E l’uomo creò gli dei. Come spiegare la religione

Pascal Boyer
Odoya
2010
ISBN: 
9788862880732

C’è forse un motivo in più per cui tanti leader religiosi non vedono di buon occhio la teoria dell’evoluzione, un motivo a cui non si presta troppa attenzione: il fatto che la teoria dell’evoluzione abbia fatto il suo ingresso negli studi sulla religione. Un ingresso a vele spiegate, tra l’altro, anche perché si concentra su un aspetto fondamentale, l’origine stessa della religione. Negli ultimi anni sono stati pubblicati alcuni libri fondamentali per quanto riguarda questi studi: Rompere l’incantesimo di Daniel Dennett, L’illusione di Dio di Richard Dawkins, e Nati per credere, di Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara. Il libro di Pascal Boyer è altrettanto fondamentale, e può inoltre vantare il fatto di essere uscito prima degli altri, che infatti lo citano e si confrontano con le teorie che avanza. Non era purtroppo ancora stato tradotto in italiano: a colmare questo scandaloso buco provvede meritoriamente ora la casa editrice Odoya.

Chi ha letto i libri sopracitati, o quantomeno qualche recensione loro dedicata, ha già più o meno presente l’ambito di indagine e le modalità di ricerca. Può però essere utile ricordare brevemente che l’obbiettivo, comune a tutti gli studiosi, è di cercare di capire quale vantaggio, dal punto di vista evoluzionistico, può aver assicurato la religione alla specie homo sapiens. Per i sociobiologi, sempre molto affascinati dalla teoria della selezione di gruppo, la religione, come del resto ogni forma di espressione culturale, costituisce un adattamento che offre vantaggi competitivi sconosciuti alle altre specie. Dawkins e Dennett ritengono invece che la religione sia solo un, per quanto «sontuoso», effetto secondario di qualcos’altro: della propensione a obbedire ai genitori, secondo il primo; di quella a innamorarsi, sostiene il secondo.

Pascal Boyer, prima ancora di confrontarsi con le altre proposte di matrice evoluzionista, spiega i motivi per cui, a suo parere, occorre accantonare le spiegazioni tradizionali sulla funzione della religione, che ritiene si possano ridurre a quattro: fornire una spiegazione del mondo e dei fenomeni naturali; offrire un conforto in grado di alleviare le sofferenze della vita e la paura della morte; garantire ordine sociale, assicurando moralità e coesione; far leva sulla superstizione e la credulità della gente.  Prescindendo, ovviamente, da quella, ben poco scientifica, secondo cui la religione esiste perché Dio esiste. Tutte queste spiegazioni, tuttavia, possono essere in qualche modo smentite: esistono religioni che non danno spiegazioni sul funzionamento del mondo, o che non concepiscono l’aldilà. Inoltre, va ricordato che la morale precede logicamente e temporalmente la religione, e che «credere non significa solo accettare passivamente quanto detto da altri»: infine, esistono innumerevoli «possibili affermazioni prive di fondamento a fronte di un numero ristretto di temi religiosi», benché la loro varietà sia quantomeno «straniante». Per spiegare la religione, dunque, «occorre spiegare come le menti umane esposte costantemente a un’ampia varietà di materiale potenzialmente religioso riescano costantemente a operare una riduzione». «Da sempre e in ogni istante», scrive Boyer, «innumerevoli varianti di concetti religiosi sono state e sono concepite all’interno delle menti umane». Perché alcune sono prese in considerazione e vengono trasmesse, e perché altre no?

La teoria di Boyer è legata ai meccanismi di funzionamento del cervello umano e alla sua capacità di elaborare informazioni generando inferenze. Il suo punto di partenza è la tesi di Dennett secondo cui una delle differenze fondamentali tra noi e le altre specie animali risiede nel fatto che il nostro cervello è in grado di comprendere che altre entità (umane e non) sono “sistemi intenzionali”, capaci cioè di azioni determinate da intenzioni. Una capacità ancestrale, che si sarebbe rivelata indispensabile nel momento in cui la nuova specie, prima ancora di cominciare a colonizzare il pianeta, doveva difendersi dai predatori della savana africana. Boyer amplia tale concetto, e lo estende alle concezioni religiose: la mente non sarebbe altro che un insieme di moduli che, nati per rispondere a specifici problemi adattativi, hanno poi generato effetti secondari. In particolare, la capacità di avvertire presenze è sfociata nella possibilità di avvertire la presenza di entità inesistenti; la capacità di poter fornire spiegazioni in forma narrativa ha generato la capacità di creare storie concernenti quelle entità; e l’attribuire intenzionalità a quelle entità potrebbe aver portato a cercare di avviare relazioni con esse, in forma cultuale.

