La fine del mondo

Guida per apocalittici perplessi
Telmo Pievani
Il Mulino
2012
ISBN: 
9788815240439

A cimentarsi in un’ermeneutica dell’Apocalisse sono stati, nel corso dei secoli, fior di luminari tra scienziati, teologi, poeti e comici. Quest’ultimi, eminenti signori dell’improbabile, presentano la cornice meno pallosa ed indigesta, finanche la più accettabile in termini di equità, attesa l’intrinseca capacità che ha l’umorismo fantasmagorico di trovare sempre e comunque la quadra (Douglas Adams e Paolo Villaggio docent). Ma perché l’uomo è stato sempre ossessionato dalla fine del mondo? Perché, soprattutto, ha immaginato una forma così aulica per la frantumazione dell’Universo? Telmo Pievani, con elegante disamina, ci permette di rispondere a queste domande attraverso alcune formidabili parole chiave in cui sono suddivisi i cinque capitoli di questo interessante libro: Catastrofe, Disastro, Nemesi, Estinzione, Apocalisse, declinati in chiave evoluzionistica. Con un retropensiero pregno di asciutta saggezza: le ecatombi ci sono sempre state e sempre ci saranno perché nuova vita abbia inizio. Come nella storia umana dove una civiltà tramonta per dare vita ad una nuova Era lasciando il posto a nuove genìe e dinastie. Purché il parallelismo sia visto solo in funzione meramente euristica e descrittiva. Pievani è molto schietto in questo: nessun disegno unificatore, neanche in nome dell’Evoluzione: “La realtà dell’estinzione di massa cambia profondamente la visione della storia della vita, perché non sembra esservi in essa alcun vettore di progresso direzionale e cumulativo”. Non a caso tra i più citati nel libro troviamo il paleontologo Stephen J. Gould e il filosofo Giacomo Leopardi, insofferenti, su fronti diversi, all’insopportabile antropocentrismo di “un primate di grossa taglia che abita il terzo pianeta di un sistema solare periferico”.

Se qualcuno infatti ha elaborato un’estetica del brutto (Rosenkranz) guardando al lato B dell’arte, rivelando inusitate tassonomie ( c’è chi come Tom Petty ha cantato in the dark of the sun, we will stand toghether, che con empirica filosofia spicciola dovrebbe poter dire che anche all’ombra non si vive poi così male) si può, e per certi versi si deve, cogliere il carattere pedagogico rispetto alla sempre incipiente minaccia dell’Armaggeddon. Scorrendo le pagine di Pievani vengono alla mente le parole di Serge Latouche, ideologo della decrescita, che in un’affollata conferenza a Padova, ebbe a dire, in soldoni, che l’uomo è un animale abitudinario che non percepisce il pericolo se non quando arriva con l’acqua alla gola e che ha bisogno di continue piccoli catastrofi per reagire e resettarsi. Sempre che ce ne sia il tempo. L’Homo sapiens, erede fortunato, quanto casuale, di passate catastrofi (senza le quali non sarebbe mai apparso sulla terra) si caratterizza per un’esemplare stupidità che potrebbe portarlo a distruggere “il libro della vita prima di averlo letto” (Rees), in una più che banale Apocalisse laica perpetrata dalla miopia che ci porta a pensare che la cura del pianeta non sia in fondo affar nostro o non sia una faccenda poi così dannatamente seria come la si vuole fare apparire, bypassando la grave responsabilità che abbiamo verso i nostri discendenti ai quali rischiamo di lasciare una terra sicuramente più povera e sempre meno ospitale. In attesa che il grande asteroide arrivi a spazzarci via tutti, primum vivere, viene da dire.

A chiare lettere Pievani prova a spiegarci, per rispondere ai quesiti posti all’inizio, che il fascino per la catastrofe deriva dal tentativo di dissimulare la paura di scomparire per sempre, di sublimare la consapevolezza della nostra finitudine, la non necessarietà in questo mondo, che cozza profondamente con il nostro narcisismo di creature che non accettano di essere quello che sono (per dirla con Sartre). E prova anche a smontare quei residuati di redde rationem legati alla fine del mondo che tanto appassionano gli apocalittici mistici e i profeti di sventura (e correlati affaristi del grande business della catastrofe). A capirne il senso profondo “La fine del mondo” è una vera pietra tombale ad ogni velleitaria teleologia tipica dell’homo religiosus, con un finale mozzafiato che si risolve in un temperato tragico ottimismo.

Stefano Marullo

gennaio 2013