Fare Caritas con i soldi di tutti

Le istituzioni, negli ultimi anni, hanno indubbiamente manifestato un sempre maggiore pregiudizio favorevole nei confronti del non profit (sempre più profit). Alla stessa stregua, ma da tempo immemore, si sono comportate nei confronti delle confessioni religiose. Chiaro dunque che, quando si tratta di non profit confessionale, il favore si eleva al cubo. Con il risultato che c’è chi ormai considera lo Stato come un bancomat, come fa tutta la compagnia di giro di Comunione e Liberazione. È una spirale potenzialmente infinita. Ma il movimento integralista fondato da don Giussani e i politici (tanti) che ne fanno parte non vanno considerati un’eccezione alla regola, quanto piuttosto un’estremizzazione di un fenomeno sempre più perverso.

Si pensi alle Caritas. Sono organismi pastorali, finalizzati quindi all’insegnamento e alla diffusione della dottrina cattolica. Prendiamo, a caso, lo statuto della Caritas di Albano: il primo degli scopi elencati è “approfondire le motivazioni teologiche della diakonia della carità, alla luce della Parola di Dio e del Magistero della Chiesa, in sintonia con i progetti pastorali della Chiesa diocesana”. Le Caritas sono infatti anche organismi diocesani (e a cascata parrocchiali): altrimenti detto, sono mere strutture alle dipendenze dei vescovi e funzionali alle loro strategie. Anche Caritas Italiana (che le raggruppa) è un organismo Cei. Fiscalmente rientrano dunque nella normativa delle diocesi, in quanto ne sono — sintetizzando al massimo — non più di una ramificazione dotata di un proprio statuto.

Nonostante, grazie alla compiacenza dei mezzi di informazione, godano di un’immagine senza eguali nell’ambito del volontariato, le Caritas sono ampiamente finanziate dai Comuni. Alcuni casi sono addirittura eclatanti: dal Comune di Roma che devolve loro le monetine lanciate nella Fontana di Trevi (chi le ruba viene invece arrestato), al Comune di Treviso, che ha emanato un’ordinanza anti-mendicanti per cui i soldi loro sottratti dalla polizia municipale finiscono alla struttura cattolica, fino al Comune di Caserta, che ha promesso che quanto otterrà con il Cinque per Mille lo girerà interamente alla Caritas.

Troviamo facilmente le Caritas negli albi dei beneficiari dei Comuni: le amministrazioni sono tenute per legge a rendicontare a chi danno anche solo un centesimo, ma le Caritas non sono obbligate a rendicontare come utilizzano i fondi pubblici che ricevono. Non sembrerebbero nemmeno tenute a dare particolare pubblicità ai loro bilanci: quantomeno online, se ne trovano pochissimi. Non siamo stati capaci di trovarli sui siti della Caritas di Roma e di quella ambrosiana. E anche il denso rapporto 2014 di Caritas Italiana, che pure enumera tante iniziative meritevoli, non entra però nel merito delle entrate e delle uscite. Quando siamo fortunati a trovare un rendiconto (come quello della Caritas di San Miniato) e lo analizziamo, notiamo che i fedeli offrono poco, e poco finisce ai bisognosi. La gran parte delle entrate arriva infatti dall’Otto per Mille (cioè dallo finanze pubbliche). Diverse diocesi risultano peraltro ricorrere anche al servizio civile, quindi con ulteriori oneri a carico delle finanze pubbliche.

caritas

Una forza lavoro che il governo vorrebbe ora addirittura incrementare. Sulla falsariga del servizio civile, nei giorni scorsi il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha proposto il “lavoro comunitario”. Bisogna fare in modo, ha affermato, che “nessun italiano in buone condizioni di salute che riceve un sussidio, per ragioni diverse, resti a casa a non fare nulla. Chi riceve legittimamente un aiuto dalla comunità perché ha perso temporaneamente il lavoro, sarebbe giusto che offrisse la sua disponibilità per quello che io chiamerei un ‘servizio comunitario’. Per fare un esempio potrebbe rendersi disponibile a distribuire i pranzi alla Caritas o assistere gli anziani”.

Se quest’ultimo esempio zoppica (che fine farebbe l’accompagnamento?), quello della Caritas è indicativo dei riflessi condizionati clerical-pavloviani dei nostri politici. A Poletti non viene proprio in mente che ci sono numerosi servizi di pubblica utilità a cui potrebbero essere dedicate queste persone? Che fine ha fatto l’assistenza sociale? Non ritiene, il ministro, che un servizio comunitario pagato da uno Stato laico dovrebbe essere improntato a laicità? Perché lo Stato deve costringere un bisognoso non cattolico a chiedere la carità a una struttura cattolica? Domande per ora senza risposta. Pare proprio che la frequentazione del Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione da parte di Poletti abbia dato anche in questo caso i suoi frutti.

Del resto, alle Caritas quanto (tanto) arriva non basta più. Monsignor Enrico Feroci, alla guida della Caritas della diocesi di Roma, è stato chiaro: “c’è una tale richiesta d’aiuto, oggi, che le istituzioni non possono chiudere gli occhi affidando tutto alla volontà di chi si mette al servizio dei più bisognosi, dovrebbero capire che i poveri sono parte della nostra società, persone con dei diritti. Ci vorrebbe più sinergia tra pubblico e privato”. Tanto chiaro è stato da dettagliare la richiesta: “A Roma esistono tanti edifici pubblici abbandonati, io stesso ho chiesto più volte a Comune, Regione e altri enti, di affidarceli in modo da poter realizzare nuovi ostelli, mense, case di accoglienza dandoci anche una mano a gestirli”.

Il più grande proprietario immobiliare del paese, che dispone di tante chiese sempre meno frequentate e di tanti conventi ormai vuoti, chiede che siano messi a sua disposizione gli edifici inutilizzati dello Stato. In tal modo la Chiesa potrà continuare a chiedere ai Comuni stessi cambi di destinazione d’uso che le porteranno ulteriori profitti: come è accaduto a Ravenna, dove il vescovo è finito indagato, e come sta accadendo a Genova, nella diocesi guidata dal capo dei vescovi italiani.

L’articolo 97 della Costituzione stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. Erogare contributi a realtà di parte che non rendono conto di come li utilizzano e che non spiegano quale forza lavoro utilizzano e a quali condizioni contrattuali ne costituisce una violazione evidente. Non esistono altre realtà a cui sia concesso tanto. Sappiamo tuttavia che è un tema scomodo. Tanto scomodo che nessun organo di informazione trova il coraggio di denunciarlo.

La redazione

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