Salti ontologici. Darwinismo, evoluzionismo e scienze sociali

di Maria Turchetto

«Nell’epoca in cui gli effetti di composizione di ordinari comportamenti umani rischiano a medio termine di distruggere la natura, salvo essa non venga distrutta anzitempo dagli atti straordinari di qualche potente, è diventato un compito prioritario per la sociologia stabilire un fermo legame, teoretico e metodologico, tra teoria della società e teoria della natura». Difficile non concordare con questa affermazione del sociologo Luciano Gallino. Ma è davvero tanto difficile gettare un ponte tra questi due campi del sapere? Si direbbe, in effetti, che le scienze sociali – gli studiosi di formazione “umanistica” in genere – abbiano paura di Darwin. Perché mai? A mio avviso, per due ordini di motivi, di cui uno condivisibile, l’altro assai meno.

Il primo motivo, condivisibile, è la preoccupazione di naturalizzare fenomeni sociali, con l’effetto di occultare responsabilità sociali e di dichiarare ineliminabili – in nome di una naturalità presunta – piaghe sociali sedimentate. Dire che la miseria e l’emarginazione di una parte cospicua dell’umanità è una condizione “naturale” (come fece Thomas Robert Malthus, uno degli ispiratori dell’Origine delle specie per esplicita dichiarazione di Darwin), dire che la condizione d’inferiorità dei selvaggi, dei negri e delle donne è una condizione “naturale” (come fece Herbert Spencer sulla base della famigerata “teoria della ricapitolazione”) è qualcosa che ripugna qualsiasi sincero progressista, qualsiasi brava persona. Purtroppo queste cose sono state dette e il brutto episodio del socialdarwinismo (che dovrebbe piuttosto chiamarsi socialspencerismo, poiché ha alla base un’idea di evoluzione molto lontana da quella di Darwin) c’è stato, e ispira ancora cautela agli studiosi della società. Ma c’è un altro motivo, assai meno condivisibile, per cui gli “umanisti” hanno paura di Darwin: è la solita presunzione dell’Homo sapiens, che si sente superiore alla natura, che non vuole confondersi con gli altri animali e tanto meno avere parenti tra le scimmie. Benedetto Croce, che tanto (ahimè!) ha segnato la nostra cultura, scriveva che l’idea delle «origini animalesche e meccaniche dell’umanità» gli dava un «senso di sconforto e di depressione e quasi di vergogna»: per questo ci teneva ad alzare uno steccato tra «scienze della natura» e «scienze dello spirito». Ma non è certo il solo a pretendere che ci sia un “salto ontologico” tra l’uomo e la natura: questo dualismo vanta insospettabili fautori. “Salto ontologico” è un’espressione usata da Giovanni Paolo II nel Messaggio del Santo Padre alla Pontificia Accademia delle Scienze del 1996, che rappresenta probabilmente la maggiore apertura della Chiesa cattolica alla teoria dell’evoluzione (oggi la tentazione di tornare indietro a un più rozzo creazionismo è forte, data l’audience che alle posizioni neocreazioniste, specialmente quelle provenienti d’oltreoceano, viene concessa): “Se il corpo umano ha la sua origine nella materia viva che esisteva prima di esso, l’anima spirituale è immediatamente creata da Dio […]. Con l’uomo ci troviamo dunque dinanzi a una differenza di ordine ontologico, dinanzi a un salto ontologico, potremmo dire”.

Dunque per il vecchio papa è l’anima che fa la differenza, che separa assolutamente l’uomo dagli altri animali. Ma anche non credendo nell’anima spirituale si può tentare, su altre basi, di spiccare il “salto ontologico”. Un materialista di ferro come Jaques Monod (un riduzionista, addirittura, come orgogliosamente si proclama nel Caso e la necessità) attribuisce al linguaggio la funzione di trampolino per il salto, e parla in questi termini di emergenza della noosfera dalla biosfera: «Solo l’ultimo in ordine di tempo di questi accidenti [e cioè lo sviluppo della comunicazione informativa tra individui, che caratterizza anche altri animali oltre l’uomo] poteva condurre all’emergenza di un nuovo regno in seno alla biosfera, la noosfera, il regno delle idee e della conoscenza, nato il giorno in cui le associazioni nuove, le combinazioni creatrici presso un individuo hanno potuto, trasmesse ad altri, non morire con lui». Ecco ripristinato un regno superiore in cui collocare l’uomo al riparo dalla natura, ecco di nuovo un dualismo, una contrapposizione forte di natura e cultura (biosfera e noosfera) che rischia facilmente di scivolare in quella di natura e spirito di crociana memoria. Senza contare che pensare l’uomo e le società umane entro questo impalpabile “regno delle idee” non ci permette di cogliere quei rischiosi comportamenti umani di cui parla Gallino – quei materialissimi fumi e scarichi industriali e veleni e bombe che mettono ormai in pericolo la sopravvivenza della natura.

