Religione e storia: la lezione di Angelo Brelich

di Giorgio Ferri, Roma

 

Angelo Brelich succedette a Raffaele Pettazzoni nel 1958 nella cattedra di Storia delle Religioni dell’Università di Roma “La Sapienza”, la prima (assegnata nel 1924) e fino a quel momento l’unica dedicata allo studio della religione in senso laico e scientifico in Italia. La “novità” costituita dall’insegnamento aveva a suo tempo attirato su Pettazzoni l’ostilità sia della cultura laica del tempo, capeggiata da Benedetto Croce, sia di quella facente riferimento alle sfere culturali vaticane che, per fare un esempio, nel 1955 osteggiò aspramente l’organizzazione dell’VIII Congresso Internazionale di Storia delle Religioni a Roma. Brelich si trovò quindi a raccogliere un’eredità oltremodo ingombrante, tuttavia seppe dimostrarsi all’altezza delle aspettative.

Ma cos’è esattamente la storia delle religioni? Bisogna subito sgombrare il campo da possibili equivoci: la disciplina ha sì come oggetto di studio le religioni, ma da una prospettiva diametralmente opposta a quella della teologia. L’approccio è, infatti, prettamente storicistico, nel senso del «carattere irriducibilmente storico di ogni formazione religiosa»1. La religione è considerata esclusivamente all’interno della storia, escludendone qualsiasi elemento fideistico o trascendente, quale espressione della peculiare cultura di una società che la “sviluppa” per dialogare con il mondo circostante, personalizzandone il lato concepito come incontrollabile, quello dei fenomeni naturali, ma anche come “reazione” alle esperienze propriamente umane e anch’esse non controllabili quali la malattia o la morte. Si possono pertanto definire “religioni” «quei complessi di istituzioni, credenze, azioni, forme di comportamento e organizzazione mediante la cui creazione, conservazione e modifiche adeguate a nuove situazioni, singole società umane cercano di regolare e di tutelare la propria posizione in un mondo inteso come essenzialmente non-umano, sottraendone, investendo di valori e includendo in rapporti umani quanto ad esse appare d’importanza esistenziale»2.

Naturalmente il nostro concetto di “religione” è esso stesso un prodotto storico occidentale, influenzato strutturalmente dal Cristianesimo, le cui componenti principali: delle credenze, dei riti, un comportamento, un personale specializzato non sono allo stesso tempo (tutte) presenti in un’altra “religione”, o non la esauriscono, oppure non sono neanche paragonabili se non al prezzo di inevitabili forzature. Tutte queste considerazioni portano senz’altro a concludere che vi sono tante “religioni”, non “la” religione. La religione non è stata e non è «mai e in nessun luogo – un “dato di fatto”, né piovuto dal cielo per rivelazione né congenito alla natura umana né insito in una certa forma culturale, un dato di fatto di cui cambino solo, quasi secondariamente o casualmente, le forme superficiali, ma sempre e dovunque, come la cultura stessa, creazione continua»3. Anche le cosiddette «religioni universalistiche» (Cristianesimo, Buddhismo, ecc.) non possono essere comprese al di fuori delle configurazioni storico-culturali da cui hanno tratto origine.

Brelich spese una parte importante della sua attività scientifica a lottare contro quegli orientamenti che pretendevano di introdurre e basarsi su presupposti più o meno scopertamente fideistici, ribadendo e sottolineando continuamente come l’impostazione alla base dello studio scientifico delle religioni debba essere rigorosamente storicistica: «al mestiere dello storico l’“opzione” storicista» è, infatti, «più confacente di ogni altra: lo storico, in quanto tale, cerca, ed esclusivamente, le ragioni storiche, cioè umane, di ogni formazione culturale (e perciò anche religiosa) e abdicherebbe al suo mestiere nel momento stesso in cui ammettesse la sola possibilità di un intervento di fattori sovrumani nella storia o fondasse giudizi su valori “assoluti” prestabiliti da Dio o chi per lui»4. Dal punto di vista storico è irrilevante se una credenza sia “giusta” o “sbagliata”: «anche lo storico credente, finché studia la storia delle religioni, deve sapere prescindere dalla propria fede, perché non appena introduce nell’interpretazione di un fatto religioso fattori sovrumani (…), egli rinuncia al mestiere dello storico, che è quello di cercare di rendere conto delle ragioni umane che hanno prodotto un fenomeno culturale, un evento, una situazione, ecc.»5.

