “nuove” forme di fede non è così ampia e in crescita come si riteneva. Inoltre, autori come José Casanova e Gilles Kepel hanno descritto il ritorno sulla scena pubblica di quasi tutte le religioni storiche, capaci di rivendicare non soltanto il proprio ruolo tradizionale e identitario nella società, ma anche di ampliare tale ruolo alla sfera morale e alla contestazione dell’autorità politica. Un accresciuto protagonismo, tuttavia, non implica una fede più diffusa nella popolazione. Ed è stato un italiano, Franco Garelli, a dare una lettura della nostra società opposta a quella di Davie: «Da noi, a fronte di dichiarazioni di appartenenza alla Chiesa cattolica molto più elevate che altrove, si è cattolici più per motivi “ambientali” che per il richiamo di un messaggio rivelato. Si ricorre alla religione nei punti di rottura dell’esistenza […] ma si ha difficoltà a interpretare le vicende umane alla luce del messaggio religioso» [2].

Negli anni si sono aperti altri campi di ricerca. Di particolare importanza sono stati gli studi sulla religione civile, intesa come la creazione da parte di una società o di uno stato di un insieme coerente di valori, simboli e rituali secolari in grado di costituire un’alternativa alla religione di Stato: in questo ambito è stato particolarmente significativo il lavoro sulla realtà statunitense del sociologo Robert M. Bellah. Pippa Norris e Ronald Inglehart hanno iniziato a scandagliare il rapporto tra religiosità e sicurezza esistenziale. Altri sociologi, come Zygmunt Bauman, Anthony Giddens e Ulrich Beck, hanno scritto diversi saggi sulle ricadute etiche del nuovo panorama religioso occidentale. Mentre Charles Taylor, sostenitore del multiculturalismo, ha creato una certa discussione anche in campo sociologico sostenendo che, oggi, non esiste più alcuna «fede di default» [3]. Tuttavia, le conversioni sembrano essere un fenomeno statisticamente non molto significativo.

La critica più diretta alla teoria classica della secolarizzazione è stata formulata da un gruppo di sociologi americani ed è nota come “teoria della scelta razionale”. Anziché sulla domanda di religione da parte dei singoli individui, il nuovo orientamento preferiva dirigere la propria attenzione sull’offerta di religione e quindi sulla capacità delle organizzazioni confessionali di essere competitive sul “mercato religioso”. L’assunto che giustificherebbe il capovolgimento di prospettiva è che la domanda di religione tende a rimanere costante nel tempo, la conseguenza è che una “deregulation” del mercato della fede produrrebbe automaticamente, anche se non nel breve periodo, un aumento numerico sia nell’appartenenza, sia nella pratica religiosa. Immediatamente diffusasi oltreoceano, questa teoria ha riscosso una certa notorietà in Italia solo recentemente, grazie soprattutto al sostegno dall’influente cristianista Massimo Introvigne.

Anche questa teoria è andata però incontro a critiche. Molto più efficaci, tanto che è ormai considerata superata. La tesi della costanza diacronica della domanda religiosa, oltre a essere scarsamente sostenibile dal punto di vista storico, postula a sua volta l’innatismo psicologico (o l’ereditabilità genetica) della propensione alla fede: un presupposto, questo, che nonostante i molti sforzi intrapresi da diversi ricercatori resta al momento completamente privo di conferme scientifiche. Inoltre, la teoria della scelta razionale andava incontro a un numero di eccezioni ancora maggiore, siano esse rappresentate da stati di tradizione islamica oppure cattolica. Ancora: quanto può essere considerato “libero” il mercato religioso degli Stati Uniti, in cui il cristianesimo è comunque un elemento di fondo della società, se per essere eletti in parlamento occorre esibire la propria fede? La definitiva confutazione è arrivata proprio dagli USA: un quinto della popolazione si dichiara ormai non appartenente ad alcuna religione.

