A dio spiacendo

Shalom Auslander
Guanda
2010
ISBN: 
9788860887580

E’ un libro da non perdere e sono grata a chi l’ha segnalato nella ML uaar: ho passato un paio d’ore veramente piacevoli, tanto spasso e profondità di contenuti insieme mi fanno pensare al Mark Twain di “Lettere dalla Terra” per esempio, benché lo stile sia diverso. Ironia e sarcasmo in una critica feroce all’ortodossia della religione ebraica in cui è stato educato possono ben applicarsi a qualsiasi religione, in particolare alle sue forme più integraliste e a qualsiasi fideismo acritico, a qualsiasi dogma indiscusso e indiscutibile. Per esempio le sue dissertazioni sul carattere irascibile del Grande Vecchio che si diverte sadicamente a perseguitare le sue creature (“violenza teologica” la chiama l’autore), a creare loro difficoltà di ogni genere che rendono la vita non solo poco godibile, ma una continua corsa ad ostacoli sotto la perenne minaccia di punizioni e ritorsioni, nel caso che i suoi precetti non vengano seguiti come detta, che le costringe a una stremante contabilità spirituale:
«Obbedire a una prescrizione negativa valeva la stessa ricompensa nel Mondo a venire che adempiere a un comandamento positivo? L’inazione delle prescrizioni negative sarebbe stata ricompensata quanto l’azione deliberata dei comandamenti positivi? E se era così, Bernstein non si sarebbe potuto limitare a non fare le cose soggette a proibizioni in questo mondo e ottenere comunque una ricca ricompensa nell’altro, anziché fare attivamente le cose che erano positivamente comandate, solo per ottenere più o meno lo stesso premio nel Mondo a venire che avrebbe ottenuto semplicemente non facendo quanto era stato proibito? […] era solo il “non fare” che interessava a Dio? La cosa provocava a Bernstein terribili mal di testa”
Questo è solo un esempio dal primo dei 14 racconti gustosissimi della raccolta, abbondantemente conditi di sale, pepe e peperoncino, uno più esilarante dell’altro. La verve felice di questo scrittore riesce a mettere a nudo il grottesco, il paradossale e certa crudeltà costitutivi delle religioni per sottoporle a seria riflessione attraverso il ridicolo.
Con l’irriverenza che gli è propria fa il verso a Dio, quel Dio di pessimo umore, capriccioso e vendicativo dell’Antico Testamento; accusato e vilipeso, eppure un Dio a cui l’autore non nega la maiuscola, segno di quanto seriamente se ne occupi, nonostante il riso che suscita. Si legge in filigrana l’educazione ricevuta nell’ambiente di asfissiante osservanza ortodossa, imbastita di divieti e timori, di punizioni e privazioni in un clima di assoluta tensione, sia nella scuola religiosa, sotto lo sguardo severo del rabbino, sia in famiglia, dove l’osservanza è spesso una forzatura di facciata, è la Tradizione, infarcita di gesti ripetitivi e svuotati di senso, è l’abitudine e la routine, da cui l’autore ne esce con la forza liberatrice della letteratura; o meglio, con la disobbedienza consapevole e l’affermazione del proprio io unico e assertivo, il desiderio insopprimibile di affrancarsi dall’oppressione, diventano stimolo alla creatività e all’espressione letteraria.
Dopo questo libro ho letto anche il suo precedente tradotto sempre da Guanda, Il lamento del prepuzio: sullo stesso tema in chiave più autobiografica, altro godimento altrettanto consigliabile.

Antonietta Dessolis
settembre 2010