La religione va studiata nella storia e solo in essa: volerle affiancare un altro valore oltre a quello culturale – quindi umano – equivarrebbe a tradire la propria “missione” di scienziato, assegnandole un «valore autonomo»; si dovrebbero voltare le spalle all’idea di svolgimento, che è invece al centro del pensiero storicistico. Le posizioni in cui un archetipo, un a priori a-storico, esistente ab ovo e storicizzabile solo in un momento successivo, e mai del tutto – visto che in questo caso lo studioso non separa nel suo studio, ma anzi valorizza l’esperienza diretta del «sacro» – porterebbero a derive rischiose in un settore che non per niente ha nelle varie lingue un evidente ancoraggio alla ricerca propriamente empirica («Storia», «History», «Histoire», «Geschichte», ma anche «Wissenschaft») e che presuppone e comporta un agnosticismo o, sarebbe meglio, un ateismo metodologico, per la necessità imprescindibile di escludere gli elementi fideistici e metafisici dalla ricerca. Agire altrimenti porterebbe a mutare la storia delle religioni in quello che non dovrebbe mai essere, cioè una sorta di cripto-teologia. Per fare un paragone che escluda l’elemento soprannaturale, allo stesso modo agiscono gli storici “di regime” (purtroppo ancora esistenti), il cui lavoro è influenzato e diretto da istanze esterne e da posizioni precostituite che inficiano all’origine la ricerca dell’obiettività (o per meglio dire la tendenza verso di essa), per cui dalla storia si passa in questo caso all’apologia.

In definitiva, da una parte vi sono «coloro per i quali niente di essenziale è mai cambiato, può cambiare o deve cambiare il mondo; tutto è deciso sin da sempre», da quando, a seconda delle posizioni, Dio ha creato il mondo e l’uomo o comunque da quando quest’ultimo esiste; dall’altra parte «stiamo noi, stanno coloro per i quali la partita è aperta, per i quali c’è stata, c’è e ci sarà storia», per i quali «l’uomo di oggi non è proprio quello di sempre e nemmeno quello di una generazione fa e per i quali il domani dell’uomo dipende anche da ciò che sta già facendo». I due campi vengono a essere pertanto uno «sia pur inconsciamente religioso o teologico e l’altro integralmente laico; uno sostanzialmente conservatore (…) e l’altro impegnato nel presente e aperto al futuro». E allora anche l’«opzione» diventa «storica»: «anche questa posizione genericamente umana mi appare inseparabile dalla posizione dello storico: preferisco d’aver “scelto” così, perché nello stesso poter scegliere trovo la giustificazione della mia posizione: non tutto è determinato sin da sempre, se io posso ancora scegliere. La storia sta, appunto, in scelte»6.

Dunque perché storicismo? «Basta la semplice risposta: perché solo lo storicismo risponde ai fatti obiettivi»7. Ma allora quale storicismo? «Lo storicismo che noi contrapponiamo a ogni indirizzo antistorico, si fonda anzitutto sul fatto obiettivo del continuo (…) mutare delle culture e sul riconoscimento che esso dipende dalle forze creative delle società umane, che si esplicano nelle varie forme della conservazione e dell’innovazione. Questo storicismo prescinde da ogni presupposto metafisico (…) e si realizza nell’individuare i fattori che mettono in grado, di volta in volta, di procedere alla scelta di una soluzione culturale. Esso mira a comprendere la novità e la portata di ogni siffatta soluzione mediante il confronto con la situazione precedente e con altre soluzioni scelte in situazioni analoghe (…) da altre società: donde la sua dimensione comparativa da cui nessuna storiografia può prescindere sotto pena di esaurirsi in mera cronaca locale»8. Lo storicismo così delineato è quindi necessariamente “assoluto”, nel senso che in quest’ottica «conoscenza storica delle religioni significa risolvere senza residuo in ragioni umane ciò che nell’esperienza religiosa in atto apparvero ragioni numinose», secondo la definizione di Ernesto De Martino fatta propria anche da Dario Sabbatucci9.

Si capisce bene quanto una simile impostazione, lungi dal togliere dignità alla religione, le restituisca invece il suo posto nel mondo e nella storia, relativizzandola e inserendola nel contesto geografico, storico e culturale in cui essa si trova (o si è trovata) e ha avuto il suo sviluppo. Rendersi conto che non esiste una religione «vera», anche tramite lo strumento essenziale costituito dalla comparazione – altro pilastro essenziale del “metodo” di Brelich, che lo impiegò fruttuosamente e indifferentemente alle culture di interesse etnologico come anche alla religione romana, greca, al Cristianesimo, ecc. – rilevando quanto in ogni società vi è di specifico, porta necessariamente ad un salutare relativismo: la prospettiva storica libera dal «giudizio» e per ciò stesso dal posizionamento in una scala di valori assoluti (anch’essi tuttavia sempre relativi in quanto «cultura»), in realtà sempre dipendente da chi la redige. «Alla luce della comparazione storica le religioni rivelano la loro essenza e la loro dignità e si collocano tra le forme in cui l’uomo manifesta il suo modo di essere, che è sempre un modo creativo, cioè un vivere storicamente»10.