La sociologia della religione è dunque arrivata a un punto in cui sembra offrire ben poche certezze interpretative. Sembra impossibile individuare costanti universali e, a complicare ulteriormente la situazione, anche gli indicatori delle singole realtà sembrano suggerire una pluralità di letture. Ciononostante, anche nei paesi più religiosi (pensiamo per esempio all’Irlanda, o al mondo arabo-musulmano) la presenza e la visibilità dei non credenti cominciano a essere significative. Gli studi longitudinali, che analizzano il rapporto con la fede nel corso del tempo, hanno a loro volta cominciato a mostrare come gli individui tendano a mantenere le stesse convinzioni nel corso dell’esistenza (anche se i già credenti aumentano leggermente la propensione a partecipare al culto): diventa dunque difficile parlare di “scelte” a favore o contro la fede, se non nel periodo giovanile. Ne scaturisce anche una conferma indiretta della forza dei processi di secolarizzazione: ogni generazione è più incredula della precedente, dunque le prospettive future della religione non sembrano essere rosee. Forse il paradigma classico della secolarizzazione non è così superato.

O forse è il tempo di superarlo in un’altra direzione: passando dallo studio del processo allo studio di cosa lo sostituisce a livello di società, istituzioni, individui, e cominciando a investigare sistematicamente in maniera specifica i non credenti. Sinora conosciuti soltanto quale categoria residuale delle inchieste sulla fede. Che peraltro, ed è dimostrato da una mole enorme di studi, sono viziate dal fenomeno della desiderabilità sociale: gli intervistati tendono a dare la risposta che l’intervistatore si attende. Ne conseguono due problemi non da poco: l’incoerenza delle risposte (c’è chi dichiara di essere cattolico e, nello stesso tempo, di non credere in Dio) e l’errore di prospettiva costituito dalla sopravvalutazione delle opinioni rispetto ai comportamenti.

Non si parte proprio da zero. Ed è persino possibile individuare lavori pionieristici, come lo studio di Colin Campbell sulla «sociologia dell’irreligione» del 1971. Negli USA e nel Regno Unito cominciano ad essere aperti siti e dipartimenti dedicati a questo ambito. Sul prestigioso Sociology of Religion, Stephen LeDrew ha esplicitamente indicato come possibile direzione di marcia una «sociologia dell’ateismo». Lo studioso più interessante è Phil Zuckerman, che ha svolto ricerche sul campo nelle società scandinave “senza Dio” e tra coloro che hanno esplicitamente rigettato la propria fede. E se la sociologia della religione segna un poco il passo, non altrettanto si può dire della psicologia sociale della religione, che studia il rapporto tra l’individuo e le comunità di fede. I lavori di Bob Altemeyer, Bruce Hunsberger, Benjamin Beit-Hallahmi e Ara Norenzayan hanno dato e stanno dando importanti contributi a comprendere affinità e differenze tra credenti, non credenti, e le sempre più numerose sfumature intermedie che le scienze sociali individuano.

Anche l’UAAR ha già cominciato a finanziare ricerche in tal senso. E Laura Balbo, sul numero 5/2013 (90) di questa rivista, ha avanzato la proposta di una «sociologia della laicità», indicando scelte, pratiche, attori e cambiamenti a cui bisognerebbe prestare maggiore attenzione, anche in direzione della creazione di adulti sempre più consapevoli [4]. Questo numero vuol quindi essere un punto di partenza per un impegno sempre più concreto.

Note

[1] B.R. Wilson, La religione nel mondo contemporaneo (Religion in Sociological Perspective, 1982), il Mulino 1985, pp. 206-207.

[2] F. Garelli, Forza della religione e debolezza della fede, il Mulino 1996, p. 24.

[3] C. Taylor, L’età secolare (A Secular Age, 2007), Feltrinelli 2009.

[4] Di «sociologia della società» ha scritto spesso Jean Baubérot, ma i lavori che ne ha ricavato sembrano piuttosto improntati alla «storiografia della laicità».

Da L’ATEO 2/2014