“Cervelli”, la fuga all’estero è in crescita

Sono 1468 gli scienziati italiani che lavorano all’estero in prestigiose istituzioni: 290 quelli impegnati nella ricerca medica. Il numero viene fuori dal database on line “Da Vinci”, una iniziativa del ministero degli Esteri, avviata nel 2003, che monitora costantemente il continuo flusso di cervelli in fuga dall’Italia. Questa cifra ufficiale, tra l’altro, sarebbe solo il 30% di quella reale perché riguarda soltanto quei ricercatori che volontariamente si sono registrati al sito. Cosa che, ad esempio, non hanno fatto Carlo Croce e Pier Paolo Pandolfi, tra i maggiori onco-ricercatori del mondo. Se la stima è esatta, dunque, gli scienziati italiani nel mondo complessivamente dovrebbero essere 6-7 mila e circa un migliaio i ricercatori medici all’estero. Se un ministero ha deciso di attivare un simile database, con un nome così simbolico, è segno che il problema è reale e sta raggiungendo dimensioni sempre più preoccupanti. Un flusso che cresce in continuazione al ritmo vertiginoso di 20-30 al mese: erano 1411 infatti solo nel luglio scorso. La “fuga” di cervelli dall’Italia continua ancora. Adesso, oltre alla ricerca di base, investe anche coloro che praticano la medicina nelle diverse specializzazioni. Sono medici che non trovano in Italia condizioni di lavoro adeguate alle loro competenze (o non trovano proprio lavoro) e contesti di ricerca stimolanti. Nel settore medico, quasi il 50% dei ricercatori italiani all’estero si trova negli Usa, con 133 sul totale dei 290 medici emigrati. Il resto si trova sparso nel Nord Europa e persino in Asia, Sudamerica e Medio oriente. Sono tutti uomini e donne nati e vissuti in Italia almeno fino all’età di 30 anni. Dopo la laurea in Medicina e la specializzazione, hanno accettato borse di studio da Paesi esteri o anche italiane e poi offerte di lavoro sempre più competitive rispetto alla patria. Ma quali sono le ricadute sull’assistenza medica al paziente in Italia di questa continuo defluire di risorse umane? Basterà citare il dato di 57 oncologi italiani assunti da università e ospedali stranieri in varie parti del mondo e che non sono più rientrati. […]

Il testo integrale dell’articolo di Susanna Jacona Salafia è stato pubblicato su “Repubblica Salute”

9 commenti

Carlo

Infatti, benche’ la definizione di “cervello” mi sembra un po’ esagerata nel mio caso 🙂 non sono registrato al sito del Ministero degli Esteri. Comunque e’ facile capire cosa vogliono dire questi dati: che il paese italia spende migliaia di euro per formare uno studioso altamente specializzato e qualcun altro ne gode i benefici. Alcune di queste persone se ne vanno per avere un futuro piu’ brillante, ma la maggioranza lo fa per necessita’…. riflettete.

Silvia Viterbo

Quando ai concorsi per accedere al dottorato di ricerca mi sono ritrovata a competere con ricercatori quarantenni con pluriennale esperienza di lavoro che, nell’impossibilità di accedere all’insegnamento o di ottenere altri contratti o assegni di ricerca, tornavano a concorrere per una borsa di studio di 800 euro al mese, ho deciso di cambiare strada. In realtà la ricerca in Italia è oggi un lusso o piuttosto un costoso passatempo che non i più meritevoli ma solo i più abbienti possono permettersi di praticare, con le conseguenze che potete ben immaginare non solo sulla preparazione e la competenza di coloro che dovranno essere i docenti del futuro (e quindi, a cascata, anche degli studenti che dovranno poi preparare) ma persino sulla qualità stessa della nostra democrazia.

mauro cassano

Questo è lo sciagurato effetto di politiche dissennate e aggressive nei confronti della ricerca, di una cultura ostile e pregiudizievole nei confronti dei suoi uomini e delle sue donne e dei discorsi vacui di chi vorrebbe introdurre limiti di natura etica, religiosa, intellettuale alla scienza (che già ne ha e checchè ne dicano o pensino i suoi detrattori, non è pazza!).

Se esiste un’etica questa dovrebbe indurre le sante alleanze antiscientifiche e antidemocratiche a vergognarsi per il trattamento che riservano alla parte migliore del nostro paese.

Stefano

In realtà il problema italiano sta tutto nel fatto che in ogni campo si è creata quella che viene definita baronia e questo sistema distorto si vede soprattutto nell’ambiente medico. Queste persone di grande talento non riescono ad insegnare perchè ad insegnare ci vanno solo i soliti raccomandati e non possono aspirare nemeno ad un’occupazione pratica decente per lo stesso motivo. Cosa gli rimane da fare? Ovviamente andare in posti dove le loro competenze vengono riconosciute, dove non gli vengono messi i bastoni tra le ruote per motivi morali o religiosi ma dove l’unica cosa che gli si chiede è di guarire i malati curandoli fisicamente o inventando medicine efficaci.

A&L

La ricerca scientifica in Italia è bloccata. E indovinate per colpa di chi…

Silvia Viterbo

X STEFANO E’ vero, la “baronia” è una realtà diffusa ovunque, in tutti gli atenei e in tutti i settori della ricerca ma, anche godendo della protezione di un barone, i fondi destinati alla ricerca e le opportunità di lavoro sono così esigui da rendere comunque troppo rischioso intraprendere questo tipo carriera per chi non ha una certa stabilità economica alle spalle. Vorrei ricordare che la riforma Moratti ha ridefinito la figura del ricercatore rendendola “a scomparsa”, prevedendo cioè un limite temporale massimo di 10 anni per i contratti di ricerca, scaduti i quali non sarà più possibile alcun rinnovo. Tradotto in pratica, questo significa che un neodottore ha tempo 10 anni (di precariato, bene inteso, perchè i contratti sono spesso di durata annuale) per conquistarsi una cattedra, dopo i quali o viene assunto come docente da qualche università oppure resta a spasso. A quarant’anni. Chi si arrischia a intraprendere questa carriera senza possedere un minimo di garanzie economiche?

Germano

Gente, chi ha visto oggi Striscia La Notizia? Parlava di un dipartimento dell’università di Bari dove c’era una famiglia intera, tutti ricercatori lì.

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