Ciò porta a un risoluto quanto netto rifiuto di orientamenti quali il primitivismo e l’etnocentrismo, indi al conseguente e necessario corollario dell’affermazione della pari dignità di ogni cultura, di per sé non «superiore»«inferiore», ma solo differente. Prendere coscienza della capacità creativa di ogni umanità «ci restituisce la libertà e l’autonomia del soggetto pronto a rifiutare il “dato” e a impegnarsi nel porre nuovi valori»11. L’autonomia di giudizio svincola lo studioso da dogmi di sorta: «non esiste una verità storica; ogni cultura crea le proprie verità storiche, ma queste non per questo sono arbitrarie, soggettive, prive di valore, bensì sono prodotti coerenti di quel continuo – e irreversibile – processo che è la storia culturale stessa»12.

Non si fa fatica a comprendere quanto una disciplina come la storia delle religioni potrebbe giovare alla formazione di individui aperti, consapevoli che al mondo non vi è nulla di “assoluto”, neanche la religione, essa stessa: «un incessante divenire creativo, cioè storia»13. Brelich non si è mai stancato di sottolinearlo, anche e soprattutto nei suoi corsi universitari e nelle dispense che con grande dedizione redigeva per i suoi studenti; la sua opera incessantemente «manifesta il suo significato in riferimento all’idea-guida secondo la quale la creatività umana è il solo motore della storia»14. Il Brelich auspicava, così come tra gli altri già Pettazzoni e poi anche De Martino, che la disciplina potesse essere in prima linea nel gettare le basi «di un nuovo umanesimo, ancora quasi completamente inconcepibile e sconosciuto, ma indispensabile per l’avvenire»15. Visti gli sviluppi storici dell’ultimo trentennio, dobbiamo constatare con amarezza che questo momento sembra più lontano a venire di quanto non apparisse a quei grandi studiosi. Non deve però venir meno la fiducia. In ciò la storia delle religioni può avere un ruolo decisivo: essa può gettare le basi per un fruttuoso dialogo tra i popoli al di là delle differenze anche religiose, quindi socio-culturali. Semmai vivremo un’epoca simile, la disciplina non avrà esaurito la sua funzione, poiché sarà sempre necessario difendere tali diversità contro qualunque tentativo di egemonizzazione – sarebbe meglio al giorno d’oggi parlare di “globalizzazione” – culturale, col collocarle nella storia. Ci sarà tuttavia sempre bisogno anche di uno “specchio” in cui guardare e guardarsi per rendersi conto in ogni momento di cosa c’è prima e di cosa c’è sotto.

Note

  1. A. Brelich, «La metodologia della scuola di Roma», in Id., Mitologia, politeismo, magia, a cura di P. Xella, Napoli 2002, p. 141.
  2. Id., Introduzione alla storia delle religioni, Roma 1966, p. 66.
  3. Id., Paides e parthenoi, Roma 1969, p. 9.
  4. Id., «Perché storicismo e quale storicismo», in Id., Storia delle religioni, perché?, Napoli 1979, p. 207.
  5. Id., «Storia delle religioni. Perché?» (dispense universitarie dell’a.a. 1968/69), in Id., Storia delle religioni, perché?, Napoli 1979, pp. 249-250.
  6. Id., «Perché storicismo e quale storicismo», in Id., Storia delle religioni, perché?, Napoli 1979, p. 210.
  7. Ibid., p. 218.
  8. Ibid., p. 222.
  9. D. Sabbatucci, La prospettiva storico-religiosa, Formello 2000, p. 62.
  10. A. Brelich, «Prolegomeni a una Storia delle religioni», in Id., Storia delle religioni, perché?, Napoli 1979, p. 182.
  11. Id., «Ha senso oggi una rivista di Storia delle religioni?», in Id., Storia delle religioni, perché?, Napoli 1979, p. 196.
  12. Id., «Riflessioni su “La Religion romaine archaïque” di G. Dumézil», Studi e Materiali di Storia delle Religioni 39, 1968, p. 136.
  13. Id., Paides e parthenoi, Roma 1969, p. 9.
  14. M. Massenzio, Prefazione a A. Brelich, Presupposti del sacrificio umano, Roma 2006, p. 12.
  15. A. Brelich, Gli eroi greci, Roma 1958, p. IX.

L’autore

Giorgio Ferri si è laureato in Storia delle Religioni all’Università di Roma “La Sapienza” con il Prof. Enrico Montanari, già assistente di Angelo Brelich. Attualmente è dottorando presso l’Università di Roma “Tor Vergata” e l’Università di Erfurt (Germania).