Possiamo allora chiedere aiuto al “materialismo storico”, cioè al marxismo? Con cautela. Anche in questo filone di pensiero qualcuno ha cercato di fare i “salti ontologici” e di recuperare il dualismo tra natura e società. Lucio Lombardo Radice, nella prefazione alla Dialettica della natura di Friedrich Engels, scriveva: «Pur considerando la storia naturale come premessa della storia umana Marx vedeva nel lavoro, nella produzione sociale, un elemento del tutto nuovo e originale rispetto ai processi naturali, implicante una diversa dialettica». È quanto del resto afferma lo stesso Engels, appunto nella Dialettica della natura: «L’animale arriva al massimo a raccogliere; l’uomo produce, allestisce i mezzi necessari all’esistenza nel senso più vasto della parola […]. Ciò impedisce di trasferire, così senz’altro, le leggi di vita delle società animali alla società umana». In questo passo troviamo mischiati insieme i motivi che ho definito condivisibili e non condivisibili della separazione posta tra natura e società. Attenzione, dice Engels, non trasferiamo meccanicamente le leggi della natura alla società, non facciamo come Malthus, non facciamo come Spencer che basano su questa operazione un’apologia del capitalismo e del mercato e una legittimazione delle ingiustizie sociali … Condivisibile! Ma ci scappa anche una meno condivisibile superiorità dell’uomo, nobilitato guarda caso dal lavoro, secondo il trito luogo comune di una società che il lavoro lo sfrutta. Eppure sono convinta che sia possibile instaurare un proficuo dialogo tra Marx e Darwin – queste due grandi “barbe” che nell’Ottocento si sono inestricabilmente intrecciate, penetrando a fondo nella nostra cultura, e che ancora influenzano il nostro modo di pensare. Sono convinta che la fecondità delle svolte che questi autori hanno impresso alle scienze della vita e alle scienze sociali non sia stata ancora pienamente espressa e che grazie alla strumentazione concettuale che ci hanno lasciato sia possibile illuminare in modo significativo il problema dell’uomo, collocandolo finalmente tra natura e cultura, anziché relegarlo da una parte sola. Ma per far questo è necessario salvare Darwin dal darwinismo e salvare Marx dal marxismo.

Molti autori hanno magnificamente difeso Darwin dal darwinismo – e soprattutto dal socialdarwinismo. Ne faccio qui una breve e parziale carrellata. Luciano Gallino, nel saggio da cui ho tratto la citazione iniziale, sostiene che molti di coloro che hanno creduto di applicare l’idea di evoluzione alle società umane hanno in realtà usato il concetto di ontogenesi al posto di quello di filogenesi, riproponendo di fatto la vecchia idea illuminista di un “progresso” attraverso stadi necessari e concatenati che nulla ha a che fare con l’idea darwiniana di evoluzione. Secondo Patrick Tort (L’antropologia di Darwin, Manifestolibri, Roma 2000) i socialdarwinisti – e forse i sociologi in genere – non hanno mai letto l’Origine dell’uomo di Darwin, dove avrebbero trovato all’opera principî ben diversi rispetto a quella “lotta per l’esistenza” chiamata a giustificare ogni diseguaglianza sociale: come la selezione sessuale e i comportamenti assimilativi e di solidarietà che si sviluppano nelle società animali e umane. Lorenzo Calabi (Darwinismo morale, ETS, Pisa 2002) ha ben illustrato il meccanismo con cui gran parte del darwinismo sociale e della sociobiologia stabilisce una “circolarità fallace” tra natura e società: «astraggono un comportamento sociale moderno e lo traspongono in una condizione naturale, […] dando ad esso un significato in quella condizione. Astraggono poi il significato e lo ricollocano nella contemporaneità», ottenendo la magia di rendere quest’ultima “naturale” e dunque intrascendibile. Darwin era ben conscio del tranello, quando, poco dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie, scriveva a Charles Lyell: «Un giornale di Manchester ha ridicolizzato la mia teoria, affermando che io avrei dimostrato che la ragione è del più forte e pertanto che Napoleone è nel giusto e che ogni commerciante che raggira i clienti è nel giusto».