Chiare le conseguenze di questa impostazione: la credenza in Dio non sarebbe innata, ma innati sarebbe invece gli schemi mentali che la rendono concepibile, e quindi trasmissibile ad altri. «Disporre di un cervello normale», del resto, «non implica automaticamente che si abbia una religione», come l’esistenza di lettori di questa recensione e su questo sito comprova: «significa solo che si può acquisirne una». È un approccio inverso a quello dei sociobiologi, che ritengono invece che il cervello sia un prodotto dell’evoluzione condizionato, quantomeno parzialmente, dai mutamenti culturali.

Ogni fenomeno culturale, secondo il punto di vista di Boyer, non sarebbe dunque altro che «il risultato di una selezione che ha luogo incessantemente e dappertutto». Una conclusione controintuitiva, ammette lo stesso autore, osservando come l’appartenenza religiosa sia una delle forme di trasmissione culturale più efficaci. Eppure accade. La religione è indubbiamente un fenomeno culturale molto particolare: si può arrivare a scannarsi, in nome di Dio, ma nulla del genere si verifica in nome dell’astrattismo. Perché la religione attira e scalda gli animi come nessun altro fenomeno culturale riesce a fare? La tesi della scuola antropologico-cognitivista, sulla scia di Sperber, è che i misteri culturali, essendo più evocativi, sono anche i più facili da ricordare. Secondo Boyer, ciò che attrae di uno storia è che contiene un particolare, ma un solo particolare, che viola le attese. Se ve ne fossero due, la storia non sarebbe considerata plausibile. Ecco perché la mente è portata ad accettare che Dio esista, ma non che esista «solo di mercoledì»: la violazione deve essere circoscritta.

Sarebbe questo il brodo di coltura delle attuali religioni. Il loro mantenersi sarebbe dovuto alla trasmissione culturale, soprattutto quella promossa dalla società in cui si vive. «Le persone non inventano dei e spiriti dal nulla, ma ricevono informazioni che le inducono alla costruzione di tali concetti sovrannaturali»: se il vostro vicino crede negli angeli anziché negli spettri, è solo perché è cresciuto in un ambiente, familiare e sociale, in cui la gente parlava di angeli. La stabilizzazione sarebbe ulteriormente assicurata dall’effettuazione di rituali a opera di operatori specializzati, che a loro volta tendono a costituirsi in corporazioni e a elaborare dottrine in grado di assicurare anche il proprio mantenimento: esigenza indispensabile, in un mercato in cui si offrono «servizi che potrebbero essere forniti facilmente anche da altri concorrenti». Di qui l’ulteriore necessità di ricorrere all’influenza del potere politico. Tutte circostanze che consentono di spiegare perché «la religione è una cosa probabile», mentre la scienza è controintuitiva. E anche perché confessioni religiose come il cattolicesimo continuano a mantenere la loro influenza, nonostante «l’imbarazzante» constatazione che, «ogni volta che la Chiesa ha provato a proporre la propria descrizione di cosa accade nel mondo e che la scienza ha offerto una soluzione alternativa, quest’ultima si è sempre dimostrata la migliore».

Il punto debole dell’interessante costruzione di Boyer, a mio avviso, è la parte sull’edificazione delle religioni. Il sottotitolo, in effetti, è un po’ ingannevole: qui non si spiega l’ordine della religione, ma della credenza. Quanto accade (o, meglio, accadde) dopo è frutto di speculazioni molto più arbitrarie: l’attribuzione di caratteristiche specifiche alle entità sovrannaturali, la loro connessione con i defunti, l’attribuzione ad alcuni elementi più ‘dotati’ dell’esclusività del rapporto con quelle entità, la nascita delle dottrine. Manca in particolare una spiegazione attendibile del perché una particolare concezione religiosa si diffonde fino a essere condivisa dalla maggioranza di una comunità: la spiegazione più razionale, e anche più documentata (l’imposizione attraverso la  coercizione) non sembra particolarmente stimata dall’autore, visto che ne prescinde.

Già A.C. Grayling aveva notato come le spiegazioni classiche sull’origine della religione non siano comunque state scalfite da ciò che sostiene Boyer: le funzioni che possono svolgere costituiscono anzi ancora oggi, per centinaia di milioni di persone, un’ottima ragione per continuare a credere. Ma queste critiche a loro volta non scalfiscono l’importanza di E l’uomo creò gli dei, che fornisce una delle migliori spiegazioni esistenti per la nascita delle credenze nel sovrannaturale. Fino a prova contraria, naturalmente. Ma i teologi hanno sinora dimostrato una certa refrattarietà ad avventurarsi in questi perigliosi mari.

Raffaele Carcano

Ottobre 2010