Le malefatte di una storiografia religiously correct

di Federica Turriziani Colonna

Il prezzo che si paga per essere materialisti, atei, o semplicemente “scomodi” è, quando va bene, il godere di una cattiva fama, quando invece va male, l’essere confinati nell’oscurità dell’oblio. Se è vero che gli scritti aristotelici e i dialoghi platonici ci sono pervenuti in gran quantità, è altrettanto vero che del Sisifo di Crizia possediamo solo un numero irrisorio di versi. È grazie a Sesto Empirico che possiamo leggere le sue considerazioni in materia di religione, esaminata finalmente con occhio disincantato e critico, alla stregua di un qualsiasi fenomeno sociale: in seguito all’istituzione delle leggi positive, che «distoglievan bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor degli dèi, sì che uno spauracchio ci fosse ai malvagî anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero» (D.K., 88 B 25). Furono queste poche righe, evidentemente, a gettare nelle tenebre il nome di Crizia, imparentato tra l’altro con il ben più noto Platone.

La storiografia generalmente tace – o bisbiglia cautamente, il che fa lo stesso – sui nomi di coloro che risultano poco utili al rafforzamento del potere, teoricamente solo spirituale, delle religioni. Di Lucrezio non si parla se non in riferimento alla sua presunta pazzia, è ben noto il suo deplorevole stato psichico che gli permetteva di scrivere solo nei brevi intervalla insaniae; ma è opportuno, se non benefico, considerare chi sia la fonte di tali notizie biografiche. È un santo: san Girolamo, che nel suo Chronicon ritrae il nostro Lucrezio come un povero pazzo, e perciò poco attendibile. Ma il De rerum natura, veicolo di divulgazione dell’Epicureismo a Roma, è un poema-manifesto del pensiero materialista: siamo un aggregato di atomi, sia nel corpo sia nell’anima, e di atomi sono composti gli stessi dèi, che pure esistono, ma vivono confinati negli spazi tra i mondi, senza curarsi minimamente delle vicende umane; il pericolo del timore degli dèi è così scongiurato. Benché non ateo, Lucrezio si è guadagnato la patente di inaffidabilità, come se fosse più affidabile chi, per vendere la propria merce – perché di questo si tratta, di vendere una morale scadente impreziosita però dell’etichetta divina – getta fango sul concorrente. E concorrente non è, tra l’altro, un termine adeguato quando si parla di chi semplicemente espone una dottrina, quella sulla natura, che non ha pretese di valere incondizionatamente né di sottomettere la massa: anzi, lo studio della natura, la comprensione dei suoi meccanismi, liberano l’uomo dagli stretti serrami della superstizione, di cui la religione non è che un più attraente surrogato.

Tralasciando le stragi dell’Inquisizione, stragi di pensatori tutt’altro che atei, notevole è l’opera di Hobbes, che chiude il Leviatano con una breve sezione intitolata «Il regno delle tenebre», in cui si dice che «qualsiasi potere gli ecclesiastici si assumano come loro proprio diritto, benché lo chiamino diritto di Dio, non è che usurpazione» (Leviatano, cap. 46); viene inoltre confrontato il papato con il regno delle fate – noi diremmo streghe, persone che si dicono depositarie di spiriti – in questi termini: «è impossibile catturare le fate e costringerle a rispondere dei danni che arrecano. Allo stesso modo, gli ecclesiastici si dileguano dai tribunali della giustizia civile», e ancora: «quale sia la moneta in corso nel regno delle fate, le favole non lo riportano. Ma gli ecclesiastici accettano di riscuotere la stessa moneta di cui noi facciamo uso; tuttavia, quando devono fare un pagamento, lo effettuano sotto forma di canonizzazioni, di indulgenze e di messe». (ibidem, cap. 47).

Degno di memoria è poi il nome di Meslier, che pure era un abate, ma che lasciò, alla sua morte, quello che Onfray definisce il manifesto dell’ateismo: il Testamento, il cui spirito irreligioso spaventò persino Voltaire, che si preoccupò di divulgarlo, solo dopo averlo però corretto e averne smorzato i toni polemici. Fu il barone d’Holbach ad abbracciarne le tematiche, facendosi portatore della bandiera del materialismo del Settecento.