E cito per ultimo il magnifico studio di Stephen Jay Gould, Intelligenza e pregiudizio (Il Saggiatore, Milano 2005), dove si mostra che la tentazione di imputare alla natura le discriminazioni sociali inizia ben prima (con le craniometrie settecentesche) e continua ben dopo Darwin (con la teoria della “ricapitolazione” e l’antropologia criminale), ma che essa si giova di un concetto d’evoluzione assai distante da quello darwiniano. I ricapitolazionisti, in particolare, pensano l’evoluzione in termini di progresso e pongono al vertice del progresso – guarda caso – il maschio adulto bianco: le discriminazioni sociali, razziali e sessuali vengono di conseguenza interpretate come inferiorità naturali dovute al mancato raggiungimento del gradino più alto. «Per sessant’anni, sotto la spinta della ricapitolazione, gli scienziati hanno raccolto volumi di dati oggettivi che proclamano sonoramente tutti lo stesso messaggio: neri adulti, donne e bianchi della classe inferiore sono come i bambini bianchi maschi della classe superiore». Non del tutto sviluppati, non progrediti fino in fondo, dunque bisognosi di rimanere sotto la tutela – e agli ordini! – degli individui superiori. Oggi che è in voga la neotenia – cioè l’idea che una caratteristica importante della specie umana sia il mantenimento di tratti infantili nell’età adulta – il discorso dovrebbe risultare rovesciato, e quei “dati oggettivi” pazientemente raccolti potrebbero essere utilizzati per dimostrare l’inferiorità della razza bianca … Assolto dunque Darwin dalle colpe del socialdarwinismo, con l’aiuto di tanti prestigiosi interpreti, da parte mia vorrei tentare l’impresa di sollevare Marx dalle colpe del marxismo. Marx ha, infatti, da offrirci un concetto molto importante, quello di modo di produzione, di cui il marxismo successivo non ha colto fino in fondo la portata innovativa.

La produzione è definita da Marx come il «ricambio organico tra l’uomo e la natura». Considerata dagli economisti della scuola classica come un processo socialmente neutro, la produzione è invece identificata da Marx come luogo cruciale delle relazioni sociali. I rapporti di produzione sono rapporti di potere decisivi, in quanto determinano chi si appropria della ricchezza sociale. Da essi dipende l’intera fisionomia di una società, la sua “struttura”. Il progetto di Marx è appunto quello di classificare diverse forme sociali in base al “modo di produzione” in esse prevalente e di studiare ciascun tipo di società con strumenti specifici, adatti a coglierne la peculiare legalità. Certo, il suo interesse è rivolto soprattutto alle società di tipo capitalistico, oggetto principale della sua ricerca, che tuttavia va compresa in questo quadro concettuale di discontinuità storica: il “modo di produzione” capitalistico non funziona come il “modo di produzione” schiavistico o come quello feudale, e solo la ricerca delle differenze specifiche significative può illuminarne adeguatamente i meccanismi sociali, i ritmi e le dinamiche di crescita e trasformazione. Quest’idea della storia come successione discontinua di diversi modi di produzione era molto innovativa in un’epoca fondamentalmente dominata dall’idea di progresso, un progresso pensato – secondo i canoni dell’illuminismo – come sviluppo attraverso “stadi”, ciascuno dei quali è superiore (più ricco, più complesso, più “civilizzato”) rispetto al precedente. Così come gli evoluzionisti ottocenteschi preferirono lo schema spenceriano – improntato appunto all’idea di progresso – a quello darwiniano, analogamente i marxisti rimontarono i “modi di produzione” di Marx secondo lo schema degli stadi di sviluppo. La storia tornava così ad essere progresso lineare e necessario, mentre le differenze specifiche – qualitative – delle relazioni sociali, oggetto privilegiato della riflessione marxiana, sfumavano per lasciare in primo piano lo sviluppo – quantitativo – delle “forze produttive”.

