Contro l’etica della verità

Gustavo Zagrebelsky
Laterza
2008
ISBN: 
9788842085256

Sta riscuotendo un discreto interesse, questo libro dell’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky. Il volume contiene la rielaborazione di diversi suoi interventi, quasi tutti originariamente pubblicati su la Repubblica. Il titolo si presta a potenziali fraintendimenti, ed è per questo che l’autore precisa, già nella premessa, che «contro l’etica della verità significa a favore di un’etica del dubbio. […] L’etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità dogmatica». E quando si parla di verità dogmatica si sa dove si vuole andare a parare: ed è per questo che il volume merita di essere inserito nella Biblioteca del sito UAAR.

Il libro è un’ampia riflessione (meglio ancora: una raccolta di ampie riflessioni) sulla democrazia e sulla laicità: cosa significano questi concetti, qual è la loro forza, quali sono le difficoltà nel tradurli in pratica, chi si batte contro il loro pieno dispiegamento. Democrazia e laicità sono strettamente connesse: la democrazia è lo spazio in cui i cittadini confrontano le rispettive opinioni, le articolano in proposte, le scelgono attraverso meccanismi, per l’appunto, democratici. La laicità è una delle modalità di protezione della democrazia: impedisce infatti che il confronto e i meccanismi democratici siano ostacolati da alcuni gruppi di pressione (nel caso specifico: quelli religiosi) intenzionati a imporre il proprio punto di vista prescindendo dal rispetto delle regole condivise. Spesso, rifiutando tout-court l’instaurazione di regole condivise.

Se tocca, ancora una volta, ripartire da capo con la spiegazione di concetti fondamentali è perché negli ultimi tempi la sfida portata da questi gruppi di pressione si è fatta sempre più audace. Tutti sono consci della minaccia rappresentata dall’integralismo islamico; tanti sono consapevoli dei rischi che comporta il fondamentalismo evangelico USA; pochi, specialmente in Italia, e specialmente nel mondo politico e nei mezzi di informazione, sembrano rendersi conto del pericoloso attacco all’ordinamento democratico che avanza la Chiesa cattolica.

Il ripristino dell’antica supremazia religiosa viene perseguito, in Vaticano, attraverso strategie nuove di zecca. Il terzo millennio, inaugurato in pompa magna con il giubileo, è stato contrassegnato dall’ossessivo richiamo alle radici cristiane che, nei precedenti due, il nostro continente avrebbe fatto proprie. I promotori d’identità, come li definisce Zagrebelsky, non estendono ovviamente tale strategia a continenti, come l’America o l’Africa, dove l’affermazione del cristianesimo è avvenuta manu militari con il colonialismo: la perseguono solo in Europa, e la perseguono (retaggio storico, questo sì irrimediabilmente radicato) da «conquistatori» che «combattono una battaglia di egemonia culturale che non è solo per, ma innanzitutto contro». Contro il pluralismo delle opinioni, a favore di «un’identità militante che ci renda riconoscibili non gli uni verso gli altri, ma gli uni contro gli altri»: «una concezione dell’identità acritica e aggressiva che corrisponde all’idea di sé propria delle società tribali».

Ancora una volta si ripropone il vecchio dilemma: può la democrazia ammettere al confronto democratico chi lo rifiuta in toto, salvo laddove (e fintanto che) gli consente di imporre a tutti i propri (parziali) convincimenti? La democrazia è fatta di decisioni rivedibili, indipendenti da verità assolute: è proprio non basandosi sulla verità, è proprio sul rifiuto che esista una verità che si apre uno spazio per la convivenza di opinioni diverse. La democrazia è dunque incompatibile con il dogma, come già sosteneva Kelsen: una considerazione che finisce per renderlo, «tra tutti i regimi politici, il più fragile». Circostanza che non è per nulla sfuggita a Benedetto XVI, che ha astutamente fatto propria (strumentalizzandola in parte) la considerazione di Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo cui «lo Stato libero secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può mantenere». Formula ambigua e facilmente confutabile: forse che la stessa Chiesa cattolica non ha vissuto la propria ascesa a religione di Stato su presupposti (l’appoggio della struttura imperiale romana) che essa stessa non sarebbe mai riuscita a garantire? Ma la formula contiene un nocciolo di verità: solo lo Stato libero, democratico, laico e secolarizzato ammette nell’arena politica la presenza di chi lo vuole combattere.

Se poi i gestori dell’arena politica, anziché essere neutrali, si mettono a fare il tifo proprio per coloro che li vogliono distruggere, magari ammantando le proprie rivendicazioni sotto formulazioni solo apparentemente più accattivanti come quella della «sana laicità», ecco che dobbiamo assistere a «un’iper-rappresentazione delle posizioni della Chiesa a scapito di quelle diverse» e, specularmente, a «un’ipo-rappresentazione delle posizioni dei non credenti e di coloro che appartengono a confessioni religiose diverse dalla Chiesa». E se per i politici i cittadini sono soprattutto elettori, la Chiesa non tratta gli individui molto diversamente: «In tema di concepimento della vita, maternità, cure terapeutiche, eutanasia, questioni di bioetica in generale, il magistero della Chiesa parla più di Vita che di viventi; in tema di sessualità, più di Ordine naturale che di persone sessualmente caratterizzate; in tema di unioni tra esseri umani, più di Famiglia che non di soggetti che hanno tra loro relazioni di vita concreta».

La delusione di Zagrebelsky è palpabile, c’è quasi rassegnazione nelle sue parole. «Su simili premesse, è chiaro che il dialogo onesto che si auspicava è impossibile», anche perché le poche aperture appaiono opportunistiche, dettate da ragioni tattiche: «Che senso avrebbe il libero confronto democratico se una parte dicesse: fate quel che volete, io non sono disposto a stare ad ascoltarvi (ma voi dovete ascoltare me), perché io ho la verità in tasca, non ho bisogno di andar cercandola»?

L’autore esprime più volte la propria costernazione per la svolta reazionaria che ha vanificato le aperture del concilio Vaticano II. A mio parere, la sua è soprattutto nostalgia di eventi non avveratisi, perché quel concilio non rappresentò certo una netta cesura nel magistero ecclesiastico, quanto piuttosto un prudente aggiornamento, peraltro già ben temperato da Paolo VI: ed è per questo che la sua inclusione nella premessa delle modifiche concordatarie del 1984 fu più una formale citazione che la base di un rinnovato rapporto tra Stato e Chiesa. Alla stessa stregua possono considerati gli auspici di un ritorno alla morale predicata nei Vangeli, che non sono né compatti né cristallini né, ahinoi, rivedibili: sono anch’essi un dogma, come molte delle posizioni che l’autore contesta. I Vangeli, volente o nolente, sono ancora oggi la base del magistero ecclesiastico: senz’altro interpretati e distorti per interessi contingenti, ma comunque scritti in modo da tale da poter essere interpretati e distorti.

Sebbene sia basato su materiale composito, il risultato finale mostra una visione ben definita, frutto di un’alta scienza giuridica mai chiusa in se stessa, ma anzi aperta agli stimoli di altre discipline e laicamente messa a disposizione di tutti e al confronto con tutti. Un’attitudine che a canonisti e teologi sembra purtroppo continuare a mancare.

Raffaele Carcano
Marzo 2008