Stando a quel che la storiografia racconta, i Lumi avrebbero tirato l’uomo fuori da quella condizione di minorità mentale, imputabile solo a se stesso. Che tale ottusità sia imputabile solo e soltanto a se stesso, è un fatto indiscutibile; ma che da tale situazione di precarietà intellettuale si sia usciti, è invece cosa opinabile. Il 1781 è una data importante: è l’anno di pubblicazione della Critica della ragion pura. In una delle sezioni di cui essa è composta, la «Dialettica trascendentale», Kant mostra che qualsiasi ragionamento si faccia in materia di idee, tale ragionamento non potrà che essere fallace. Ovviamente, tra le idee di cui si parla, c’è quella di Dio. Ebbene, quando il pensiero oltrepassa i limiti della sensibilità, quando cioè si ragiona su un’idea (e l’idea è tale in quanto di essa non si dà mai il corrispondente nella realtà, il referente oggettivo), non si può non cadere in ragionamenti fallaci: nel caso specifico dell’idea di Dio, sia che si dica che esiste, sia che si dica il contrario, entrambi i ragionamenti avranno eguale sembianza di verità e, non potendo accettare che due argomenti opposti siano entrambi veri, è bene che li si abbandoni. Sembra dunque che Kant stia abbracciando lucidamente un atteggiamento scettico, e le sue posizioni sembrano quelle di un agnostico. Bene, già nella Prefazione alla seconda edizione dell’opera, che risale al 1787 (un solo anno prima della pubblicazione della Critica della ragion pratica), quello che sembrava un agnostico, si pronuncia dicendo: «Ho dovuto dunque sospendere il sapere per far posto alla fede». Ecco spiegato il motivo di tanta fama legata al nome di Kant: la sua è una filosofia religiously correct. Dopo un onesto e lucido ragionamento, in cui si argomenta l’impossibilità di provare o confutare l’esistenza divina, assistiamo all’abominio. Perché sacrificare il lume di una ragione libera da pregiudizî e libera di pensare per accontentarsi di un surrogato del pensiero che si chiama fede? Perché postulare l’esistenza divina per l’agire pratico, dopo aver sospeso dignitosamente il giudizio in materia di ragione pura? Sono Lumi, questi? È rivendicare l’uso della ragione il rinunciare a pensare per lasciar spazio alla fede? L’idea di Dio, che si presenta in tutta la sua inutilità ai fini del ragionamento puro, come può essere poi riabilitata per farne un uso pratico? Forse un ateo o un agnostico non sono capaci di un comportamento morale? Già prima di Kant vi fu chi, come Bayle, sostenne che un ateo potesse essere depositario di moralità tanto quanto una persona religiosa: si ipotizzava, cioè, l’esistenza di un ateo virtuoso, e di una società di atei. Ma Bayle non ha goduto certo della fama e dei riconoscimenti di cui è stato sommerso Kant…

Il secolo successivo a quello dei Lumi, tutto impegnato nella celebrazione dello Spirito, protagonista indiscusso dell’Hegelismo, partorisce un pensatore pericoloso: Feuerbach, che vede nel sistema hegeliano nient’altro che una teologia mascherata. Egli svela il segreto delle religioni, indagandone le dinamiche; nella Essenza della religione si addita il sentimento di dipendenza dell’uomo nei confronti della natura come il fondamento di ogni culto religioso. L’uomo, che non sa spiegarsi le cause dei fenomeni naturali, crea un ente, immateriale, cui poter attribuire facoltà umane, come la volontà e, dunque, se piove, ciò accade per volontà divina. Perciò «ove viene meno la certezza matematica, ivi incomincia la teologia. Religione è l’intuizione del necessario come se esso fosse un effetto dell’arbitrio e della libera volontà» (Essenza della religione, 27). Inoltre, Feuerbach nota che «a proprio presupposto la religione ha il contrasto tra volere e potere, desiderare e ottenere. Nel volere, nel desiderare, l’uomo è illimitato, libero, onnipotente – è Dio – ma nel potere, nell’ottenere, nella realtà egli è condizionato, dipendente, limitato – è uomo – uomo nel senso di un ente finito, contrapposto a Dio» (ibidem, 30). A causa di tale ineliminabile scarto tra desiderio e realtà, l’uomo crea un’entità in cui non si dia uno scarto simile, Dio, in cui volere e potere coincidano, e vi si sottomette; ma nella divinità non c’è altro che l’essenza umana: Dio è senza limiti ciò che nell’uomo è limitato, se l’uomo è irrimediabilmente mortale, Dio è immortale; dunque «l’acqua delle lacrime del cuore evapora nel cielo della fantasia, costituendo con le nubi le immagini dell’ente divino» (ibidem, 32).

È disonesta una storiografia che pretende di studiare Freud senza fare il minimo riferimento a L’avvenire di un’illusione, in cui la religione è analizzata quale nevrosi infantile, e il rapporto con Dio ricalcherebbe quello paterno. La cultura è e deve essere laica, libera da compromessi di sorta, giacché l’oscurantismo è un atto criminoso; gettar fango sul pensiero materialista è sintomo di atrofia intellettuale; tacere su autori eterodossi, confinare il libero pensiero, spingere nel burrone dell’oblio un libro, qualunque esso sia: tutto questo è totalitarismo. E totalitario è l’atteggiamento di chi, non pago di aver creato un fantoccio, uno spauracchio, assolda un esercito di filosofi per propagandare uno slogan che si chiama Dio. Le dinamiche di un regime totalitario sono perfettamente congruenti alla dinamica antropologica della creazione e della promozione delle religioni, che nascono come strumento di potere, e che somigliano tanto alla carota che pende dinanzi agli occhi dell’asino, che solo grazie a essa riesce a camminare diritto: l’illusione e la promessa di un aldilà non sono che la carota degli uomini; postulare l’esistenza di Dio come garante del fatto che ad un comportamento virtuoso in terra corrisponda presumibilmente un premio nella vita futura, e postulare l’immortalità dell’anima come condizione perché ciò avvenga; più in generale, l’atto del promettere premi, tutto questo è quanto meno necessario perché l’uomo si guardi dall’essere criminoso e malvagio. Perché l’uomo non è ancora uscito da quella condizione di minorità mentale imputabile soltanto a se stesso di cui parlava Kant e, fintantoché le religioni continueranno a esistere e a costituire la sola possibilità di deviazione dalla malvagità umana, questo stato di minorità intellettuale resterà la nostra dolce dimora.

Federica Turriziani Colonna, nel suo articolo «Vanità: la più pericolosa nemica di Darwin» pubblicato sul n. 2/2008 (56), pp. 13-14, si diceva interessata alla formula philosophia ancilla theologiae. A dimostrazione del fatto che una “a” può cambiare tutto: Federica faceva il verso a Tommaso d’Aquino, ma ha dimenticato la A più importante. La filosofia dovrebbe essere, infatti, al servizio dell’ateologia, quindi: philosophia ancilla Atheologiae.