Questa trasformazione dell’originale progetto di Marx a opera del marxismo ha avuto, naturalmente, grandi conseguenze sul piano ideologico e politico: il comunismo diventava una promessa della storia, l’esito di uno sviluppo necessario; il confronto tra capitalismo e socialismo – ricordate gli anni della guerra fredda? – si giocava tutto sullo “sviluppo delle forze produttive”, dunque in termini di mera crescita economica … Ma non è questa, ovviamente, la sede per approfondire tali aspetti. Qui m’interessa indagare ciò che il concetto marxiano di modo di produzione – malamente ridotto dal marxismo alla nozione di stadio di sviluppo – può offrire, se adeguatamente compreso, a quel «compito di stabilire un fermo legame, teoretico e metodologico, tra teoria della società e teoria della natura» da cui siamo partiti.

In primo luogo, osserverò che proprio grazie al concetto di modo di produzione Marx porta una critica profonda all’operazione di naturalizzazione dei rapporti sociali condotta da Malthus – questo socialdarwinista ante litteram. La “legge bronzea dei salari” enunciata da Malthus riconduceva la tendenza dei salari a mantenersi al livello di sussistenza a una “naturale” crescita demografica (principio di popolazione) combinata con un’altrettanto “naturale” scarsità di risorse agroalimentari (principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura). Marx spiega invece questa stessa dinamica salariale con il caratteristico andamento ciclico della produzione industriale finalizzata al profitto, e così conclude, nel primo libro del Capitale, la sua brillantissima argomentazione: «È questa una legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico, come di fatto ogni modo di produzione storico particolare ha le proprie leggi della popolazione particolari, storicamente valide. Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali, nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia». Abbiamo dunque bisogno di un apparato concettuale capace di cogliere le differenze specifiche tra tipi di società per evitare di sovrapporre determinazioni sociali e determinazioni naturali, per non cadere nel gioco della “circolarità fallace”, del ragionamento vizioso che sta alla base delle vecchie come delle nuove sociobiologie.

In secondo luogo, vorrei osservare che individuare i diversi tipi di società sulla base dei diversi “modi di produzione” – anziché in base alla cultura, alle istituzioni o quant’altro – mentre da un lato non ha l’effetto di porre barriere ontologiche tra l’uomo e gli altri viventi, i quali svolgono pure attività di “ricambio organico con la natura”, a volte anche in forme sociali, dall’altro ci mette subito di fronte al problema dell’impatto delle attività umane sull’ambiente. Se storicamente diverse sono le forme di “ricambio organico tra l’uomo e la natura”, diverse sono anche le modifiche che l’uomo introduce nell’ambiente. L’impatto di tribù nomadi di cacciatori e raccoglitori è senz’altro diverso da quello di raggruppamenti umani sistematicamente dediti all’agricoltura. Società prevalentemente agricole modificano l’ambiente secondo modalità ben differenti da quelle di produzioni industriali di massa. O ancora, l’agricoltura condotta secondo sistemi tradizionali ha effetti diversi dalle monocolture oggi praticate su vastissima scala dalle multinazionali nel Terzo Mondo.

Il discorso può sembrare banale, ma molti ecologisti tendono a impostare il problema in modo “astratto” – direbbe Marx – imputando i danni ambientali all’umanità in quanto tale anziché a una specifica forma di società e di produzione. Per non parlare dei furbetti che svolgono il tema in termini di responsabilità individuali anziché sociali: non sprecare l’acqua, brutto consumista cattivaccio!, spegni la luce, vai a piedi, non usare bombolette … Come se questo genere di consumismo fosse davvero una scelta personale e non il risultato di uno specifico modo di produzione. Come se nel frattempo la produzione industriale non consumasse e inquinasse su ben altra scala. Forse, seguendo la lezione di Marx, potremmo azzardarci a chiamare tutto questo capitalismo anziché progresso. E sempre seguendo la lezione di Marx, potremmo imparare a distinguere con maggiore chiarezza le responsabilità sociali, senza tirare in ballo la natura o un’astratta e disincarnata “natura umana”. E ancora, seguendo la lezione di Marx, potremmo finalmente pensare e studiare le società umane – questa “antroposfera” certamente diversa, sovrapposta, conflittuale rispetto alla “biosfera”, ma non lontana, immateriale, nobile e innocua come la “noosfera” evocata da Monod – senza farne un impalpabile regno dello spirito, senza salti ontologici, restando con i piedi, e con le nostre responsabilità, su questa Terra.